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Home ›“Marxisti” da avanspettacolo “collettivo” e capitalista
Al “V° Forun europeo sulla via cinese” (Bologna, 14 ottobre), promosso dall’Accademia di Marxismo della Repubblica Popolare Cinese (assieme a Marx21, Fondazione Gramsci e Istituto Confucio - Università di Bologna), vi è stata una serie di interventi definiti ad “alto livello”… accademico. Assieme alla variegata specie endogena di comunisti (fra cui i resti di Rifondazione in primis) si è caratterizzata la partecipazione dei loro colleghi cinesi. Essi hanno riconfermato il ruolo di sostenitori di una politica che ha per “obiettivo quello di contribuire al progresso dell'Europa” alla quale il “sistema cinese” guarda con interesse. Un interesse speciale, quello cioè di una nazione, la Cina “nazional-socialista”, diventata un pilastro della “crescita mondiale” con un governo il quale – è stato rimarcato negli interventi – ha come obiettivo politico quello di lavorare per la “felicità” del proprio popolo...
Solenni gli elogi profusi ad uno “Stato comunista altamente sviluppato” come la Cina, anche se il riferimento allo “Stato comunista” ha un poco imbarazzato qualche presente, al quale non è stato ben chiaro cosa intendessero affermare i “compagni” cinesi dichiarandosi impegnati a completare la “costruzione” del loro socialismo entro il 2050. E’ anche vero che un altro “marxista” a loro affezionato (lo scomparso Losurdo) aveva criticato come troppo “astratta e utopistica” l’ottica del vecchio Marx, il quale dava fondamentale l'estinzione dello Stato in una società comunista. E fra i tanti esperti incantatori di serpenti (molti direttamente stipendiati dalla borghesia), c’è anche un Domenico Moro il quale sostiene che lo Stato debba diventare “espressione degli interessi della collettività”; non solo, ma che la gestione dell’intervento pubblico “includa la partecipazione e il controllo dei lavoratori…” (Globalizzazione e decadenza industriale).
E non sono mancati gli apprezzamenti (cosa abbiano a che fare col marxismo, non è dato sapere) a quel “capitalismo produttivo”, con presenza del “pubblico” accanto al privato in espansione, favorito dal progetto cinese del BRI. (1) Basta, dunque, col “libero-scambismo selvaggio” e acclamata soddisfazione per quello che sarebbe un incondizionato (?) appoggio alla politica cinese di cooperazione pacifica (vedi in Africa…) con elogi alla “creazione di ricchezza e sviluppo (capitalistico – ndr) quale strada per fermare l'immigrazione”.
Altra questione sarebbe quella degli sforzi necessari (li starbbe compiendo il Pcc) per diffondere maggiore “serietà” e “disciplina” nel paese, poiché la politica di “apertura” globale, mettendo i cinesi in contatto con rapporti di produzione capitalistici e con diverse ideologie concorrenti, comporterebbe rischi di degenerazione interna…
I vari rappresentanti e studiosi del “marxismo cinese” hanno applaudito ai progressi ottenuti dalla produttività sociale e dall’attenzione verso i nuovi “bisogni sociali” del popolo cinese (vedi come risposta la loro diffusione di “democrazia” e libertà…). Da parte sua il Partito sta valutando l'esistenza (purtroppo) di una “serie di contraddizioni su diversi livelli” e quindi la necessità di un'attiva partecipazione politica popolare. Questo “socialismo a caratteri cinesi” avrebbe quindi una dialettica in “continua evoluzione”! Gli economisti cinesi hanno poi sottolineato come l'UE sia oggi il primo partner commerciale della Cina: 674 miliardi di dollari nel 2017, con una vasta “composizione delle merci”. Abbiamo poi, fra gli entusiasti della BRI, anche l’economista Giacché (un altro tipo di “marxista”): a suo dire si tratterebbe di un “modello economico alternativo a quello dominante in Occidente” e quindi osteggiato dalle “cancellerie occidentali”. Quindi, l’Italia dovrebbe aderire alla BRI per fare da centro mediterraneo ad uno sviluppo del capitalismo nel Meridione. (2)
Affermazione finale: bisogna ricostruire un “nuovo ordine monetario mondiale, come sfida dei prossimi anni”. Segue la sottolineatura di concetti cari al “socialismo a caratteri cinesi”, ovvero “famiglia e nazione” quali “nucleo cellulare della società”. Questi sarebbero i “valori” tradizionali fondamentali per una società che starebbe “costruendo” il socialismo, e validi anche (e soprattutto!) per la loro “convenienza socio-economica”. Infatti, solo così – con l’appoggio famigliare – si potranno sostenere gli anziani, altrimenti lo Stato avrebbe troppe spese “no profit”…
Con questi obiettivi e con una “flessibilità tattica” richiesta da “una strategia internazionale per migliorare il mondo”, è necessario stringere “alleanze” (sia politiche che commerciali) coll mondo capitalistico esterno. Evviva quindi il sistema “win-win” (vincente-vincente). E mentre l’imperialismo del passato aveva “regole di scambio unilaterali” imposte con la forza, il sistema “win-win” consente di ottenere vantaggi economici reciproci! Calorosi gli applausi da parte di qualche esponente (la madre dei “briganti e ladroni” è sempre incinta) del nuovo imperialismo nazional-socialista d’Oriente e d’Occidente! (3)
DC(1) La Belt & Road Initiative (Bri) è un progetto strategico cinese, per una crescita commerciale attraverso una nuova Via della seta con una valorizzazione di porti mediterranei.
