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Home ›Ricordando la nostra Rosa Luxemburg
Cento anni fa, il 15 gennaio 1919, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg venivano assassinati dalle milizie paramilitari dei Freikorps (covo di futuri nazisti), con la complicità del governo socialdemocratico guidato da Scheidemann. La insurrezione spartachista stava per fallire (la Luxemburg era contraria alla sollevazione) e sul capo dei due rivoluzionari era stata posta una taglia di 100.000 marchi. Entrambi arrestati, Liebknecht fu per primo condotto fuori dalla caserma e assassinato con un colpo di pistola. Poi fu la volta di Rosa, dopo essere stata dileggiata e brutalmente torturata. Il suo cadavere fu gettato in un canale. L’insurrezione fu poi soffocata nel sangue di migliaia di proletari. Nell’estate successivo fu varata la costituzione della Repubblica di Weimar, il prologo “democratico” della dittatura nazista: agitando lo spettro della minaccia bolscevica, veniva ripristinato l’ordine e allontanato lo spettro di una minaccia bolscevica.
Le morti dei due compagni tedeschi, non le uniche ma soltanto le più famose, insegnano come la borghesia, sotto qualunque latitudine politica governi i suoi interessi economici, all'ombra del suo strumento politico: lo Stato, non consentirà mai al proletariato, al suo schiavo salariato di arrivare pacificamente al potere. Lo difenderà con tutte le sue forze, quelle "legali" e quelle che si manifestano come tragici esempi di indifferenza e disprezzo dei diritti umani. Chi sogna una rivoluzione pacifica, non violenta, oltre ad essere un sognatore che non ha la minima idea di che che cosa sia la lotta di classe, è destinato alla sconfitta prima ancora di combatterla. Onore a Rosa e a Karl di aver tentato l'emancipazione del proletariato tedesco. Pur non riuscendovi, hanno lasciato un alto esempio di lotta e di combattività contro l'iniqua società capitalistica e la feroce dittatura borghese che li ha brutalmente assassinati.
F. Damen
Poi disse la verità ai poveri e i ricchi la cacciarono fuori dal mondo.
Bertolt Brecht
Forse mai così concretamente come nel caso della Luxemburg, trova conferma l’osservazione secondo cui fa parte del destino di tutti i grandi rivoluzionari, dopo la loro morte, l’essere sottoposti a deformazioni e falsificazioni da parte di quanti non esitano a mascherare, con la criniera e i ruggiti di un indomito leone, il proprio vello e i propri sottomessi belati. Una pratica, questa, alla quale la Luxemburg non è purtroppo sfuggita e che su di lei si è particolarmente adattata a seguito delle polemiche che, in vita, l’hanno direttamente contrapposta a Lenin su alcune questioni di non trascurabile importanza per il movimento comunista.
Riteniamo perciò che il modo migliore per ricordare, oggi, la grande rivoluzionaria sia quello di un riscontro critico con le principali posizioni che ormai tradizionalmente sono assunte nei suoi confronti e circolano all’interno del grande circo socialdemocratico e piccolo-borghese. Ed anche, purtroppo, fra alcuni gruppi delle stesse deboli e sparse forze della sinistra rivoluzionaria a livello internazionale.
Una prima interpretazione, sostenuta e difesa dallo stalinismo e con esso in massima parte oggi decaduta, ha tentato con tutti i mezzi e i poteri a disposizione di infangare l’opera e la milizia di una figura certamente scomoda come fu la Luxemburg; una “intellettuale piccolo-borghese” – la definì il “geniale” Stalin – che forse poteva anche essere scambiata per un’aquila (come aveva pur sostenuto Lenin) ma che in definitiva si sarebbe sempre comportata volando in basso come una gallina controrivoluzionaria.
Una seconda interpretazione, inversamente, pretende di ritrovare nell’opera e nella milizia della Luxemburg tutti gli elementi per una diretta contrapposizione (quando non addirittura per una liquidazione definitiva) al leninismo e alla sua pratica applicazione della dottrina rivoluzionaria del marxismo. Con diverse sfumature, e forzature, si è così consolidata quella tendenza, prettamente centrista e riformista, che va in generale sotto il nome di luxemburghismo e nella quale confluiscono o si distaccano, di volta in volta, le più svariate correnti operaiste, spontaneistiche, volontaristiche e “libertarie”. Correnti e tendenze ideologiche che, dopo il trionfo dello stalinismo e la sconfitta dell’Ottobre Rosso, sono scese in gara per l’offerta della miglior ricetta in grado di correggere la inevitabile degenerazione autoritaria e burocratica a cui appariva storicamente destinato il Partito di Lenin per tutti coloro i quali non erano d’accordo con la dittatura del proletariato.
