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Home ›Le trombe stonate del governo - Sull'andamento del mercato del lavoro
Ancora un'estate bollente, dal punto di vista climatico, e ancora una molto più tiepida per quanto riguarda i dati ufficiali sul mercato del lavoro usciti attorno al mese di luglio. Infatti, nonostante l'esultanza del governo, che rivendica a se stesso il merito di aver ridotto in maniera significativa la disoccupazione, consolidando la tendenza stabilitasi col (famigerato, ndr) Jobs act, il panorama occupazionale non è cambiato di molto. Se cambiamento c'è stato, questo non fa che confermare il degrado delle condizioni generali di lavoro, quindi di vita, della classe, un peggioramento che caratterizza questa fase del modo di produzione capitalistico, scandita da una delle crisi più profonde della sua storia ormai plurisecolare. Un degrado che chiunque sia costretto, per vivere, a vendere la propria capacità lavorativa in cambio di un salario o stipendio, subisce da anni, indipendentemente dal fatto che “goda” di un posto a tempo indeterminato o – soprattutto, ma non solo, se è giovane – che viene offerto, cioè imposto, sotto le creative forme (per il capitale) del tempo determinato, altrimenti detto precario.
Ma andiamo a vedere alcuni di quei numeri che hanno indotto ministri e relativi sottopancia a soffiare a pieni polmoni nelle trombe della propaganda. Un dato su tutti, forse, ha entusiasmato i detti trombonisti ossia il livello dell'occupazione femminile – il 48,8% – mai così alta da quando nel 1977 è cominciato la cosiddetta serie storica. Un dato incontestabile, certo, ma con grossi dislivelli interni, cioè tra Nord e Sud, e in ogni caso ben al di sotto della media UE (65,3%) e superiore solo a quello della Grecia, ultima in Europa (il manifesto, 1 agosto '17). Altro elemento sbandierato dalla macchina propagandistica governativa è la discesa del tasso di disoccupazione all'11,1% e, dentro a questo movimento, la riduzione ancora più marcata della disoccupazione giovanile che, seppure alta (35,4%), si attesta al di sotto di quel quaranta per cento e passa di qualche tempo fa.
Insomma, andremmo di bene in meglio, grazie, come si diceva, alle riforme del mercato del lavoro degli ultimi anni e, in particolare appunto, al capolavoro renziano, il Jobs act. Naturalmente, non è tutto oro quel che luccica, anzi, nel nostro caso di oro non ce n'è proprio, per la classe lavoratrice: si tratta del solito volgare gioco delle tre carte in cui la propaganda borghese è maestra, anche perché ha i mezzi per farlo.
E' vero, l'occupazione femminile è aumentata; è vero la disoccupazione – ufficiale – in generale è calata, ma come, in che modo, che razza di lavoro svolgono i “nuovi” occupati? La risposta è contenuta nelle osservazioni iniziali di questo articolo: si tratta di impieghi che un tempo la stessa sociologia borghese definiva come sottoccupazione, caratterizzati – in genere, ma non è sempre detto – da scarsa qualificazione, salari molto “modesti”, durata limitata, pochi o nulli “diritti” (termine insulso e di per sé privo di senso), vale a dire ampia, anzi amplissima discrezionalità del cosiddetto datore di lavoro o, per dirla con Marx, assenza o giù di lì di freni alla dittatura padronale sul posto di lavoro. Dove sono occupate le donne entrate nel mercato del lavoro (ammesso che non vi fossero già in nero)? Per lo più nel settore dei servizi e nei segmenti salariali bassi o più bassi, quelli, appunto, riservati solitamente alle donne. Per inciso, i servizi che impiegano forza lavoro femminile non di rado sono quelli in cui non è richiesta una qualificazione particolare o quelli in cui, come l'assistenza alla persona, la fatica fisico-mentale è tanta, ma la paga nemmeno lontanamente proporzionale – se così si può dire – al dispendio di energie richieste per tali tipi di lavoro, solitamente ben al di sotto della paga media di una “tuta blu” strettamente intesa. Ma anche se le donne entrano in altri settori che richiedono formalmente una qualifica più elevata, non è detto che le cose vadano meglio (anche per i maschi, a dire il vero): si sa che seppure svolgendo, per esempio, la mansione di ragioniera programmatrice, “va grassa”, da neossunti, se si porta a casa uno stipendio (a termine, naturalmente) da trecento euro, che raddoppia coi programmi regionali di assistenza rivolti, più che ai giovani, ai capitalisti che assumono giovani (vedi il piano “Garanzia giovani”).
Non basta. Se la disoccupazione è calata, allora vuol dire che i “nuovi” occupati provengono in genere da forze lavorative fresche prima inutilizzate: il banale buon senso suggerirebbe questo. Invece no: a dispetto del buon senso, una delle spinte più forti al calo è dovuta a un fatto noto e questo sì rilevabile senza analisi sofisticate ossia all'aumento degli ultracinquantenni, crocifissi dalle riforme pensionistiche, in particolare dalla “Fornero”, al posto di lavoro finché, vien da dire, morte non li separi dallo stesso. E' il paradosso, anzi l'infamia che non ci stancheremo mai di denunciare, di un sistema sociale che non solo – e da grandissimo tempo – non ha più niente di positivo da dare al genere umano, ma che, sotto la frusta della crisi, ha accentuato la propria irrazionalità, la propria disumanità: i vecchi al lavoro, i giovani a casa, costretti a buttare la propria esistenza nell'ozio abbrutente, nel consumismo più becero, nell'incertezza del presente e ancor più del domani, permanentemente mantenuti dal cosiddetto welfare familiare (genitori, nonni, parenti tutti), almeno finché dura.
