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Home ›L’Ilva, l’acciaio e il capitale
Le imprese del capitalismo - Non bastava il tormentone infinito dell’Alitalia, dove il capitale ha “bruciato” – come si dice nel bel mondo che ci circonda - più di 800 milioni di euro in soli 30 mesi: in 45 anni di dominio del capitale nella gestione di Alitalia, si sono persi 9,2 miliardi di euro. Ecco ora la vera e propria tragedia in cui culminano le vicende dell’ILVA, un ennesimo bubbone ormai pronto ad esplodere nel corpo più che malaticcio del capitalismo italico. Non ci dimentichiamo inoltre i misfatti del Petrolchimico di Gela e di una lunga lista di imprese finite ai vertici della “cronaca nera”: dall’Acna di Cengio all’Eternit, Thyssen Group, Saras, Alemagna, Cirio, Parmalat, Monte Paschi e tante altre “perle” dell’aziendalismo capitalista. Uno scenario terrificante nel quale vanno ad inserirsi le “gesta nazionali” dell’ex Ilva, quel Centro Siderurgico che da decenni sta distruggendo ogni minimo equilibrio ambientale nella vasta zona in cui lo si è fatto sorgere, devastando sopra e sotto il territorio e distruggendo la natura e gli organismi che in essa ancora vivono. Quelli umani soprattutto, travolti non solo fra le mura della fabbrica alla quale molti di loro sono di fatto incatenati, incasermati e sfruttati dal capitale, ma anche in una caotica e deturpante urbanistica fatta di quartieri popolari a ridosso degli stabilimenti e su cui piovono giorno e notte le polveri nere dei parchi minerari dell’Ilva, con abbondanti dosi cancerogene di benzoapirene e di ammorbante diossina. Tutto, vite umane comprese, immolato sugli altari del profitto, celebrando rituali sacrificali ai piedi d un prodotto di mercato che non è neppure di qualità, ottenuto con impianti usurati e ormai fatiscenti, attraverso processi tecnologici in parte oggi superati e quindi abbondantemente inquinanti aria e acqua, suolo e sottosuolo. Definita dalla stessa magistratura borghese come una “fabbrica di malattia e morte”, i periti della procura di Taranto scrivono di una forte diffusione di malattie cardiovascolari e respiratorie, con migliaia di morti in una decina d’anni. L’aumento nella città di tumori e leucemie è poi confermato dalle più svariate inchieste, mentre migliaia di proletari – per sopravvivere e poter mantenere le proprie famiglie - sono spinti a chiedere di poter continuare (con qualche intervento risanatorio di facciata…) quel lavoro salariato che li condanna, coi loro famigliari, a respirare e bere veleno per la conservazione di questo assurdo modo di produrre e distribuire. In presenza, sia ben chiaro, di forze produttive la cui potenza è già oggi superiore ad ogni passata immaginazione e potrebbe assicurare la soddisfazione dei bisogni di tutti con un minimo dispendio di forza-lavoro, suddivisa in “dosi” uguali per tutti gli uomini e le donne in condizioni fisiche adatte.
Partiti e sindacati dell’arco costituzionale si riempiono la bocca con richiami al “bisogno” della salute che viene da loro stessi messo alla pari con il “bisogno” che le masse operaie avrebbero del lavoro salariato: due bisogni che non considerano contrapposti (guai a chi lo afferma!) bensì da rivendicare e unitariamente riaffermare. Quindi, avanti con fiumi di retorica sulla necessità di salvare l’ambiente e il lavoro (sempre salariato e senza minimamente toccare il capitale!), concludendo praticamente l’idealistica operazione con lo sventolo della illusione di un possibile “risanamento ambientale sotto controllo della classe operaia”. E sapete per quale fine, all’Ilva, sarebbero così coinvolti i lavoratori? Eccolo: “imporre il mantenimento degli altoforni, condizioni di garanzia occupazionale e salariale per i lavoratori”! Quindi, la conclusione di ogni “antagonista” che si rispetti non sarebbe altro se non quella del “rifiuto di contrapposizioni artificiali” - in questa società divisa in classi! - poiché “solo la difesa degli stabilimenti (come l’Ilva) può garantire condizioni di vita dignitose per i lavoratori e le masse popolari”…. (Così uno dei collettivi, Tazebao, che si definisce “comunista”.)