Ma come – e questo lo scrisse la Luxemburg - «le maglie dei più sottili paragrafi e articoli di un regolamento non possono fermare una corrente storica quale è l’opportunismo», così di ben altra sostanza e spessore si presenta la questione della organizzazione del Partito e dell’esercizio della dittatura proletaria. Una questione che, fra le verità e gli errori attribuiti alla Luxemburg dai suoi esaltatori o dai suoi denigratori, costituisce indubbiamente l’argomento più controverso.
Prima di addentrarci in un esame, necessariamente breve e sintetico, delle posizioni assunte dalla Luxemburg, dobbiamo ricordare come la stessa fosse costretta a muoversi politicamente fra non pochi ostacoli, all’interno della tragica crisi della socialdemocrazia tedesca, sostenitrice del primo massacro imperialista. Da qui l’impegno in una lotta quotidiana contro ciò che si presentava, in quella situazione, come il principale nemico: l’astrattismo teorico e la irresponsabilità politica.
Non dimentichiamo che la Luxemburg fu la prima rivoluzionaria a denunciare il revisionismo di Bernstein e l’attendismo strategico di Kautsky. La sua ferma e tenace battaglia (condotta, come riconobbe Lenin, da lunga data) contro il servilismo opportunista di Kautsky, la vide attenta non solo a cogliere ogni possibile contraddizione del capitalismo e delle sue ideologiche mascherature, ma anche a ricercare costantemente quella fiducia e quel legame con le masse operaie che la socialdemocrazia aveva ormai perso in quel momento. (Purtroppo, in seguito, i socialdemocratici riuscirono ad infuenzare ancora negativamente la classe operaia ed a bloccare la rivoluzione in Germania, grazie appunto al controllo che esercitavano su una parte consistente della classe. Era un legame diverso, era il legame dell'inerzia della tradizione e non dell'iniziativa rivoluzionaria, era quindi un legame con la parte che si era “accomodata” o cercava di accomodarsi nel capitalismo, non con la parte più cosciente, attiva in senso classista e rivoluzionario o suscettibile di diventarla, se opportunamente stimolata e indirizzata.)
Il limite storico del capitalismo - Cominciamo dalla rappresentazione più ufficialmente diffusa di una Luxemburg che scopre le insufficienze della teoria economica elaborata da Marx. In realtà, in quello che fu il suo maggiore lavoro teorico, L’Accumulazione del Capitale, la Luxemburg anticipa – affrontando la fondamentale questione delle possibilità di uno sviluppo costante e generale del capitalismo e quindi della sua stessa esistenza eterna – la discussione su quei temi (imperialismo, colonialismo e crisi economiche) che saranno poi al centro del dibattito politico della III Internazionale.
Una volta ammessa la illimitata accumulazione del capitale -- scrisse infatti la Luxemburg -- si è anche provata la illimitata validità del capitale (…). Se il modo di produzione capitalistico è in grado di assicurare l’accrescimento delle forze produttive, il progresso economico, allora esso è imbattibile.
Al fatalismo positivistico presente nelle analisi teoriche dei massimi esponenti della socialdemocrazia tedesca, la Luxemburg contrappose la ricerca, nel movimento stesso dell’accumulazione capitalistica, del suo limite storico, vale a dire «la impossibilità di una ulteriore espansione delle forze produttive e la necessità storica obiettiva del tramonto del capitalismo». Viceversa, allontanandosi ogni prospettiva di crisi e di crollo del capitalismo, non poteva dirsi che la questione del suo ulteriore sviluppo, dell’incessante ampliarsi delle forze produttive, e perciò del suo automatico procedere verso il socialismo. Fino alla bestemmia stalinista – negli anni che seguirono – del “socialismo in un solo paese” attraverso la superiore e inarrestabile crescita dei ritmi produttivi e dell’accumulazione … “socialista”!
E di nuovo, ai giorni nostri come ai tempi della Luxemburg, ritorna il mito di uno sviluppo economico controllato democraticamente, di un rilancio degli investimenti, dei profitti e dei consumi nell’ambito dei più che mai intoccabili ed eterni rapporti di produzione mercantili. Di fronte al gigantesco fenomeno dell’espansionismo imperialistico, la Luxemburg indirizzò la ricerca delle sue radici economiche specifiche nella “sovrapproduzione capitalistica”, spostando così l’attenzione sul conflitto tra forze produttive e limiti di assorbimento del mercato. Come è noto, essa spinse la propria analisi critica, all’interno della teoria marxista della “riproduzione allargata”, oltre la semplificazione metodologica adottata dallo stesso Marx, il quale astraeva dal commercio estero esaminando “una nazione isolata” come mondo capitalista “ideale”. Con ciò Marx poté chiarire – secondo la legge del valore – che la realizzazione vera e propria del plusvalore non avviene nel processo di circolazione ma bensì all’interno del processo di produzione. Il conflitto, sempre più teso e radicale, è dunque fra capitale e lavoro.