Ma i numeri sono comunque positivi, soprattutto per i giovani, direbbe una “Boschi” qualsiasi, prendendosela con la categoria dei rapaci notturni in veste umana, altrimenti detti “gufi”, capaci solo di criticare e di godere quando le cose vanno male.
Sì, come si diceva, ci sono meno disoccupati tra i giovani (meglio: un po' meno), ma, una volta di più, che tipo di lavoro hanno? Non quello “indeterminato a tutele crescenti”, se non minima parte – tipologia occupazionale precipitata dopo il taglio drastico degli incentivi ai padroni (cosa prevedibilissima) – ma quello precario nudo e crudo e, dopo l'eliminazione dei voucher, in particolare quello “a chiamata”, una forma legalizzata di caporalato:
i contratti a chiamata a tempo determinato […] passano dai 76 mila del 2016 ai 165 mila del 2017 [solo della prima metà, ndr]; si incrementano anche i contratti di somministrazione.
il manifesto, 22 luglio '17
In breve, la vera tendenza che si conferma non è, come si diceva più indietro, verso un progressivo miglioramento del mercato del lavoro, a meno che non la si guardi con gli occhi della borghesia: per il proletariato e strati sociali vicini l'orizzonte è sempre più cupo. Lo dice anche, con altro linguaggio, l'organo del padronato italiano, il quale rileva, citando uno studio della Confederazione dei sindacati europei, che l'aumento dell'occupazione è dovuto, in parte significativa, al lavoro a termine-precario, in particolare al part-time (appannaggio quasi esclusivo delle donne), tanto che
Grazie al part-time, in questi anni in Europa è aumentato il numero degli occupati, ma il numero totale delle ore è purtroppo diminuito.
il Sole 24 ore, 1 maggio 2017
Dato interessante – se si astrae dal carico di ansie, preoccupazioni, difficoltà che porta con sé – perché indica che la minor quantità di plusvalore conseguente alla riduzione del monte ore lavorate, verosimilmente è compensata dal calo dei salari e, appunto, dall'intensificazione dello sforzo lavorativo – qualunque esso sia – che il dispotismo padronale impone in “fabbrica” (1).
Dunque non è solo l'Italia, i suoi governi con o senza Renzi, a perseguire da molti anni il degrado complessivo delle condizioni di lavoro, come tanta parte del riformismo più o meno radicale, racchiuso nell'orizzonte cieco dei confini nazionali, sostiene, proponendo fantastici piani di investimenti pubblici per rilanciare occupazione e salari. Ignorando le leggi del processo di accumulazione o, al più, ritenendole superate dall'evoluzione del capitalismo, tanto quanto lo sarebbe, superato, il “vecchio” Marx – che così lucidamente le ha individuate – quell'area politica è condannata a non imparare mai nulla dai propri continui fallimenti (ultimo, in ordine di tempo, Syriza) e, quel che è più grave, a vanificare, frustrandoli spesso irrimediabilmente, gli slanci sinceri di chi vorrebbe mettere fine a una società giustamente considerata profondamente iniqua. Infatti, il punto è che nel processo lavorativo, data l'attuale composizione organica, il capitale non riesce a ottenere, sulla base del plusvalore relativo, incrementi di produttività tali (cioè quote di plusvalore) da riuscire a raggiungere un saggio di profitto complessivo adeguato (adeguato alla composizione stessa e alle proprie necessità di valorizzazione), per cui l'alternativa è il ritorno massiccio ai “vecchi” e “superati” metodi di estorsione del plusvalore ossia la svalorizzazione della forza lavoro – bassi salari e/o in calo, allungamento di fatto della giornata lavorativa – e la sua riduzione progressiva a fazzoletto usa-e-getta. Detto in altri termini e nonostante sembri un paradosso – ma è il “paradosso” genetico del capitale – benché lo sfruttamento della forza lavoro aumenti da decenni, essa non è sfruttata abbastanza per produrre a sufficienza l'ossigeno indispensabile all'organismo borghese. La borghesia, in Italia, in Europa, nel mondo non smette un istante di “lavorare” su questo problema, al fondo insolubile, al contrario della nostra classe, il proletariato, che di fronte agli attacchi del capitale reagisce, finora, con troppa debolezza, almeno qui, nel vecchio continente.
Ma non è detto che questo torpore debba durare in eterno: anche il sonno più profondo prima o poi viene rotto dagli scrolloni più energici. E di scrolloni, drammatici, dal capitalismo ne verranno ancora...
CB(1) Nell'articolo citato si dice anche che
Dall'anno della Grande crisi a oggi i lavori a tempo determinato sono andati aumentando, mentre le chance di trasformarli in un impiego a tempo indeterminato sono diminuite: nel 2010, ricorda l'Etui [Confederazione dei sindacai europei], a un anno dalla firma rimaneva ancora con un contratto precario il 54% dei lavoratori, mentre già nel 2014 la percentuale saliva al 60%.
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