Gli “sviluppi” del capitalismo a Taranto, fin dai passati decenni, hanno strangolato la città: la raffineria Eni, i cementifici, l’Arsenale, la centrale Edison, gli impianti militari, le discariche abusive. L’acciaieria Ilva si ampliò agli inizi del 2000, dopo la chiusura della cokeria e dell’altoforno nell’impianto di Genova: la produzione di acciaio primario (e le emissioni di diossina nell’aria) si accentrò a Taranto, sotto la direzione del clan Riva. Da notare che l’Ilva non sta solo in superficie: sotto strade e piazze ci sono le gallerie dove scorre l’acqua di raffreddamento, tra il mar Piccolo e quello Grande. Tant’è che nel 2012 la pavimentazione della piazza del mercato, nel quartiere Tamburi, cedette trascinando nella voragine un furgone. Tre i feriti. E già nel 2005 c’erano stati i primi “segnali” di possibili “sprofondamenti” a fronte dei quali nessuno mosse un dito per almeno fingere una minima manutenzione. Addirittura, è mancato un formale «collaudo tecnico amministrativo» del Comune quando quei primi “segnali” furono frettolosamente riparati. Alla faccia del principio delle condizioni di sicurezza che andrebbero adottate, sempre se non costassero troppo al capitale in tutt’altri “affari” interessato.
Ed è proprio a questo punto, ormai giunto al suo massimo sviluppo, che il capitale non può più garantire una “civile” sopravvivenza ad un proletariato che sta diventando per lui un vero e proprio “peso morto” dal momento che non lo può più adeguatamente sfruttare. Sempre fra gli “antagonisti” (non mancano persino quelli che figurerebbero ancor più “a sinistra”…), c’è chi vorrebbe che i proletari si limitassero, di fronte alla condizione di imminenti disoccupati, alla rivendicazione del mantenimento di una “garanzia salariale”. Una cassa integrazione ampliata, purché il capitale tenga il potere… Una richiesta condivisa da altri “antagonisti” i quali rimpiangono – a mo’ di esempio - gli indennizzi salariali ricevuti e, per qualcuno, le ricollocazioni occupazionali (prendere o lasciare) degli anni Ottanta. Un bel risveglio per la coscienza di classe purtroppo ancora assopita in gran parte dei proletari!
Un dramma che si trascina da decenni - Già nel lontano 1971 si erano suonate trombe e tromboni attor*n*o alle tavole legislative di misure “antismog” che invece servirono soltanto a coprire le lacrime, la disperazione e il dolore di donne, uomini, vecchi e bambini poi diventati ammalati cronici e molti finiti al cimitero, nel lungo periodo che va da allora fin ad oggi. Nel 2008 era più che certa la devastazione ambientale provocata dall’Ilva, a parte ed oltre le inchieste giudiziarie attorno alle imprese finanziarie della famiglia Riva. Ma l’acciaieria era ed è ritenuta strategica per il capitalismo italico, storicamente importante produttore di acciaio dopo la Germania (la borghesia ricorda – qualcuno con nostalgia… - il “Patto d’acciaio” dei tempi mussoliniani…), al secondo posto europeo con circa 24.500 milioni di tonnellate nel 2018.
