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Home ›Sulla strage dei braccianti in Puglia
Ogni estate, le cronache registrano la morte di operai agricoli, non solo immigrati e non solo maschi, stroncati dal caldo e dalla fatica nei campi dove lavoravano in condizioni durissime. A seconda dell'orientamento politico, i mezzi d'informazione vi danno più o meno (di solito, il secondo) risalto; qualcuno fa seguire la notizia da commenti che denunciano il sistema del caporalato su cui si basa una parte importante dell'agricoltura nel Meridione. Ma la “disgrazia”, se viene riportata, scompare rapidamente dalle pagine dai giornali e dagli schermi televisivi, così come l'attenzione rivolta al contesto in cui è avvenuta, in attesa di un'altra estate, di un altro evento luttuoso, che forse non verrà neanche classificato tra gli infortunii, mortali, sul lavoro, visto che non è un macchinario “impazzito”, una fuga di gas a uccidere, ma il sole, il caldo ossia quanto di più naturale ci possa essere. Forse, anche la doppia strage di braccianti, tutti africani, avvenuta a distanza di quarantotto ore l'una dall'altra nel foggiano, verrà collocata dalla statistica tra gli incidenti stradali. Indubbiamente, la dinamica dell'incidente è simile a quella di tanti altri che avvengono sulle strade, ma chi può escludere che la “fatalità” non sia stata aiutata dalla fatica, visto che entrami gli incidenti si sono verificati al ritorno dai campi, o dallo stato dei furgoni, grosso modo dei catorci, in cui vengono stivati come sardine gli operai? Resta il fatto che i sedici morti erano proletari, salariati che si trovavano su quella strada non per un caso fortuito e disgraziato, ma perché quello era il percorso da fare per raggiungere i campi in cui spremere sudore, erogare fatica, la sostanza fisica di quel plusvalore che alimenta la catena dello sfruttamento, dal caporale ai proprietari delle aziende agricole fino alle grandi catene di distribuzione.
Per non creare fraintendimenti di stampo riformista, il lavoro salariato è sempre sfruttamento, non può essere diversamente, anche quando viene svolto nel rispetto pieno delle leggi specifiche. A rigore, benché possa apparire paradossale, un operaio che lavora in una fabbrica tecnologicamente avanzata e con una retribuzione elevata – relativamente alla media dei salari – può essere più sfruttato, in termini di plusvalore, di un bracciante immigrato, ma certamente la brutalità delle condizioni di lavoro e di vita a cui quest'ultimo deve sottostare, mostrano senza possibilità di equivoco cosa significhi sfruttamento.
Sono quattrocentomila gli immigrati occupati, di solito stagionali, in agricoltura; di questi, si calcola che centomila lavorino di fatto come schiavi. Tutti, in maniera più o meno accentuata, sono però accomunati da lunghe giornate di lavoro, salari che raramente superano i tre-quattro euro all'ora (se va bene: in genere, la paga è di venti euro al giorno per dieci o undici ore), senza la minima copertura previdenziale-assicurativa, anzi, spesso totalmente in nero, costretti a subire i taglieggiamenti dei caporali che fanno pagare cifre esorbitanti per il trasporto sui luoghi di lavoro e per l'acqua fornita da loro stessi. Non è raro, poi, che quando gli operai ricevono una busta paga con qualche parvenza di aderenza alla normativa, si vedano riconosciuto un numero di giornate molto inferiore di quelle realmente effettuate. La presenza della criminalità organizzata, compresa quella extranazionale, ha naturalmente un ruolo non secondario in questo moderno mercato degli schiavi, che, se è particolarmente diffuso al Sud1, non è però assente nel Centro-Nord, dove, invece del caporalato, agiscono finte cooperative (molto simili a quelle operanti nella logistica), che nei confronti dei lavoratori mettono in atto le stesse modalità di sfruttamento, di estorsione, di violenza.
A salari così bassi, non può che corrispondere una situazione abitativa altrettanto infame: baraccopoli senza servizi igienici, senza energia elettrica, senz'acqua né riscaldamento; tipici scenari dei posti più degradati del Pianeta, come le bidonvilles dei paesi “in via di sviluppo” o... dei ghetti per migranti disseminati dal capitale nella “metropoli”, come la “Jungle” a Calais, Rignano in Puglia ecc. Le istituzioni, a ogni livello, conoscono benissimo questi “paesaggi” di miseria e oppressione, ma, inutile sottolinearlo, nel complesso fanno ben poco per cambiarli. La stessa legge contro il caporalato, la 199/2016, se contempla una stretta repressiva contro caporali e padroni (gli uni non possono esistere senza gli altri) è debole e largamente inapplicata in quelle parti che potrebbero almeno attenuare (non risolvere) i problemi più urgenti che attanagliano i braccianti, a cominciare dall'alloggio e dal trasporto verso i campi, ora, come s'è detto, passaggio preliminare della catena dello sfruttamento, prima ancora che l'operaio cominci a rompersi la schiena nelle campagne. D'altra parte, non potrebbe essere diversamente, perché mai, in regime capitalistico, una legge può risolvere alla radice i problemi di fondo, visto che il problema di fondo è appunto il rapporto salariato, l'alfa e l'omega della società borghese. Anche le migliori intenzioni, diciamo così, dei riformisti borghesi si scontrano con le necessità del processo di accumulazione, alle quali si devono piegare. Questo è tanto più vero nelle epoche di crisi, come quella che stiamo vivendo, durante le quali gli spazi per interventi migliorativi delle condizioni di esistenza si riducono al lumicino, a dire tanto. A rafforzare il sistema semi-schiavistico del caporalato, c'è l'esigenza di tanti padroni e padroncini agricoli che, soprattutto dopo il taglio dei fondi UE alle aziende conserviere, per potere stare sul mercato, ossia realizzare profitti “adeguati”, non possono fare altro che sottoporre la forza lavoro a uno sfruttamento intensivo, ben oltre i livelli “medi”: un bracciante che lavora nelle condizioni sopra citate, costa meno della metà di uno assunto secondo le norme contrattuali, il che si commenta da sé.
