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Home ›Il presente è grigio ma il futuro è nero
Anno nuovo, musica vecchia, per di più suonata con un consunto spartito definito di… sinistra. Una “sinistra” che non disdegna gli abiti sovranisti, indossati al servizio del capitale statale purché esso si ponga sulla strada di una apertura dei mercati quale “declinazione progressiva dell'ideale patriottico e del concetto di nazione”. In nome, naturalmente, del popolo e del “concetto di comunità” così come viene inteso da chi racconterebbe le nascoste virtù di un rinnovato capital-socialismo. Lo stesso – eccoci ad un altro vanto sovranista! – che ebbe i suoi natali nientemeno che nell’Italia (fascista) dell’IRI, esaltato come un “modello _invidiato e studiato da tutti al mondo_” in alternativa al capitalismo. E qui entra in scena la Cina con i suoi progressi “grazie all’intervento dello Stato nell’economia e a una forte programmazione centralizzata”. Si tratterebbe della miracolosa ricetta per “contrastare” la povertà: “Lavoro (tanto) e salari dignitosi” per tutti. Sia lo Stato ad investire capitale, subito, per ricavare un giuso profitto, domani…
Quindi, vogliamo pure noi l’alta velocità (quotata in Borsa), anche se il sistema ferroviario cinese si trascina un debito di 750 mld col quale il mercato “socialista” si libererebbe dalle importazioni (di merci), introducendo una produttività ad alta tecnologia e robotica. Quindi un “socialismo” rispettoso di quelli che sono i fondamentali rapporti di produzione capitalistici. Per il resto ci si preoccupi di stabilire vantaggiosi “agganci valutari per l’export di merci” (?) senza vincoli esterni: è così che si realizzerebbe il socialismo!
Abbiamo intanto letto sul New York Times che -- a seguito del maxi taglio dei tributi voluto da Trump a favore dei gruppi industriali e delle elité di Wall Street -- il governo federale si appresterebbe a
raccogliere centinaia di miliardi di dollari in meno nel prossimo decennio rispetto a quanto precedentemente previsto. Il deficit di bilancio è salito di oltre il 50% da quando Trump è entrato in carica e si prevede che raggiungerà 1.000 miliardi di dollari nel 2020, in parte come risultato della legge fiscale.
Si tratta, per l’aliquota sul reddito d’impresa, di un taglio dal 35 al 21%, quando già gli Usa nel 2018 hanno registrato un forte calo delle entrate fiscali, peggiorando il loro già alto deficit di bilancio. Alla faccia di chi (dalle teorie di Mellon alla curva di Laffer) sosteneva “scientificamente” che applicare un regime tributario leggero avrebbe consentito alle grandi imprese di aumentare investimenti, posti di lavoro e rilancio dei consumi di merci. Ma gli investimenti continuano a rallentare, soprattutto nel settore manifatturiero, mentre il commercio internazionale è in evidente difficoltà. Il peggioramento della bilancia commerciale Usa, non solo nei confronti della Cina, non va trascurato ed alimenta le minacce di dazi avanzate da Trump. Le esportazioni americane sono cresciute del 7,7% ma le importazioni dell’8,4%. Considerando le sole merci, il deficit americano è passato da 659 a 732 miliardi di dollari (+73 mld). Il saldo negativo nei confronti della Cina è passato da 309 a 344 miliardi (+35 mld), cifra pari al 47% del deficit totale, mentre quello verso l’Eurozona è aumentato da 105 a 124 miliardi (+19 mld). Il deficit è migliorato nei confronti di Giappone (da 58 a 56 mld) e Corea del Sud (da 19 a 15 mld), mentre è peggiorato verso Germania (da 52 a 56 mld), Messico (da 59 a 67 mld) e Canada (da 14 a 18 mld). Stazionario invece quello verso l’Italia (attorno a 25 mld).
Con l’applicazione di bassi tassi di interesse, le Banche Centrali hanno invano cercato di contrastare quella crisi finanziaria che li tormenta dal 2008, mirando a sollecitare una espansione produttiva di merci (e relativo consumo) la quale in realtà ha continuato la sua crisi: quella che fondamentalmente è all’origine dei collassi finanziari. In questi ultimi tempi si sta cambiando marcia, con tassi d’interesse più elevati e minore creazione di liquidità eccezionale da iniettare nel sistema finanziario. Altrimenti, nel caso (ormai quasi certo!) di un'altra caduta “recessiva” a livello “economico”, come si farebbe a portare i tassi di interesse allo zero, se già lo sono? (Una “misura” già sperimentata…). In queste capriole teoriche di politica monetaria, abbiamo gli esempi di una Fed americana che dà l’impressione – fra le imprecazioni di un Trump in preda a isteriche crisi di egocentrismo – di non sapere che pesci prendere. Tanto più che scarseggiano sia ami che esche, e che una crescita di debiti (pubblici e privati) e di giochi finanziari - come vorrebbe Trump – si aggroviglia in circoli viziosi senza la minima traccia di… ossigeno.
