L’inganno referendario e il compito dei comunisti rivoluzionari

Trivelliamo il capitalismo e le sue leggi!

Con la lotta, l’unità e l'organizzazione. Non con le matite (1).

Si è consumata l’ennesima farsa referendaria, l’ennesima sagra dell’esaltazione della democrazia della delega istituzionale. E proprio mentre i sostenitori del sì versano le loro lacrime sul mancato raggiungimento del quorum, la Camera approva la ri-privatizzazione della gestione dell’acqua pubblica (2).

La logica della delega istituzionale: lo strumento referendario fa eccezione rispetto al voto elettorale?

A nostro avviso no (e spiegheremo il perché) ma per tanti sì, sebbene con motivazioni diverse.

Tra costoro (molti dei quali sinceri compagni), per alcuni lo strumento e la partecipazione referendari sarebbero non solo uno strumento di esercizio della sovranità (dunque un … “dovere civico”), in quanto espressione “vincolante” e per ciò stesso “sovrana” della volontà dell’elettorato, ma addirittura consentirebbero e stimolerebbero la mobilitazione e dunque la costituzione di un fronte di lotta, per la loro capacità di “informare”. Ma informare, propagandare – diciamo noi – è cosa assai diversa dell’invitare a compiere gesti del tutto inutili.

Mettiamola così: adoperiamoci per la vittoria del “sì”, ma a patto che il giorno dopo le persone andate ai seggi diano retta a quelle che fanno lotta politica quotidiana su quel tema.

Clash City Workers, Petrolio, trivelle, politicanti, referendum e noi, 15 aprile 2016

A che serve – ci chiediamo – ipotizzare la stipula di … patti condizionali in favore della lotta con chi il patto lo concepisce piuttosto con lo Stato e non contro di esso?

Per altri, invece, proprio per l’assenza di un fronte attivo di lotta, esso ne sarebbe un utile e irrinunciabile surrogato, in attesa che… Meglio insomma che “non far nulla”, che mantenersi “indifferenti”, favorendo così i petrolieri e lasciando il governo assolutamente libero di gestire le proprie politiche (in questo caso “energetiche”) e di perpetrare la devastazione dell’ambiente: è infatti questa la principale accusa rivolta a chi, come noi, invitava a disertare le urne per … riempire le piazze e i luoghi di lavoro con iniziative di protesta e di lotta organizzata, e non certo per … “andare al mare” (consueto slogan dei politici istituzionali anti-referendari di ogni latitudine).

Alla prima obiezione rispondiamo brevemente così. Il ricorso (ahinoi ancora fiducioso) alla “delega” istituzionalizzata è normalmente l’antitesi all’opzione e dunque alla via dell’azione di lotta, non un suo complementare, né tantomeno un suo acceleratore. Delega istituzionale e mobilitazione di lotta (se dalla lotta escludiamo i cortei-passeggiata in piazza) sono - almeno per chi si sente “cittadino” - due logiche il più delle volte opposte e che perciò si escludono a vicenda. La mentalità di chi delega è spesso, per l’appunto, quella di affidare ad altri la risoluzione dei problemi, limitandosi ad esprimere soltanto un parere credendo (e illudendosi) che esso sia per loro vincolante. Dunque egli non è spinto in alcun modo a lottare, perché identifica il suo segno di matita come un “imperativo” per colui che egli delega a decidere al suo posto. Sono gli stessi fatti a smentire, peraltro, tale ipotizzata convergenza: quanti degli innumerevoli elettori referendari contrari alla privatizzazione dell’acqua pubblica o al finanziamento pubblico ai partiti sono scesi ieri e oggi in mobilitazione dopo che il loro plebiscitario “parere” contrario è stato del tutto disatteso e annullato dalle successive leggi?

Alla seconda obiezione rispondiamo che la democrazia borghese della delega non fa che celebrare e declamare a gran voce la libertà, la democrazia e la sovranità formali nello stesso momento in cui nega quelle sostanziali. Perché essa continua, nei fatti, a garantire ai potentati economici e finanziari – col gradito e immancabile sostegno del loro “democratico” Stato (rappresentativo sì, ma dei loro interessi) l’accesso e la gestione privatistica delle risorse (di tutti solo sulla carta…), dunque la gestione dell’economia e delle politiche economiche (anche attraverso la legislazione); perché essa tutela la proprietà privata dei mezzi di produzione e distribuzione della ricchezza sociale prodotta dai lavoratori; perché garantisce e incentiva (3) il profitto di pochi a scapito della stragrande maggioranza dei senza risorsa alcuna se non la loro forza-lavoro, merce tra le merci, da riuscire (sempre più a fatica) a piazzare sul mercato del lavoro, vendendola ai primi.