La Luxemburg, spostando l’attenzione critica sui rapporti internazionali, fra il capitalismo e gli altri sopravvissuti modi di produzione esterni, sviluppò il concetto economico secondo cui la saturazione dei mercati costituisce il punto di crisi finale. La produzione, anziché determinare il mercato, appariva determinata da quest’ultimo. Chiaramente, anche per Marx, l’allargamento continuo del mercato mondiale porta la produzione capitalistica ad ulteriori sviluppi e accrescimenti, ma la “produzione per la produzione” (in quanto produzione di profitto) – cioè la produzione che determina e condiziona il consumo e la sua espansione – è questa innanzitutto lo scopo, la molla principale del capitalismo. Quella che doveva essere una chiarificazione e un arricchimento della teoria marxista, pur fornendo un contributo notevole e sotto certi aspetti anche originale, finì però – nel tentativo di confrontare la realtà immediata con la teoria nel suo complesso – col trascendere i contenuti del problema trattato da Marx nel II Libro del Capitale, ossia lo studio delle condizioni di riproduzione del capitale.
Entro questa delimitazione e con lo schema della riproduzione allargata, Marx aveva evidenziato le difficoltà e le contraddizioni permanenti insite nel processo di riproduzione capitalistico e quindi nelle capacità di un suo infinito sviluppo. Ed è nel III Libro del Capitale, che più concretamente verrà approfondito l’esame del problema. Lo sbaglio della Luxemburg consistette nel ritenere impossibile la riproduzione allargata, l’accumulazione, in un sistema a capitalismo puro per la mancanza di acquirenti delle merci prodotte e per la necessità di sbocchi extracapitalistici. Con la sua teoria dei mercati la Luxemburg finì col preoccuparsi della vendita delle merci come unico postulato per la realizzazione del plusvalore e conseguentemente dell’allargamento del processo di accumulazione del capitale, che le appariva principalmente come accumulazione di denaro realizzato sul mercato di scambio, e non come accumulazione di ulteriori mezzi di produzione. (Ma è nel processo di produzione che si forma il plusvalore, ed e qui – con la caduta del saggio del profitto e con tutte le sue conseguenze e implicazioni – che si origina la crisi).
Un errore, quello della Luxemburg, che si può giustificare (assieme al fatto di non aver ammesso nel proprio schema l’aumento dei beni di consumo, sia per il proletariato che per la borghesia) soltanto come una reazione che, con la sua parzialità teorica, si presentava strettamente connessa alla implacabile ed essenziale lotta contro le tendenze economiche riformiste che soffocavano il movimento proletario. La Luxemburg mise senz’altro e nonostante tutto il dito sulla piaga di quella “contraddizione costante”, di quel conflitto dominante presente nel capitalismo, fra «lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro e il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente». (Marx)
L’auto-decisione delle nazioni - Le divergenze sorte fra la Luxemburg e i bolscevichi (Lenin in particolare) risentivano senza dubbio della spinta di criteri politici e di esigenze tattiche differenziate dalle specifiche situazioni storiche in cui si trovavano ad operare la Luxemburg e il movimento operaio polacco, da una parte, e Lenin e il movimento operaio russo, dall’altra. Quest’ultimo si trovava sotto il dominio dell’impero zarista (che aveva anche metà della Polonia sotto di sé, e quindi anche la classe operaia polacca di quel territorio) e quindi alle prese con il “nazionalismo dei grandi russi” e con problemi di “riforme democratico-borghesi”. Lenin stesso osservava al riguardo: «per il momento, ovvero storicamente, nella “particolarità della Russia”».