Ma invano la Fed, dopo la tramontata euforia diffusa dalla sua politica di stimoli monetari, cerca di inventarsi nuove strategie riguardanti il ricorso alle illusorie manovre dei tassi d’interesse, mentre le società quotate a Wall Street si abbandonano ai giochi della logica finanziaria di Sua Maestà il Capitale. Sono state nel frattempo rese note alcune ricerche della Istituzione Brookings (un’organizzazione “liberale” già sostenitrice dell’amministrazione Bush e quindi non certo di “sinistra”…) dalle quali, con un successivo report di Axios, risulta un quadro del mercato del lavoro negli Usa, che desta non poche preoccupazioni. Omogeneizzando i metodi statistici del passato (pre-1994) con quelli recentemente adottati, la disoccupazione risulterebbe addirittura al 21% e non al 3,55%. Quasi il 50% dei posti lavoro è a basso salario “senza sussidi e all’interno di settori in via di automazione”. Molto più alta sarebbe anche l’inflazione. Questo mentre Trump si esibisce, da gradasso, esaltando un costante aumento dell’occupazione operaia negli Usa con un tasso di disoccupazione al minimo da decenni.
La nostra economia è la numero uno. Tutto il pianeta invidia l'America e il meglio deve ancora venire!
La realtà nuda e cruda dei numeri parla inoltre di 53 milioni di lavoratori americani – circa il 44% della forza lavoro totale – che lavorano in posti con uno stipendio orario medio di 10,22 dollari e un salario medio annuo di 18.000 dollari. Inoltre,
circa un quarto di questi lavoratori a basso salario sono gli unici a guadagnare nelle loro famiglie.
Viene dato risalto anche alla bassa qualità dei posti di lavoro che si creerebbero, “senza benefit od orari prestabiliti”, come nella vendita al dettaglio, nella ristorazione, nell’assistenza sanitaria a domicilio o nell’economia sommersa. Dunque, un mercato del lavoro che si va “restringendo”, specie fra le “minoranze”: secondo lo studio Brookings, il 54% dei lavoratori neri e il 66% dei lavoratori ispanici sono a basso salario, rispetto al 37% dei lavoratori bianchi. E in prospettiva, i posti di lavoro a basso salario nel settore del commercio al dettaglio e della ristorazione saranno tra quelli con il più alto potenziale di automazione. Inoltre più dell’80% (dati BLS) dei nuovi lavori sono part-time (3/6 mesi di contratto) nei settori della ristorazione e nei fast-food con paga settimanale di 351 dollari. E quasi 250mila posizioni full-time sono andate perdute ultimamente.
Allargando gli sguardi a livello mondiale, incontriamo un proletariato internazionale che -- stando ai dati pubblicati dall’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) -- conta circa 3,3 miliardi di lavoratori-salariati nel mondo, cioè il 58% della popolazione mondiale. Quasi due terzi di loro svolgono lavori “informali”, cioè senza “diritti sindacali” (orari, pagamento di ferie, malattia, pensione). I disoccupati, ufficiali, si calcolano in oltre 172 milioni, mentre sarebbero più di 2,2 miliardi gli adulti che non svolgono né cercano alcuna attività lavorativa, alla quale per altro il capitale non corrisponderebbe il più misero salario poiché non ricaverebbe alcun profitto. In questo “panorama”, già di per sé altamente tragico delle condizioni umane sotto l’ordine capitalistico, vi sono (ultimi dati anche questi) circa 1,2 miliardi di esseri umani che trascinano la loro esistenza senza cibo a sufficienza e senza acqua potabile; più di un miliardo e mezzo vivono in zone senza fogne e canalizzazione delle acque: la diffusione di malattie (dissenteria, colera, tifo, ecc,) mantiene altissima la mortalità infantile. Questo è lo sviluppo del capitalismo…
Dal complesso dei dati forniti da queste ricerche, risulta dunque che più del 60% della forza lavoro mondiale globale è disoccupata; alcuni si accontentano di lavori occasionali con salari da vera e propria fame. La cosiddetta “instabilità” è ovunque dominante anche a causa dei cicli accelerati di ristrutturazione dei processi di produzione, coi quali il capitalismo tenta di rallentare la crisi che invece va peggiorando di anno in anno. (In sette/otto anni si sono registrate decrescite di 7-5 punti percentuali nel Pil di Paesi in “forte sviluppo” come Cina, Russia, India, Brasile: la prima in vesti “capital-socialisti”!)
Sempre a proposito di disoccupazione, segnaliamo che anche la cosiddetta “uniformazione europea” ha fissato dei nuovi parametri statistici dai quali risulta occupato chiunque abbia lavorato per periodi brevissimi, addirittura per un’ora al giorno! Si classificano come disoccupati ufficiali soltanto coloro che si presentano ad una agenzia di collocamento, dalle cui liste -- dopo 4 settimane -- scompaiono.
E concludiamo con uno sguardo veloce all’altro grande centro imperialistici, quello cinese, alle prese coi tentativi di alimentare le proprie riserve di moneta (circa 3000 mld di dollari). Per questo è stato abbassato di un punto percentuale il coefficiente di riserva obbligatoria delle banche, con però un evidente allarme per il livello del credito totale interno della Cina, il quale supera il 250% del Pil, cioè più di 34mila mld di dollari (per l’84% nel settore privato). Basti dire che al 2008 quel credito era a quota 148% nel rapporto con un Pil più basso: una bella dinamica! Rimane il “vanto” di Pechino per aver “accumulato” risparmi -- nel medesimo periodo -- pari al 492% del Pil. Al “socialismo cinese” servono capitali…
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