Nel giugno del 2015 l’operaio Alessandro Morricella fu investito da una fiammata mista a ghisa incandescente mentre misurava la temperatura di colata dell’Altoforno 2. L’entrata in scena di questo altoforno era stata preceduta da allarmanti episodi che avevano fatto intervenire la Magistratura di Taranto nel 2012 per sequestrare tutti gli impianti dell'ILVA, in quanto la gestione di allora non aveva proceduto alla loro messa a norma. L’accusa fu di disastro ambientale doloso e colposo, e di avvelenamento di sostanze alimentari e danneggiamento aggravato di beni pubblici. L'Altoforno 2 fu in seguito, dopo quel mortale incidente, posto sotto sequestro; venne nominato un custode giudiziario che doveva sorvegliarlo. Ma il Governo, con un apposito decreto legge, consentì che l’impianto continuasse a funzionare, fino alla scorsa estate quando intervenne la Procura e ripristinò il sequestro. Nel frattempo vi era stato il “Contratto” del 2017 e l’Atto Aggiuntivo del 2018, con l’Ilva che a seguito di un ricorso riprese l’uso dell’impianto. Fra pacchi di carte bollate, e in ultimo l’amministrazione straordinaria, nessun intervento fu comunque messo in atto per una sia pur minima sicurezza dell’Altoforno e degli altri impianti del ciclo a freddo. Negli ultimi giorni è arrivata la notizia di una caldaia che si è bucata con fuori uscita di acciaio fuso…
Nel 2015 il governo Renzi introduce lo scudo penale: l’asservimento salariale va mantenuto - se possibile – anche quando gli schiavi rischiano la loro pelle e i responsabili aumentano i loro conti in Banca. Chiaramente, la condizione è che chi resta in fabbrica e riceve il salario, sia però produttivo e tutto funzioni in modo “efficiente”: il lavoratore deve accettare le condizioni del suo sfruttamento affinché il saggio di profitto sia alla fine il più alto possibile! Non ci risulta che alcuno, sia a destra sia a… sinistra, parli di una produzione senza un “giusto” profitto! Anche fra le mura del Vaticano ci si indignerebbe.
Passano intanto 5 governi, 4 commissari occupano le apposite poltrone fino al finire della legislatura e del governo Gentiloni. Infine, arriva l’indo-francese Arcelor che vince la gara fra non pochi dubbi sia giudiziari sia produttivi e prende - in affitto – la ex Ilva. Questo nonostante le rassicurazioni fatte circolare sopra e sotto banco, e poi dimostratesi fallimentari di fronte proprio ad una produzione al disotto delle aspettative e per di più sempre rischiosa.
Il tribunale del riesame di Taranto (settembre 2019) accettò il ricorso dell’Ilva, non spegnendo quindi (come deciso in luglio) l’impianto dell’Altoforno 2, rimandando ad un intervento programmato (in un primo tempo) entro il 10 ottobre. In aggiunta vi fu un appello cautelare, con un periodo di attesa per una eventuale esecuzione dei lavori di ristrutturazione: novanta giorni di tempo per effettuare la progettazione e l’analisi di rischio in vista di ulteriori messe a norma e in sicurezza, mentre ancora si dava spazio alla illusione di futuri investimenti di capitale che dovevano «essere rilanciati per salvaguardare l’ambiente, l’occupazione e la produzione». Categoriche affermazioni, queste, del Segretario Generale Uilm.
Insomma, avanti con impianti scadenti a tutti i livelli, senza adeguati monitoraggi, sicurezza e costanti manutenzioni e controlli, ma con in più un grosso handicap: quello che inquieta il capitale e i suoi servi più che mai in stato confusionale (ma sempre col portafoglio ben stretto in mano!). Si tratta – ed è questo, per tutti loro, il nodo fondamentale puntualmente venuto al pettine - di una produzione che non si “incrementa”, ma anzi si deprime. Non c’è nulla da “mettere in campo” per sollevarsi da un declino che avanza di anno in anno, mentre si dovrebbero produrre (e vendere) – per soddisfare al meglio la valorizzazione del capitale investito nell’Ilva – almeno 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Con la crisi del mercatoe il limiti degli imianti, ora invece non si prevede che una produzione di circa 4,5 milioni di tonnellate a fine 2019, più o meno come l’anno scorso: in queste condizioni, il capitale investito si ritira…
La Confindustria, versando qualche lacrima di coccodrillo, si limita a constare la crisi del mercato dell’acciaio: crisi non nazionale bensì globale, ma ciò nonostante definita una “crisi congiunturale” per cui basterebbero degli ammortizzatori sociali e uno sforzo (da uomini di buona volontà!) affinché “il problema si affronti con serietà e buonsenso” ovvero “creando sviluppo nel territorio, con altre occasioni di lavoro, ma non sostitutive, complementari". Nessuno sa, e dice, quali siano. Noi ne conosciamo una sola, perfettamente inserita nella logica capitalista: una prossima riconversione della produzione di acciaio dal settore civile a quello militare (che negli ultimi tempi ha ricominciato a scalpitare. Rumorosamente.) A proposito: ci è capitata sott’occhio una ricerca dell’Università di Urbino secondo la quale gli occupati dell’industria delle armi sarebbero 87.549, compresi quelli dell’indotto. Ed il Presidente dell’Anpam esalta la “eccellenza nel panorama industriale (del settore), espressione della manifattura made in Italy, trainata dall’export. E’ una industria sana che cresce di valore di occupazione e di produttività e il mercato estero ce lo riconosce, continuando a considerarci un punto di riferimento”. Chi si azzarderebbe a chiederne la “chiusura”, anche se i suoi prodotti non fanno certamente bene alla… salute di tanti esseri umani?