Sostenendo che «il diritto di libera disposizione delle nazioni», di fronte alla egemonia internazionale esercitata dal Capitale, è «una vuota fraseologia piccolo-borghese ed una mistificazione», ovvero «uno strumento della politica controrivoluzionaria» nelle mani della classe borghese – sostenendo ciò la Luxemburg era in linea con una visione politicamente conseguente del marxismo nell’epoca del più sviluppato e maturo capitalismo. Soltanto un maestro della dialettica e del tatticismo rivoluzionario, quale fu Lenin, era in grado di valutare la possibilità (unica e particolare, ma ciò non di meno sostanziale e pratica) di indebolire la Russia zarista e di spezzare – con l’appello alla auto-decisione delle nazioni (la Polonia) – quello che costituiva in realtà «il più dannoso nazionalismo, perché – precisava Lenin – è meno borghese ma più feudale». (Qui va osservato che se il discorso di Lenin, pur in una visione tattica rigorosamente classista – perché, in ogni caso, mai il movimento operaio avrebbe dovuto allearsi con un movimento nazional-borghese e tanto meno in posizione subordinata – era tuttavia pericoloso e apriva dei varchi che saranno poi ampiamente sfruttati dallo stalinismo. Insomma, pur “ammirando” la maestria tattica di Lenin, possiamo dire che avesse più ragione la Luxemburg.)
Significativo sarà poi il modo con cui lo stalinismo si scaglierà contro le posizioni difese dalla Luxemburg, che disturbavano evidentemente, dopo la II guerra imperialista, la propaganda stalinista per una “riunificazione” della Germania, poco prima divisa in due con gli alleati occidentali. Così l’affermazione della Luxemburg: «nell’epoca di questo imperialismo non ci possono più essere guerre di difesa nazionale», non poteva trovare in Stalin che la cattedratica condanna di “pasticcio semi-menscevico”.
Classe, partito e dittatura - Vediamo infine le osservazioni critiche(Qui va osservato che la Luxemburg mosse alla eccessiva centralizzazione della Direzione del Partito bolscevico e alle imposizioni dall’alto, senza alcun “controllo pubblico” – come reclamava la Luxemburg - dei decreti del comunismo di guerra. Opponendosi severamente ad una concezione meccanicistica dei rapporti fra partito e masse (il partito o il sindacato che “ordinano il movimento” delle masse), quale era quella dominante fra i massimi esponenti del socialismo tedesco, e attribuendo alle masse stessa l’autonoma capacità di conquistarsi una coscienza di classe attraverso la lotta e l’organizzazione e non esternandosi da queste attività – opponendosi a tutto ciò, la Luxemburg dava il via ad un lungo dibattito sulla “interpretazione” dei rapporti fra partito e masse e sulle conseguenti applicazioni pratico-organizzative. Solo le dure prove e le lezioni degli eventi storici successivi avrebbero chiarito l’equivoco idealistico e manicheo di una scelta che si limiti a porre l’accento esclusivamente sulla autosufficienza delle masse, da un lato, o del partito, dall’altro lato; una opposizione irriducibile fra due termini che, invece, non si possono né si devono escludere ma costituiscono quello che Marx chiamava un «reale dualismo dell’essenza». La loro “mediazione”, quindi, non solo è possibile: è proprio in essa, nel suo “movimento”, che si concretizza e si realizza il fine storico della rivoluzione comunista.
Si tratta di un rapporto di dialettica interdipendenza, al di là del quale – e ancora una volta entro limiti idealistici – avremmo la presentazione astratta di una concezione tanto meccanicistica quanto impraticabile. Una concezione, cioè, accentrata unicamente o sul partito e sul suo Comitato Centrale o sull’azione spontanea delle masse. Un rapporto di dialettica interdipendenza, in effetti, si stabilì (e di ciò la Luxemburg fu certo ben consapevole ed entusiasticamente solidale) nell’Ottobre bolscevico quando, come scrisse Onorato Damen,
si verificò quel ritorno dall’altro verso il basso, il ritorno cioè della volontà realizzatrice del partito verso la enorme forza esplosiva della classe da cui quella volontà era stata determinata.
Il partito di Lenin, anche per la Luxemburg,
è il solo che abbia capito la legge e il dovere di un partito veramente rivoluzionario; e che attraverso la parola d’ordine: tutto il potere nelle mani dei proletari e dei contadini, ha risolto la famosa questione della maggioranza della popolazione che, da sempre, pesa come un incubo sul petto dei socialisti tedeschi.
Dittatura del proletariato: su ciò non si discute. Quello che preoccupava la Luxemburg era il legame con l’esercizio della più ampia e operante democrazia operaia; una dittatura pertanto che si deve legittimare storicamente come
l’opera della classe e non di una piccola minoranza a nome della classe e che deve provenire man mano dalla partecipazione attiva della masse operaie.