La democrazia borghese della delega, di cui il referendum (peraltro solo abrogativo) è uno degli strumenti, è dunque un inganno, un “gioco di carte truccate”. E come tale va denunciato. Il referendum abroga una legge (o parte di essa) senza poterla sostituire anzi continuando a delegare, peraltro a quegli stessi che l’avevano approvata, il potere di farne un’altra.

L’illusione che nel far questo costoro debbano “tenere nel dovuto conto” le indicazioni espresse dal cosiddetto “popolo sovrano” è stata peraltro più volte smentita dai fatti, come in occasione dei referendum sull’acqua pubblica o sul finanziamento pubblico ai partiti, stravinti a maggioranze plebiscitarie e pur tuttavia del tutto vanificati – come ben sappiamo - dalle nuove e successive leggi in materia. Perché? Perché toccavano interessi economici che non era per nulla tollerabile eliminare, a differenza di altri casi referendari (divorzio e aborto) i quali non intaccavano affatto – o al limite in maniera marginale - interessi di tal sorta, risultando piuttosto assai utili a dipingere l’idilliaco quadro di una società libera, moderna e laica (4).

Va inoltre sottolineato che la crisi economica internazionale ha ristretto sempre di più i margini di mediazione, ciò rende il riformismo sempre più debole. Il riformismo (parlamentare, sindacale o extraistituzionale) riesce sempre meno a “portare a casa” risultati tangibili. Tale debolezza tocca il riformismo in qualsiasi forma esso tenti di esprimersi, referendum compresi. L’esempio più eclatante di tutto ciò lo abbiamo visto in Grecia, con un “no global” al governo e con un referendum incapace di incidere, anche in minima parte, sulle sorti del proletariato greco.

Ma la palese smentita offerta dai fatti pare non essere sufficiente a convincere chi persiste in una simile illusione. Il che non fa che ratificare come troppo spesso le teste siano assai più dure e cocciute dei fatti, e di come si preferisca evitare la verifica rispetto alla realtà, pur di non intaccare la solidità delle proprie convinzioni che messe al fuoco di quella verifica, non possono che dimostrarsi pii desideri del tutto astratti.

Se avesse vinto il fatidico sì, sarebbe cambiato qualcosa?

No, semplicemente i petrolieri avrebbero trasferito a 12 miglia e un centimetro i loro impianti, probabilmente agganciandosi a distanza – come qualche tecnico ha ipotizzato possibile - ai buchi già fatti o, peggio, ri-perforando e lasciando così i vecchi buchi pericolosamente scoperti (5).

La realtà è piuttosto che i rischi per coste, spiagge, habitat marino e attività di pesca sarebbero rimasti intatti, e così il disastro, anche se perpetrato qualche miglio più in là. Tranne a ritenere che, in caso di incidente ad un impianto, il petrolio sversatosi in mare, giunto al confine delle 12 miglia “proibite”, miracolosamente si arresti, rinunciando ad inquinare il versante protetto e interdetto ai trivellatori. Tranne ancora a ritenere - consentiteci il sarcasmo – che oltre le 12 miglia i pesci “tollerino” assai meglio l’inquinamento acustico, la devastazione dei fondali, l’inquinamento del loro habitat, nel caso di sversamento in mare dell’oro nero…

Il grande assente: royalties e franchigie

Il grande tema, in larga parte quasi del tutto “assente” in tutto il dibattito referendario, è stato, non a caso, quello delle royalties (e relative franchigie) e delle aliquote di tassazione aggiuntive previste, in teoria, per sostenere i costi di vigilanza e controllo della sicurezza anche ambientale degli impianti e per far fronte ad eventuali danni causati (6).

In Italia vige un regime di concessione lamentato dagli ambientalisti come estremamente “benevolo” e molto vantaggioso per le società concessionarie (7): ENI in testa, oggi società per azioni privata quotata in borsa e operante in competizione con altre aziende private, spesso straniere (Total, ecc.).