Come se non bastasse, la crisi ha creato o amplificato un fenomeno forse non nuovo, ma di cui non si parla o si parla poco ossia che certi lavoratori di cittadinanza italiana, vicini alla pensione, ma non ancora provvisti di tutti i requisiti, lavorano gratis nei campi, fianco a fianco degli immigrati, accontentandosi solo dei contributi ai fini pensionistici. E' un altro tassello della degradazione generalizzata delle condizioni di lavoro che va avanti da decenni, da quando è cominciata la crisi strutturale del processo di accumulazione, che, tra alti e bassi, segue una linea discendente e niente, al di là dei facili e interessati ottimismi, fa pensare che possa essere invertita. Lo stesso “Decreto Dignità” del vicepremier Di Maio, che aveva tuonato contro l'uso dei voucher quando era all'opposizione, reintroduce i voucher medesimi in determinati comparti, tra cui, manco a dirlo, l'agricoltura, facendo così rientrare dalla finestra quello che era stato fatto uscire – sia pure a fini elettoralistici – dalla porta. In breve e nella sostanza, la “rivoluzione contro il Jobs act” si colloca pienamente in quella tendenza pluridecennale, così come, superfluo ricordarlo, le leggi sull'immigrazione o, per meglio dire, contro gli immigrati, le quali non hanno altro scopo che complicare quanto più possibile la vita al proletariato migrante per renderlo estremamente ricattabile e, quindi, docile strumento (queste le intenzioni) nelle mani del capitale.
C'è chi, mosso da sinceri sentimenti riformisti2 e dunque da una prospettiva che non mette in discussione l'orizzonte borghese, propone la meccanizzazione di quel 10% di agricoltura che ancora ricorre massicciamente al lavoro umano, per cancellare l'infamia del caporalato. Il punto è che per meccanizzare la raccolta occorrono investimenti, ma finché la forza lavoro è così torchiata, investire non conviene: è una vecchia legge del capitale sempre valida. Inoltre, eliminato un problema, se ne presenterebbe subito un altro, facilmente intuibile: non ci sarebbe più bisogno dei braccianti, che rimarrebbero così disoccupati. Visto però che si tratta, a schiacciante maggioranza, di immigrati, lo stato non dovrebbe preoccuparsi di erogare sussidi e ammortizzatori sociali vari, quindi il problema si limiterebbe a una questione di ordine pubblico, al controllo-espulsione di persone economicamente e socialmente allo sbando, private delle pur minime risorse di cui prima potevano disporre.
L'8 agosto c'è stato lo sciopero e relativo corteo dei braccianti della zona di Rignano promosso dall'USB, che pare abbia avuto un'adesione totale. Lo stesso giorno, a Foggia, i sindacati confederali, con l'appoggio di altre associazioni (ARCI, Libera ecc.), hanno organizzato una manifestazione, anche questa riuscita, con la partecipazione di migliaia di lavoratori. Ora, al di là dell'ovvia constatazione che una volta di più i sindacati dividono i lavoratori invece di unirli – sia pure in una logica sindacale – la cosa che salta agli occhi, stano almeno ai video delle due iniziative, è la sostanziale assenza di lavoratori “bianchi” nei cortei, indice del basso livello del senso di solidarietà che la classe proletaria nel suo insieme oggi sente e quindi esprime. Non è, crediamo, una questione di colore della pelle, o per lo meno non è quella principale. La spiegazione va cercata nella compartimentazione delle lotte portata avanti da decenni (per non andare più indietro) dal sindacato, nella ricerca solo formale e a puro livello di testimonianza, della solidarietà fattiva, concreta, da parte degli altri settori della classe durante gli scioperi, circoscritti rigorosamente dentro i confini della fabbrica, della categoria, del comparto. L'istinto, la pulsione alla solidarietà proletaria – che certo possono convivere contraddittoriamente con altri “sentimenti”, meschini e figli dell'ideologia borghese – sono stati mortificati fin quasi al soffocamento. Dare loro ossigeno, fiato e gambe è uno dei compiti primari da affrontare da parte di coloro che hanno in odio questa triste società fondata sullo sfruttamento e l'oppressione. Molto meglio se cercheranno di assolverlo in forma organizzata; noi, per quanto sta alle nostre forze, ci siamo.
CB(1) Il 60% dei lavoratori in nero è utilizzato da aziende meridionali, il 20% pugliesi, secondo il Sole 24 ore dell'8 agosto 2018, che cita fonti sindacali.
(2) Vedi il Sole 24 ore, cit.
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