D’altra parte, il richiamo di principio ad una dittatura di classe, ad una «dittatura socialista» che «non può indietreggiare davanti a nessun impiego dell’autorità per prendere o impedire delle misure nell’interesse della collettività», compresa la «privazione dei diritti civili e dei mezzi economici» contro la resistenza delle classi borghesi – questo postulato politico fondamentale può apparire, nello scritto della Luxemburg sulla Rivoluzione Russa (1918), in contraddizione con la insistente rivendicazione per le libertà politiche di una “illimitata democrazia” indispensabile per la “trasformazione socialista”. E lo sarebbe nella misura in cui l’attuazione della più ampia democrazia e libertà per le masse all’interno della dittatura rivoluzionaria, non fosse intesa come una possibilità che va senz’altro tutelata ma che resta pur sempre condizionata, e limitata, dalla dura e impellente necessità di assoggettare a tutti i costi la classe capitalista e di recuperare e rieducare non pochi strati dello stesso proletariato. L’appassionato, quasi utopistico discorso della Luxemburg attorno a un meccanismo politico capace di fare da antidoto ai pericoli di degenerazioni burocratiche del partito e dispotico-personali del potere, per di più elevati a modelli generali indiscutibili (e di fronte allo stalinismo la Luxemburg fu non poco profetica), questa rivendicazione si può unicamente concludere – potrebbe andare oltre soltanto idealisticamente ed astrattamente – nel riconoscimento della inevitabile e concreta restrizione costituita dalla terribile pressione delle circostanze e delle difficoltà obiettive. Fra queste, per la Rivoluzione Russa, vi era il «contraccolpo del fallimento del socialismo internazionale i limiti delle possibilità storiche».
Sarebbe una cosa sovrumana -- concludeva allora la Luxemburg -- esigere da Lenin e compagni, in simili circostanze, di dare quasi per incanto la migliore democrazia, la dittatura modello del proletariato ed una fiorente società socialista (…). In Russia il problema poteva solo essere posto ma non risolto. È in tale senso che l’avvenire appartiene ovunque al bolscevismo.
Più che mai assurda perciò, se non diffamante, la pretesa di riscoprire attraverso gli scritti della Luxembourg le radici dello stalinismo e dei suoi crimini nello stesso leninismo; presenti cioè nel suo “peccato giacobino” e nei suoi “intimi e quasi certi esiti negativi”, come gli ideologi della democrazia borghese hanno insinuato. Fino alla “attualità della idea e della eticità luxemburghiana” individuata quale ponte di passaggio tra la crisi del “socialismo reale” e il “nuovo processo rivoluzionario innescato da Gorbaciov nell’Urss” (così R. Gagliardi scrisse sul Manifesto)
Nella «demolizione della dominazione di classe» (e degli interessi ad essa legati); nelle indispensabili «misure violente di pressione per la distruzione del capitalismo» (per, come dirà Lenin, «l’assoluta oppressione delle classi dominanti condotta con pugno d’acciaio»), in queste dure esigenze della dittatura di classe la Luxemburg respinse ogni pretesa di “costruzione del socialismo” per decreto e soffocatrice del corretto rapporto fra partito e masse operaie. Resta il fatto che l’incubo del paralizzante “feticismo dell’organizzazione” praticato dai revisionisti socialdemocratici, se non oscurava nella Luxemburg «il dovere e l’obbligo della dittatura di classe di prendere misure socialiste in modo energico, inflessibile ed inesorabile, brutale», accentuava però in lei quella eccessiva fiducia, pagata poi con il proprio martirio, nella iniziativa dal basso e nella riconquista della coscienza comunista da parte delle masse. Da qui la concezione del partito che segue, invece di precedere, e che appoggia, invece di organizzare e dirigere, il movimento rivoluzionario spontaneo. Da una polemica così severa e pregnante, sarebbe tuttavia fin troppo semplice separare ancora una volta il buono dal cattivo, condannando o rivalutando ciò che nel pensiero della Luxemburg può sembrare adattabile alle idee “progressiste” e più ambiguamente formali della libertà e della democrazia in generale. Non solo perché la stessa Luxemburg mutò, negli ultimi e drammatici mesi della fallita rivoluzione in Germania, le sue opinioni – come ebbero a testimoniare i compagni Warski e Zetkin – avvicinandosi a quelle dei bolscevichi, ma soprattutto perché la sua opera e la sua milizia non sono valutabili se non entro i confini, e con gli strumenti critici, del marxismo. E in tal senso, anche con i suoi “errori”, la Luxemburg rimane con la sua grande personalità una figura di primo piano della intransigenza e della radicalità rivoluzionaria, e come tale costituisce una fonte preziosa di insegnamenti e di indicazioni per la lotta internazionale del proletariato, contro il capitale e per il comunismo.
È per questo che sulla nostra bandiera rimarrà per sempre appuntata una Rosa Rossa, la nostra Rosa.
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