I canoni per i permessi di ricerca e le concessioni di esplorazione ammonterebbero a poche decine di euro per km2. Altrettanto basse sono le percentuali delle royalties su quanto estratto, che le aziende energetiche pagano allo Stato (oltre al contributo al fondo di tutela ambientale): per il petrolio in mare sono in totale del 7% e per il gas del 10%. C’è anche da aggiungere che: 1) la loro aliquota percentuale è legata all’andamento di mercato (dunque se il prezzo del petrolio si abbassa, cala anche il loro gettito: giusto per non dispiacere i trivellatori; 2) esse sono pagate solo oltre una certa quota produttiva. In più, se si superano le soglie, ecco che scatta un’ulteriore detrazione di circa 40 euro a tonnellata.

Le società concessionarie godono infatti di franchigie grazie alle quali non pagano nulla se estraggono meno di 20mila tonnellate di petrolio su terra e meno di 50mila in mare. Probabilmente è anche questo uno dei motivi per cui le perforazioni proseguono a ritmi contenuti e lenti (in modo da non sforare i limiti e poter usufruire delle esenzioni) e per cui dunque la legislazione sottoposta a referendum aveva deciso di venire ulteriormente incontro ai petrolieri eliminando proprio i limiti di tempo delle licenze. Con ulteriore buona pace della diffusa concezione dello “Stato neutrale”…

Ma i nostri governatori “ambientalisti” promotori referendari si sono ben guardati - e non è certo un caso… - dal sottoporre a referendum tali “esenzioni”, agevolazioni e basse aliquote (dalle quali ricavano pur sempre introiti interessanti), a testimonianza di quanto essi siano realmente interessati assai poco alla tanto strombazzata tutela ambientale, probabilmente e piuttosto molto di più all’ottenimento di una maggiore quota-fetta di potere decisionale e di royalty da incassare rispetto a quella incamerata dallo Stato centrale. Pare infatti che, secondo la normativa vigente (e guarda caso non sottoposta a referendum), permane nelle competenze e nei poteri delle Regioni (non a caso promotrici del referendum) il parere vincolante circa la concessione del cosiddetto “regime di proroga”. (8) Insomma, mai mancano le beghe istituzionali interne (persino allo stesso partito di governo, di cui i governatori ecologisti fanno parte) per la spartizione di vantaggi economici locali ben precisi (9).

Altro grande assente nel dibattito referendario sono state poi le perforazioni a terra, i cui livelli di pericolo per l’ambiente non hanno molto da invidiare a quelle in mare (10), ma evidentemente così non la pensano i nostri governatori ecologisti: dunque, per gli impianti estrattivi operanti su terra, nessun limite né di tempo né di miglia (pardon: chilometri), nessuna denuncia e allarme di pericolo o disastro ambientale da sottoporre a “parere sovrano popolare”…

Compiti dei comunisti rivoluzionari

Denunciare l'inganno referendario e le insanabili contraddizioni del sistema del profitto (il capitalismo!), indicare la mobilitazione e la lotta politica anticapitalista: ecco il compito di propaganda politica dei rivoluzionari!

Ai militanti politici sostenitori della "guerra sociale democratica delle matite" lasciamo l'ingrato e ridicolo compito di seminare e concimare ancora illusioni di sovranità. Il capitale li ringrazierà di cuore per il prezioso servigio offerto nel tener buoni, calmi e fiduciosi i suoi … “cittadini”.

Ci pare a dir poco contraddittorio limitarsi a denunciare – come tanti compagni fanno - l'inganno della Costituzione o del Parlamento borghesi e non anche degli altri strumenti ideologici (e niente affatto 'politici', come si vorrebbe credere e far credere, perché non decidono nè risolvono nulla) come il referendum e più in generale il voto istituzionalizzato, forieri di una astratta quanto falsa sovranità nonché dell'idea che con essi si possa 'esprimere' il proprio parere (perfettamente inutile, peraltro) o decidere alcunché. Ancor più contraddittorio ci pare esortare e invitare ad un voto pur riconoscendolo e presentandolo come “inutile di per sé”: non serve ma esprimi lo stesso il tuo “sovrano potere”, insomma. Una schizofrenica indicazione politica, peraltro spesso giustificata con l’argomento che i rivoluzionari debbano utilizzare ogni strumento per propagandare le loro opinioni e intenzioni. Sottoscriviamo, ma non è questo il punto, né il modo di farlo.

Cosa c’entra la propaganda politica con l’indicazione all’utilizzo del voto?

Nulla, rispondiamo noi.

Che i 'comunisti' debbano utilizzare tutte le occasioni per propagandare il loro programma politico e l'alternativa all'inferno (incorreggibile) del capitale, è ovvio e se vogliamo scontato. La questione è piuttosto: utilizzare quelle occasioni per far cosa?

