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Introduzione
L'articolo che segue è stato scritto all'inizio di agosto 2019, quando la perdurante deforestazione dell'Amazzonia ha portato all'ennesimo massacro della popolazione indigena. Da allora la crisi si è aggravata, poiché gli incendi della stagione secca, che spianano la strada alle culture, hanno raggiunto nuovi picchi. Sono in corso più di 2.500 incendi e secondo l'Economist:
L'Istituto Nazionale Brasiliano per la Ricerca Spaziale (INPE) ha rilevato quest'anno l'85% di incendi boschivi in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso (1).
Non c'è dubbio che questo aumento è un prodotto diretto delle politiche di Jair Bolsonaro. Negazionista del cambiamento climatico, considera l'Amazzonia come una terra "vergine" e matura per lo sviluppo agricolo. Da quando è entrato in carica ha licenziato 21 dei 27 alti funzionari di Ibama, l'Agenzia Governativa per l'Ambiente, ha inoltre licenziato il capo dell'INPE per aver pubblicato i risultati di cui sopra.
Tuttavia, quando i fumi degli incendi hanno iniziato a depositarsi a migliaia di chilometri di distanza sul popoloso sud-est del Brasile, Bolsonaro non ha più potuto rimanere in silenzio. Prima ha assurdamente accusato le agenzie non governative che si occupano di ambiente, le quali, a suo dire, avrebbero deliberatamente innescato gli incendi per fargli dispetto a causa del taglio che ha portato ai loro i finanziamenti. Poi ha affermato (in una serie di messaggi contraddittori) di essere stato frainteso e che il problema era la mancanza di fondi sufficienti per combattere gli incendi. Infine ha annunciato che avrebbe inviato l'esercito per affrontare i fuochi (anche se non è ancora chiaro in che modo lo farà). Ciò su cui ha improvvisamente concentrato la sua attenzione è stato, come sempre, il fattore economico. I governi francese e irlandese hanno chiesto l'abolizione dell'accordo commerciale UE-Mercosur (2), che è in fase di elaborazione da anni, ma che non è stato ancora ratificato da nessuna delle parti.
L'intera vicenda, insieme agli incendi nelle zone artiche, sottolinea ancora una volta che il sistema capitalistico globale, con la sua divisione in stati nazionali, non sta lavorando per il bene dell'umanità. La foresta pluviale e l'Artico sono entrambi elementi fondamentali per l'equilibrio ecologico del pianeta, ma il loro destino lo si lascia dipendere dall'atteggiamento e dalla politica di questo o quel governo. Queste aree sono di importanza planetaria, ma il loro destino è legato al agli interessi dei singoli Stati, ciascuno affetto dai propri problemi economici. Bolsonaro, prima di cedere alla pressione economica (che includeva richieste di boicottaggio dei prodotti brasiliani a base di carne), aveva respinto le critiche di Macron come dimostrazione di una "mentalità coloniale". In altre parole "giù le mani dal Brasile".
Questo è solo un altro segnale del fatto che il mondo non può più sopravvivere suddiviso in stati nazionali, sia che si tratti della migrazione forzata di milioni di persone spinta dalle guerre e dei disastri climatici causati dall'attuale sistema, sia, più a lungo termine, per la difficoltà di mantenere sulla Terra uno spazio vivibile per tutti noi.
Il capitalismo ha creato lo stato nazionale. Ci ha anche portato la produzione di rifiuti e la ricerca del profitto a tutti i costi; oggi tali conseguenze dimostrano che questo sistema ha ormai esaurito la sua utilità. Disponiamo ormai della tecnologia per garantire una vita dignitosa per tutti in un ambiente sempre più pulito, ma dobbiamo prima liberarci del capitalismo, abolire le frontiere nazionali e creare un sistema di governo mondiale che parta dai bisogni reali delle persone e non dalla rapida realizzazione di profitto. Il continuo disastro in Amazzonia è cruciale tanto per l'umanità nel suo complesso quanto per i 20-30 milioni di abitanti di quella regione.
L’accumulazione capitalistica in Amazzonia
La fine di luglio ha registrato diversi tragici sviluppi per quanto riguarda l’offensiva del capitale contro le popolazioni indigene dell'Amazzonia. In primo luogo, i cercatori d’oro hanno ucciso il capo della tribù Waiapi e hanno invaso il suo territorio nella provincia nord-orientale dell'Amapá in Brasile (1). Contemporaneamente, le operazioni di disboscamento illegale nel vicino stato del Maranhão si sono avvicinate sempre più al territorio del popolo Awá Guajá, una tribù che non ha contatti col resto del mondo e le cui interazioni con le ben armate forze paramilitari del capitale sono quasi certamente destinate a concludersi con il loro massacro (2).