Ma torniamo all’Ilva. Ed ecco, né poteva mancare, una dichiarazione dei Sindacati del 5 settembre 2019, la quale riconosce – a sostegno delle preoccupazioni per l’ordine economico e sociale – che “la priorità è scongiurare lo spegnimento dell'Altoforno 2 dello stabilimento ex ILVA di Taranto” e chiede “la facoltà di uso dell'impianto anche sulla scorta delle ultime valutazioni sulle condizioni di funzionamento dell'Altoforno stesso e sugli ulteriori possibili interventi di messa in sicurezza”. Bellissimo quel “possibile” come unico vincolo risolutivo di tutta la questione. Insomma, un baratto della salute di lavoratori e relative famiglie per ottenere un salario che consolidi l’incatenamento agli altiforni del capitale. Tutto purché non si vi sia quello “spegnimento che produrrebbe uno squilibrio insostenibile nei volumi produttivi con un ulteriore drammatico impatto...". La vicenda è dunque sospesa sopra una vera e propria “bomba sociale”: 15 mila posti di lavoro a rischio in provincia di Taranto e una perdita (qui il capitale sarebbe pronto persino ad imbracciare le… armi se questo stato di cose continua!) dichiarata di 2,5 milioni di euro al giorno.
Le puntate dedicate alla telenovela dello Scudo (immunità penale) sono tante: iniziano nel 2015 con il governo Renzi, che lo introduce; nella primavera del 2019 il decreto “Crescita” lo aboliva per favorire l’acquisto dell’Ilva da parte di ArcelorMittal. Poco prima della crisi che dissolvette il governo Lega-M5S, fu varata un’altra norma del Decreto Salva Imprese, sempre in favore della immunità. Ma la norma venne subito soppressa da un emendamento, approvato dal Governo stesso, redatto da un gruppo di senatori M5S. Sommersa, e inizialmente nascosta fra pacchi di documenti, lavori non completati, piani fantasma e relazioni mistificate, è venuta avanti ormai la quasi certezza che a fine anno rischiano di essere spenti anche gli altiforni 1 e 4 e quindi si blocchi tutta l’area dei processi a caldo. Per il ciclo produttivo sarebbe un grave colpo che comprometterebbe la sopravvivenza dell’intero stabilimento di Taranto, avvinto al motto che contraddistingue l’esistenza stessa del capitale fra i lavoratori: la morte vostra sarà la vita mia…
La vita comunque si fa difficile pure per il capitale, non solo in Italia ma anche in Europa, con un mercato mondiale dell’acciaio per metà in mano al “nazional-socialismo” di Pechino con 928 milioni di tonnellate di acciaio, la metà degli 1.808 miliardi di produzione globale. E poi c’è la crisi che avanza in tutti i principali settori produttivi che usano l’acciaio come una materia prima (auto, elettrodomestici, costruzioni, cantieristica, ecc.); difficoltà con cui il capitalismo europeo è alle prese, nonostante i tetti sulle importazioni di acciaio: quelle provenienti dalla Turchia preoccupano… Comunque i profitti sono in calo per tutte le società europee del settore e i loro principali titoli registrano perdite, in quest’anno, che vanno dal 10 al 20%. Tutti parlano di “sovra-capacità” degli impianti rispetto alla domanda, soprattutto perché la produzione dell’acciaio a ciclo continuo ha costi fissi preoccupanti per un “sano” investimento.