Per l'appunto essi utilizzeranno le 'tribune' referendarie per far questo tipo di propaganda (non quella del voto a sostegno di un sì o un no), essendo chiamati ad essere coerenti, credibili e conseguenti, poi, sul piano della prassi che seguono e indicano. Se votare non serve tanto quanto 'non votare e basta’ (11), essi non potranno indicare un voto inutile ma l'astensione, la mobilitazione sociale e la lotta di classe come unico strumento per affrontare i problemi, evidenziando inoltre il limite che incontrerà qualsiasi mobilitazione e la necessità di guardare quindi oltre la lotta contingente ed impegnarsi per la costruzione di una alternativa al sistema del profitto.

I rivoluzionari useranno dunque quelle tribune per:

  1. fare propaganda contro il sistema del capitale e del profitto denunciandone le insanabili e insuperabili contraddizioni e gli interessi economici che generano e alimentano il disastro (informandone della drammatica dimensione)
  2. denunciare e smascherare le sue illusioni e i suoi inganni: il voto istituzionale, la sua falsa sovranità e democrazia, le sue ipocrite declamazioni di diritti, ecc.
  3. indicare l'organizzazione e la lotta come unico strumento utile per il suo necessario superamento
  4. proporre, spiegare e propagandare la necessità della società comunista e la lotta politica per la rivoluzione e il vero comunismo.

Una breve precisazione…

Alla maggiore e più frequente obiezione (la duplice accusa di inutile disfattismo e di dannoso indifferentismo) - spesso rivoltaci con sarcasmo da alcuni compagni (spesso "tirando per la giacchetta" a sproposito persino il buon Lenin contro Bordiga dei tempi che furono…) - rispondiamo sinteticamente così.

Laddove la fiducia dei proletari fosse ancora da mettere al fuoco della prova dei fatti - come era ad es. nella Russia di Lenin che, appena sconfitta l'autocrazia e l'assolutismo zarista, sperimentava per la prima volta la farsa della 'democrazia borghese' - lì poteva avere forse un senso, tattico e temporaneo - dire: "usate questi strumenti, vedrete coi vostri occhi che non servono a nulla!", perché inevitabilmente le illusioni delle masse sulla conquistata democrazia formale andavano smontate coi fatti. E così Lenin fece a suo tempo e luogo adottando la sua tattica “parlamentare” (12).

Molto diverso è il caso, il contesto, in cui le masse hanno già più volte sperimentato che il loro parere potrà facilmente essere disatteso e/o aggirato (come è infatti successo innumerevoli altre volte) e lo dimostrano pure, con una disaffezione diffusa per il voto in generale, che registra tassi di astensionismo del 50% e passa!

I referendum sull’acqua “pubblica” e sul “finanziamento pubblico” ai partiti (oggi reintrodotti come “rimborsi elettorali”) sono stati tutti aggirati abilmente dai governi (potere è… volere!), rendendo nei fatti inutile il “parere” di cui sopra, del tutto disatteso e non tenuto in alcun conto. I comunisti dovrebbero piuttosto usare questo dato nella loro propaganda contro l’inganno della democrazia borghese per invitare a non cadere nell’ennesima trappola di una falsa sovranità.

Invece ecco il paradosso: la fiducia nella democrazia borghese inizia a vacillare e i comunisti … che fanno? Dovrebbero rimpinguarlo, nutrirlo, aiutarlo a riprendersi dal coma?! Oh, ma per questo – noi crediamo - bastano e avanzano gli ingenui 'grilletti'!

Ipotizzare – come purtroppo tanti compagni continuano a fare… - che i proletari debbano 'sempre' e 'ripetutamente' sbatterci la testa per capire, debbano sperimentare sulla propria pelle infinite volte (e poi sempre di nuovo) la sconfitta e la delusione per comprendere la strada giusta o addirittura per maturare finalmente “coscienza politica”, è davvero discutibile e paradossale. Anche perché son settant'anni (dalla “riconquista” della sacra democrazia borghese italiana...) che prendono batoste, eppure in parte essi si illudono ancora, in primis che lo Stato borghese possa loro concedere il gran lusso di spazzare via “democraticamente” quel dominio sociale di classe (di cui esso è espressione e strumento di salvaguardia), o di ostacolare gli affari dei capitalisti con un tratto di matita.