Questo tipo di sanguinosa espropriazione ha registrato una significativa espansione sotto il nuovo presidente Bolsonaro, le cui promesse elettorali di eliminare "ogni centimetro di terra indigena" sono apparse una manna per le molte mafie del legname e per le imprese minerarie che oggi infestano ovunque l'Amazzonia. Da quando Bolsonaro si è insediato, la deforestazione nell'Amazzonia brasiliana è salita di un impressionante 278%. (3)
Il razzismo esplicito di Bolsonaro nei confronti delle tribù amazzoniche e le sue promesse altrettanto esplicite di mettere all'asta ogni grammo di foresta pluviale brasiliana, rappresentano certamente una deviazione significativa rispetto alle precedenti retoriche dei capi di stato brasiliani e la stampa borghese ha cercato di esaltare oltremodo la sua presidenza. Ma questo è solo un insidioso tentativo di cancellare il fatto che un simile sostegno statale all'estrazione e al disboscamento delle terre indigene è stato per anni un pilastro della democrazia brasiliana, non solo sotto la presidenza di destra del predecessore Michel Temer (4), ma anche sotto l'amministrazione di sinistra del Partito dei Lavoratori di Dilma Rousseff.
Per tutta la durata del suo mandato, la Rousseff ha sostenuto pubblicamente le preoccupazioni indigene e ambientali, in privato elargiva però concessioni alla potente lobby brasiliana dell'agroalimentare (5). Una situazione simile si può riscontrare oggi anche in Venezuela, dove il presidente Nicolás Maduro sostiene di difendere i diritti degli indigeni venezuelani, ma solo negli ultimi sei mesi le sue forze militari sono state responsabili dell'assassinio di numerosi attivisti Pemón che protestavano contro lo sfollamento forzato effettuato con operazioni illegali dalle compagnie minerarie dell’oro (6).
Allo stesso modo, il presidente boliviano di sinistra Evo Morales - egli stesso un indigeno boliviano - negli ultimi anni ha gradualmente revocato una serie di protezioni legali alle tribù indigene per consentire la realizzazione di progetti nell'Amazzonia boliviana (7). Per capire perché i regimi di sinistra in America Latina da un lato dichiarano di difendere gli interessi dei popoli indigeni e dall'altro consentono e persino partecipano attivamente alla spietata violenza contro di loro, è importante capire prima di tutto il carattere di classe di questa brutale espropriazione.
Sin dall'inizio della prima guerra mondiale, i comunisti hanno riconosciuto come il capitalismo fosse entrato nella sua fase "decadente", segnata, tra l'altro, dal consolidamento del capitalismo come sistema economico mondiale. (Vedi, ad esempio, (8) o (9)).
I vecchi modi di produzione pre-capitalisti sono in gran parte scomparsi, spazzati via su scala globale dalle brutali politiche coloniali e il mercato mondiale permea oggi quasi ogni angolo della terra. L'Amazzonia è una delle uniche eccezioni a questo stato di cose; permangono settori della foresta pluviale che non sono toccati dallo sviluppo industriale e i loro abitanti indigeni "isolati" rappresentano le uniche vere sopravvivenze sul Pianeta di una società autenticamente precapitalista (10). Questo, unito a un'impareggiabile abbondanza di risorse naturali - gomma, petrolio, minerali di ferro, oro, legname, cacao e un'ampia gamma di minerali - rende l'Amazzonia un terreno molto appetibile per l'accumulazione capitalista.
L'imperialismo è essenzialmente un mezzo per combattere le crisi. Le grandi economie esportano capitali verso regioni economicamente arretrate, costruendo infrastrutture (linee ferroviarie, strade, fabbriche e raffinerie) con il triplice intento di prelevare da quelle zone preziose risorse naturali non ancora sfruttate, di creare e sfruttare una nuova fonte di lavoro proletario a buon mercato nella popolazione locale e di aprire nuovi mercati in cui scaricare le eccedenze accumulate in periodi di sovrapproduzione. Ciò a cui stiamo assistendo oggi in Amazzonia ne è un esempio da manuale. Dagli anni '60, decine di migliaia di chilometri di strade e autostrade sono state costruite in Amazzonia da imprese e governi circostanti (11). Questo ha spianato la strada all'intensificarsi del disboscamento e delle attività minerarie nella regione e infatti il 95% di tutta la deforestazione si è verificata nel raggio di cinquanta chilometri da questi progetti (12). La deforestazione ha a sua volta richiesto l'espropriazione sanguinosa e cruenta delle terre indigene, causando lo sfollamento e la proletarizzazione delle popolazioni indigene stesse. Migliaia di rifugiati indigeni sono stati costretti a lavorare a basso costo sia all'interno della foresta (13), che nei vicini centri urbani (14). Nel complesso, ci troviamo di fronte a un chiaro esempio di accumulazione capitalistica e di sussunzione nel mercato mondiale.
La barbarie in corso oggi in Amazzonia può quindi essere meglio compresa come espressione di una concorrenza sempre più agguerrita tra gli stati capitalisti della regione e dei loro vani tentativi di arginare l'inevitabile tendenza al declino dei tassi di profitto.
