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Home ›Italia paese delle emergenze sotto l'incudine dell'autoritarismo di stato
Emergenza maltempo, emergenza migranti, emergenza abitativa...
Non c'è argomento di una certa gravità che non venga accompagnato dalla targhetta di “emergenza”. Nell'epoca della crisi, la politica dell'emergenza risucchia tutto e tutti, rendendo più agile l'operato dello stato.
Rendere una situazione emergenza significa ridurla a questione di ordine pubblico. Permette, quindi, di saltare il tradizionale iter “democratico”, a vantaggio del decisionismo governativo e dell'autoritarismo del ministero degli interni, dove in questi casi i tre poteri vengo concentrati nel più classico esempio delle dittature.
Stato di emergenza significa chiusura di ogni spazio di confronto e dissenso, significa dover abbassare la testa pena l'essere etichettati come “socialmente pericolosi”, prima e malmenati, processati e incarcerati, dopo.
Il clima dell'emergenza è assolutamente funzionale agli intenti dello Stato: saltare il lento iter parlamentare per giungere ad una veloce “risoluzione” unilaterale della questione. Ciò porta ad affermare che nell'epoca della crisi non c'è più spazio per negoziare né per mediare, ma solo per l'azione forte ed esemplare dello Stato, spalleggiata dell'opinione pubblica opportunamente, come sempre, lavorata ideologicamente, che dell'efficenza statale si fa paladina. Si fa come dice il ministero degli interni, altrimenti si viene rinchiusi.
Gli sgomberi di via Curtatone e piazza Indipendenza (Roma) sono lì a dimostrarcelo. La violenza del sistema si palesa nella sua disumanità: sbattere per strada della povera gente, per altro con il visto di rifugiato, senza proporle un'alternativa degna ti tale nome, ma preferendo mostrare i muscoli e la propria potenza di acqua.. pardon, di fuoco.
Per non parlare delle operazioni contro l'arrivo di nuovi profughi, in sintonia con l'Europa, ma definita, persino dal'Onu (la chiacchiera non costa niente) contro i diritti umani.
La deriva autoritaria dello stato prescinde dalle forze politiche oggi alla sua guida, manifestandosi come l'inevitabile forma attraverso cui gestire la crisi del sistema e le inevitabili acutizzazioni delle sue contraddizioni sociali.
La crisi del sistema ha portato i grandi capitali a scontrarsi per l'allargamento dei mercati, là dove era possibile, o per la conquista dei mercati altrui, all'intensificazione dello sfruttamento del lavoro vivo, dei territori e delle loro risorse. Ciò ha sua volta creato situazioni di tensione che sono sfociate in conflitti, talvolta intrapresi dagli attori principali, altre volte, la maggior parte, da attori di secondo piano ma in stretto rapporto con le grandi potenze. Questi focali di guerra sempre più diffusi hanno portato alla fuga di milioni di persone dalle loro terre di origine, spingendoli a cercare fortuna nel mondo del capitalismo avanzato, attratti dalle possibilità economiche e dall'assenza di guerre.
Queste le conseguenze nel “sud” del mondo che si ripercuotono oggi sul “nord”.
Il capitalismo non è in grado di risolvere i problemi che pone in essere.
“Non è in grado di gestire le forze che ha evocato”. È chiaramente un sistema anacronistico.
Ma dal 2007 ad oggi nel capitalismo avanzato quanti milioni di persone hanno perso la casa? Vi ricordate gli accampamenti in California?
In Italia ad essere senza casa sono centinaia di migliaia, altrettante le case sfitte
Ci chiediamo come sia possibile la mancanza di una politica adeguata in materia.. ma non siamo illusi! Le istituzioni sono lì a difendere il diritto del profitto non il soddisfacimento di bisogni basilari. Infatti invece di assegnare case vuote si preferisce assegnare case già occupate per poter mettere i proletari italiano contro quelli immigrati.
Non è una questione di forze politiche al governo, ma, come detto, di tendenza della Stato borghese a rendersi sempre più autoritario, per assecondare le necessità del dominio di classe, fomentando populismo demagoga è razzismo (armi buone per ogni stagione).
Prioprio per tali ragioni non possiamo non trarre le dovute conseguenze politiche, pena adottare una politica inadeguata alla fase in atto.
Non essendoci più spazi di mediazione, ogni nostro se pur minimo bisogno diviene motivo di scontro insanabile che mette in discussione il sistema stesso, rendendo più evidente il contrasto tra gli interessi in campo. Ma ciò non è dovuto alle nostre capacità bensì alla forza d'urto del nostro nemico di classe, il quale decide sempre il terreno dello scontro. In un momento di debolezza politica ed organizzativa per il proletariato, la scelta dello stato di buttarlo sul piano della forza e della repressione viene assai bene, cancellando a suon di manganellate ogni tipo di dissenso.
Ma si può e si deve reagire a questo stato di cose, non rimanendo però rinchiusi nell'ottica di corto respiro dei singoli, benché gravi, problemi, ma adottando una prospettiva di lungo termine che sappia inserire le varie questioni particolari all'interno di un piano politico di alternativa al capitalismo, partendo dall'assunto che cel capitalismo i bisogni dei lavoratori non possono essere soddisfatti, senza mettere in discussione il sistema stesso.
Solo collegando le situazioni immediate alla prospettiva storica della rivoluzione proletaria e dell'edificazione di una società senza classi né frontiere, senza stato né mercato, potremo competere con il nostro avversario di classe.
Oggi più che mai, in ogni aspetto della nostra vita, si manifesta l'inconciliabilità degli interessi della maggioranza della popolazione con quelli del sistema economico. Oggi più che mai è valido il motto rivoluzionario:
socialismo o barbarie!
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