La sopravvivenza del capitale e del suo ordinamento sociale comporta ormai vere e proprie gesta criminali, ponendo i proletari al ricatto di una scelta bestiale: o il lavoro (con un salario da miseria, e sempre se conviene al profitto del capitale) o la salute (in pratica: la vita). Questo per i “fortunati” a cui ancora viene offerto un posto di lavoro. A tutti poi si concede di assistere allo spettacolo di partiti e sindacati che litigano (o meglio, fingono di litigare) su cosa fare per trovare almeno due miliardi di euro coi quali far credere alla “pubblica opinione” di tentare un risanamento dell’Ilva. Chiaramente, che non sia troppo “costoso” altrimenti pregiudicherebbe un piano industriale che deve fare i conti con la competizione internazionale. E qui, senza i “sacrifici” dei lavoratori, non si fanno passi avanti!
Tra interventi legislativi, vicende giudiziarie e procedimenti amministrativi, i media hanno di che riempire i loro giornalieri bla bla bla, mentre l’azienda ArcelorMittal può constatare quanto i suoi “piani” (se mai li ha avuti) non sono altro che carta straccia a fronte anche solo dello spegnimento di un Altoforno. Insomma: è scandaloso – si indigna ogni serio borghese – che si stiano calpestando gli interessi del capitale (per di più “produttivo”!) tirando in ballo la tutela della salute e della vita umana... Non basta che queste siano garantite sulle pagine della Costituzione? Che altro pretenderebbe la classe operaia? Ciascuno stia al suo posto e si lasci che il capitale faccia quelli che in fondo altro non sarebbero che gli “interessi nazionali”, quindi di tutti i “cittadini”!
In conclusione, va poi notato che, nel polverone sollevato attorno alla questione dello Scudo, la sicurezza o meno dell'Altoforno 2 non è un problema che vi rientri e perciò si cerca di parlarne il meno possibile: al limite facendo ricadere eventuali “colpe” sulla Gestione Commissariale dell’azienda la quale si opponeva alla decisione della chiusura dell’Altoforno per lavori entro il prossimo 13 dicembre. Il Governo Conte (1) – anch’esso per continuare l’attività dell'Altoforno - il 3 settembre approvò (premurosamente) un decreto legge (101/2019) con l'articolo 14 che prevedeva la esenzione dalla responsabilità penale per i gestori dell'impianto "con riferimento alle condotte poste in essere in esecuzione del suddetto Piano Ambientale sino alla scadenza dei termini di attuazione stabiliti dal Piano stesso per ciascuna prescrizione ivi prevista". Restava però la “responsabilità in sede penale, civile e amministrativa, per la salute e la sicurezza dei lavoratori", come già era dichiarato nello Scudo penale precedente (decreto legge 1/2015). I Sindacati, non volendo andar oltre qualche blando rimprovero al capitale che “svaluta il lavoro”, abbiamo visto come siano contrari allo spegnimento dell’Altoforno 2.
Ciascuno, capitalisti e lavoratori al proprio posto, quello assegnato a ciascuna classe presente in questa società sottoposta al dominio del capitale: su quello che occupano – responsabilmente - i sindacati, non vi sono dubbi. Almeno per noi, ben lontani dal meravigliarci dei brancolamenti sindacali alla ricerca del “male minore”, ossia accettare qualche licenziamento chiudendo gli occhi sullo sfruttamento, le malattie e i morti sul lavoro, per il “bene del paese e dell’azienda che dà il lavoro”… Soluzioni alternative e mali minori non ve ne sono, a meno che licenziare – una volta per tutte – il capitale e chi lo gestisce, sia come privato che come Stato .
DC(1) All’ultimo momento la notizia della comunicazione alle Rsu di Taranto del piano di fermate degli altoforni: Afo2 il 12 dicembre, Afo4 il 30 dicembre e Afo1 il 15 gennaio. “Il treno nastri verrà chiuso tra il 26 e il 28 novembre per mancanza di ordini".
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