Non è un caso che il recente sostegno statale brasiliano a progetti di sviluppo nominalmente "illegali" in Amazzonia sia stato avviato alla fine del 2012 e del 2013, data di inizio di una crisi economica brasiliana che persiste ancora oggi. (15) La situazione è simile in Venezuela: nonostante le sue pretese "socialiste", il petro-stato bolivariano rimane interamente capitalista e, come tutte le altre nazioni capitaliste, è soggetto ai capricci e alle contraddizioni del mercato mondiale. Così, quando nel 2013 il mercato petrolifero internazionale ha iniziato a crollare, l'economia venezuelana è collassata portando alla crisi cui assistiamo oggi. In questo contesto si inserisce l'improvvisa disponibilità di Maduro a consentire l'espropriazione delle terre indigene del Venezuela, ma è solo un inutile tentativo di mitigare le difficoltà economiche del paese, con conseguenze terribili per le popolazioni indigene locali.
In uno scenario tragico ma non sorprendente, i soldati di questi regimi borghesi sono essi stessi provenienti da alcuni dei settori più disperati del proletariato e un enorme numero di disboscatori illegali e minatori dell'Amazzonia sono immigrati senza terra venuti dalle favelas costiere e da altre baraccopoli della regione (16). Le condizioni in queste comunità sono spesso drammatiche e i poveri delle città che le abitano sono inevitabilmente intrappolati tra i due poli del crimine organizzato e dei cartelli della droga da un lato e le altrettanto brutali forze inviate dallo Stato per mantenere l'ordine dall’altro (17). Queste condizioni sono il maggiore motore dell'emigrazione dalle città verso la foresta pluviale e il capitale e i suoi servi borghesi - sia i proprietari di progetti illegali che i politici che presiedono a quelli "legittimi" - sanno esattamente come trarre vantaggio dalla disperazione di questi strati del proletariato. Tali lavoratori imprigionati in vite di terribile violenza e sfruttamento sono loro stessi vittime della ferocia sistema capitalista.
Un altro aspetto di queste attività imperialiste sta nelle loro conseguenze ecologiche catastrofiche. L'Amazzonia - che si estende per oltre 2 milioni di miglia quadrate - è di gran lunga la più grande foresta pluviale del mondo, e svolge quindi un ruolo fondamentale nella regolazione dei sistemi meteorologici del pianeta e dei livelli di anidride carbonica. La deforestazione per il taglio di legname e le estrazioni minerarie è quindi responsabile di un groviglio di gravi conseguenze, che vanno dalle pesanti emissioni di CO2 a fenomeni climatici estremi su larga scala, siccità e carestie (18). L'entità di questi effetti di sicuro non è sovrastimata e, insieme ad altri analoghi fenomeni internazionali, costituisce una grave minaccia esistenziale per l’intera specie umana. L'unico modo per contrastare questa tendenza è rimuovere la finalità di profitto che la guida e abolire il sistema capitalistico mondiale, un sistema ormai da tempo obsoleto.
E' anche per ragi*o*ni simili che i richiami alla sovranità indigena – molto popolari a sinistra - sono una visione utopistica sotto il capitalismo. Come abbiamo sostenuto, le politiche brutali che segnano l'era dell'imperialismo - dalla guerra continua, all'espropriazione violenta e al saccheggio delle risorse ecologicamente catastrofico - sono una conseguenza inevitabile delle crisi del capitalismo e la situazione in Amazzonia non fa eccezione.
Le politiche regionali per la salvaguardia delle terre indigene - a lungo combattute dagli attivisti presenti sul territorio in Brasile, Venezuela e Bolivia - sono state abbandonate a metà strada e senza difficoltà non appena ciò si è reso necessario per gli interessi della borghesia. Questo non dovrebbe essere una sorpresa per i comunisti; nessun politico eletto e nessuna legislazione possono sperare di superare le contraddizioni del capitalismo e le necessità del potere borghese.
Lo slogan dell'autodeterminazione nazionale - che essenzialmente tenta di combattere i sintomi del capitalismo senza combattere il capitalismo e che vorrebbe cercare di liberare i popoli indigeni dell'Amazzonia semplicemente suddividendo il territorio su basi etniche - è quindi uno sforzo inutile e non offre alcuna soluzione al brutale assalto del capitale. L'unica via d'uscita è la solidarietà dell'intero proletariato internazionale, unito in una lotta rivoluzionaria contro il capitalismo. Le atrocità in corso contro i popoli indigeni dell'Amazzonia non potranno che peggiorare con l'aggravarsi della crisi capitalista globale e per l'Amazzonia c’è bisogno - come in ogni altra parte del mondo - che la fine del capitalismo arrivi il più presto possibile.
Atticus, 14 Agosto 2019(1) nbcnews.com
(2) news.mongabay.com
(3) clarin.com
(4) nativenewsonline.net
(5) amazonwatch.org
(6) europe-solidaire.org
(7) worldcrunch.com
(8) marxists.org
(9) leftcom.org
(10) survivalinternational.org
(11) livescience.com
(12) globalforestatlas.yale.edu
(13) books.google.co.uk
(14) csis.org
(15) bbc.com
(16) gmu.edu
(17) hrw.org
(18) telegraph.co.uk
(19) economist.com
(20) Il Mercosur (o Mercosul in portoghese) è un blocco commerciale sudamericano i cui membri a pieno titolo sono Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay (e Venezuela, ma attualmente sospeso). Molti altri paesi sudamericani sono membri associati.
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