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Home ›Attacco americano a Baghdad
Sfrondiamo il grave episodio dalle notizie di cronaca e andiamo al dunque.
L'attacco americano a Baghdad che ha ucciso 11 persone, tra le quali due esponenti politici iracheni e Kassem Soleimani, uomo forte del regime iraniano, pone una serie di problemi a cui dobbiamo delle risposte precise, anche se sull'onda di informazioni parziali.
L'attacco americano ha voluto colpire Soleimani quale personaggio di spicco sciita, capo della maggiore formazione militare iraniana al Qods, responsabile, secondo il Pentagono, di atti militari contro gli Usa, di essere stato il fomentatore dell'attacco all'Ambasciata americana di Baghdad e di essere il più solido perno politico e militare del governo di Teheran. Quindi non una rappresaglia qualsiasi, ma un omicidio mirato teso ad eliminare un avversario politico di alto rilievo, una sorta di avviso all'Iran sulle intenzioni americane nell'area del Golfo.
L'attacco americano si è prodotto nel momento di particolare crisi sociale sia in Iraq che in Iran. Nei due paesi a maggioranza sciita, le ultime rivolte contro i rispettivi governi, a causa della crisi che ha visto peggiorare le condizioni dei lavoratori, della popolazione in generale e aumentare la corruzione, si sono espresse con durezza e grande partecipazione. La risposta è stata la repressione brutale che ha colpito tutti, in modo particolare le frange proletarie che sono scese in piazza per una migliore condizione salariale. In Iran, chi è stato interprete della violenta reazione, è stato proprio Soleimani, la quinta colonna del regime degli ayatollah. Quale migliore occasione per Trump di colpire il singolo avversario e l'Iran in un momento di particolare debolezza sociale? Non è un caso che a Baghdad, quando si è diffusa la notizia della morte di Soleimani, alcuni manifestanti abbiano inneggiato alla morte del massacratore iraniano.
Uscendo dall'episodio specifico, l'attacco americano è più che un avvertimento alla Coalizione sciita - che va dagli Hezbollah libanesi agli Houti yemeniti, dagli iracheni ad Hamas, anche se sciita non è, ma è contro lo stato d'Israele, primo e più affidabile alleato americano nell'area. Avvertimento alla Russia - che, con l'Iran, regge le fila di tutto lo schieramento - che gli Usa sono ben presenti in tutto l'arco del Medio Oriente e che, non solo non intendono abbandonare il campo come più volte falsamente hanno dichiarato, ma che (Trump) sono pronti a colpire quando vogliono, anche senza il consenso del parlamento.
Dietro l'episodio dell'uccisione di Soleimani si nasconde uno scenario complesso, accanto alla non risoluzione della crisi economica internazionale - lo sfondo imprescindibile - che accelera tutti i contrasti politici, diplomatici ed economici, primo fra tutti quello petrolifero. Da quando gli Usa si sono resi autonomi dalla questione energetica e si propongono quali esportatori di gas e petrolio, il loro orizzonte si è cominciato a dilatare. Quelli che prima erano alleati perché esportavano negli Usa il petrolio a soddisfacimento dei loro fabbisogni energetici, oggi sono diventati dei concorrenti (vedi Arabia Saudita). Quelli che prima non erano fornitori sono diventati, per questioni di concorrenza e per obiettivi strategici, nemici da combattere. L'Iran è certamente facente parte di questa categoria e la sua collocazione strategica a fianco della Russia e della Cina ne fa il primo punto di applicazione delle ambizioni imperialistiche americane nel Golfo. In più, un attacco, anche se indiretto, all'Iran, suona come avvertimento a tutta la Coalizione capeggiata dalla Russia.
Per una prima conclusione possiamo dire che il grave episodio di Baghdad segna un passo tragicamente importante verso una possibile escalation militare in tutta la zona. E' possibile una reazione iraniana alla provocazione Usa. Il presidente iraniano ha minacciato ritorsioni gravi. I Pasdaran si sono dichiarati pronti a fronteggiare un eventuale attacco americano. La Russia non starà certamente a guardare se la questione dovesse precipitare. Non può permettere che Trump metta in discussione i legami tra i membri della sua Coalizione. Non può consentire che le trame imperialistiche americane interferiscano con i suoi rapporti di esportazione di gas all'Europa e che il suo principale alleato petrolifero, oltre che politico, l'Iran, possa essere impunemente attaccato. Non può nemmeno rimanere indifferente a quello che possiamo definire un accordo sotterraneo tra Turchia e Usa sull'ingresso dell'esercito di Erdogan in Siria, in cambio della mano libera di Washington in Iran e Iraq. Senza contare la preoccupazione di Mosca sui continui tentennamenti e cambiamenti di fronte del governo di Ankara sulla Pax siriana, sulla crisi irachena e libanese e sulla fine dei curdi del Rojava.
Dunque lo scenario è pericolosamente proiettato verso un conflitto mondiale aperto, con i due colossi imperialistici impegnati l'uno contro l'altro a capo dei rispettivi alleati, o siamo “soltanto” in presenza di una preoccupante escalation militare che può infiammare un'area importante senza però uscire dai suoi confini politici? Ovviamente una risposta certa al momento non c'è, ma il timore che se si manifestasse anche solo la meno grave delle ipotesi, e a maggior ragione se si manifestasse la più grave, compito dei rivoluzionari sarebbe quello di accelerare i tempi della costruzione del partito rivoluzionario internazionale: a) per evitare un terzo conflitto mondiale; b) per evitare che milioni di proletari entrino nei giochi imperialisti come la solita “carne da macello” al seguito di questo o di quell'altro imperialismo; c) per dare al proletariato internazionale un punto di riferimento, uno strumento politico che lo conduca fuori dal macello mondiale, fuori dalle mortali necessità di sopravvivenza di un capitalismo in decadenza che deve distruggere per ricostruire, aggredire e uccidere per continuare a vivere in un mondo sempre più tecnologico, con una povertà sempre più diffusa, un disastro ecologico irreversibile e con la spada di Damocle sulla testa della classe operaia, sino a che quella testa non si alzerà per dire basta a tutto questo.
3 gennaio 2020
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