(2) Si parla di 1.400 mld di dollari d’investimenti infrastrutturali per opere marittime, stradali, aeroportuali e ferroviarie. L’interscambio cinese con l’area Mena (Middle East – North Africa) era nel 2001 di 20 mld di dollari ed è salito a 245 mld nel 2016. In due anni la Cina ha già investito oltre 3,1 mld di euro (3,7 mld di dollari). E, per quanto riguarda l’Italia, sono interessati al progetto soprattutto gli scali di Genova, Savona e Trieste, quali punti d’arrivo dei traffici dalla Cina al Mediterraneo, attraverso Suez.
Nella strategia di penetrazione cinese ci sono gli acquisti in Olanda, Anversa e Amburgo dove si realizzerà un terminal container automatizzato. Nel Mediterraneo ai cinesi interessano gli scali del Sud come supporti per le linee ferroviarie e stradali della nuova Via della seta. Forti quote cinesi (quasi 300 milioni di euro) vanno all’acquisto della Port Authority del Pireo in Grecia; più di 850 mln di euro per il porto di Haifa (Israele) il cui scalo passerà all’amministrazione cinese nel 2021. Un terminal container sarà poi costruito ad Ashdod (altri 850 milioni di euro). Già effettuati acquisti di terminal in Turchia mentre sono in corso varie manovre coinvolgenti anche investitori non cinesi e partecipazioni a joint che gestiscono a Suez il canal container terminal.
La Cosco, compagmia di Stato cinese (China Oean Shipping company) ha acquisito, a giugno di quest’anno, il 51% della spagnola Noatum ports holding (affare da 204 mln di euro), tra gli asset della quale figurano i terminal container di Bilbao e Valencia. In Italia, oltre a Savona-Vado, dove Cosco e Qingdao investono 70,5 mln di euro (53 la prima e 17,5 milioni la seconda), la Cina guarda soprattutto alle possibilità offerte da Genova e da Trieste, con la sua free zone doganale e i collegamenti ferroviari con la Mitteleuropa.
(3) ll gruppo “Spartaco” che si definisce trotskista (quartinternazionalista) precisam a proposito della Cosco, che non si tratta di una “azienda capitalista” bensì di “una componente dell’economia collettivizzata cinese”. E in Cina vi sarebbe “uno Stato operaio deformato dalla burocrazia del Pcc”: è solo per questo che la Cosco pratica “salari da fame e contratti flessibili che dissanguano gli operai”! (Testuale, lo si legge sul loro giornale…). Il motto collettivo sarebbe: “Lavoro duro = vita felice”: compresi “turni di 12 ore per una manciata di euro”. Questo “socialismo con caratteristiche cinesi” (così definito dai governanti di Pechino) tuttavia non farebbe della Cina – secondo Spartaco – “una parte integrante del sistema imperialista internazionale”. E i trotskisti spiegano (?) che “partecipare al commercio mondiale non è né capitalismo né imperialismo”. Ed infatti – continuano a raccontarci – anche se in Cina “si è sviluppata una classe capitalista” (?), essa non avrebbe il “potere politico”, e per conquistarlo dovrebbe “distruggere lo Stato operaio e quelle forme di proprietà collettivizzata alla base di un impetuoso sviluppo industriale (tasso di crescita dirompente) e delle enormi conquiste per le masse operaie e contadine”. Inoltre, vi sarebbe pur sempre il “controllo del settore finanziario da parte delle Banche di Stato”… E se qualcuno avanza dei “dubbi”, sappia che “gli investimenti (di capitale – ndr) della Cina all’estero non hanno come forza motrice il profitto”. Qualche riga più avanti, però, chi scrive ammette che la produzione (di merci) in Cina “è organizzata per produrre profitti per soddisfare le necessità della vita delle masse”… Ripetiamo: tutto nero su bianco, su Spartaco, ottobre 2018.
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