Peraltro non condividiamo – né la troviamo in alcun modo suffragata dai fatti – la tesi degli stessi secondo cui a furia di batoste e delusioni, i proletari si convincano a… “cambiar registro” e mettano così in moto le loro lotte. Anzi, solitamente registriamo come effetto l’esatto contrario: la loro disillusione dalla politica, la frustrazione rispetto all’agire concreto, la delusione e la rabbia si traducono piuttosto nel dilagare o nell’assenteismo (che si traduce in astensionismo fine a se stesso o qualunquismo) o in quella cosiddetta “antipolitica” di cui unici beneficiari diventano, alla fine, gli estremismi di destra e i populismi più estremi (vedi i recenti e diffusi successi dell’estrema destra in Europa e non solo).

Che fare allora?

Ecco perché noi comunisti rivoluzionari sosteniamo sempre che la tattica non è "immutabile ed eterna" (ossia un dogma), ma va scelta e approntata in relazione al contesto in cui si opera e va subordinata - sempre! - alla strategia rivoluzionaria di più lungo periodo. E che senza la direzione politica della sua parte politicamente cosciente (il suo partito, appunto), davanti al tradimento e alla disillusione i proletari potranno, al più, maturare rabbia, o peggio frustrazione, delusione, che sul piano politico possono avere gli “sbocchi” di cui sopra.

Dove l'illusione della democrazia e dell'inganno borghese reggono ancora (seppure a malapena), compito dei rivoluzionari non è dunque alimentarlo - anteponendo il consolante quanto contraddittorio "...anche se non risolve nulla" - ma accelerarne il crollo, perché diventi possibile sia l'aprirsi e lo sperimentarsi di percorsi alternativi ed efficaci di organizzazione e di lotta anticapitalista (non più di delega!), sia il maturare di una coscienza di classe realmente rivoluzionaria.

Perché la vera e reale partecipazione non consiste semplicemente - come ogni classe dominante vuol far credere - nel “poter esprimere un parere” (anche se esso non conta e può essere tranquillamente disatteso) ma nel poter prendere le decisioni su come gestire insieme, in prima persona, come lavoratori associati, l’economia (produzione, distribuzione, utilizzo – e non sfruttamento – delle risorse collettive) liberata dal profitto, per orientarla a soddisfare i bisogni collettivi e non gli interessi di pochi, rispettando quegli equilibri e quell’integrità di uomini e ambiente. Rispetto di cui – con lampante evidenza – il capitalismo non può essere capace, essendo lo sfruttamento di uomini e cose per il profitto la sua unica ed esclusiva finalità.

Ma una partecipazione del genere potrà realizzarsi solo in una società completamente libera dal profitto, e dalle divisioni di classe. Davanti al profitto non si guarda in faccia nessuno, se non per accaparrarsi e garantirsi lucrosi affari o per concordare scambi di favori e tutele. Infatti sono secoli che la sua devastazione del pianeta e dei suoi abitanti avanza e si aggrava.

Per fermarla una volta per tutte, occorre mettere fine a questa schifosa organizzazione sociale, e con essa alle logiche, alle leggi e alle finalità ad essa connaturate. Per farlo dobbiamo unirci, organizzarci, mobilitarci e lottare contro tutto il capitalismo, ma soprattutto contro le cause dei suoi disastri, e non solo contro i suoi effetti. Non si estingue l’incendio di un bosco spegnendo singoli focolai, ma fermando la sua origine.

Questa è l’unica strada possibile. Solo allora potremo davvero e concretamente esercitare la nostra sovranità, la “nostra” democrazia.

Il referendum non basta, il referendum non serve.

Trivelliamo il capitalismo e le sue leggi!

(1) Per un ulteriore approfondimento delle nostre posizioni, rinviamo a: “Il referendum fermerà le trivelle?”, leftcom.org

(2) Denuncia il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua:

Oggi la legge sulla gestione pubblica del servizio idrico è stata finalmente discussa e approvata aula alla Camera, a distanza di circa 9 anni dal suo deposito corredato da oltre 400.000 firme. Peccato che il testo approvato sia radicalmente diverso, nella forma e nei principi, di quello proposto dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua.
PD e la maggioranza hanno stravolto il testo a partire dall’articolo 6 che disciplinava i processi di ri-pubblicizzazione. Oggi è caduta anche l’ultima foglia di fico dietro la quale il PD aveva provato a nascondersi. Infatti, la Commissione Bilancio ha cancellato la via prioritaria assegnata all’affidamento diretto in favore di società interamente pubbliche. Un disconoscimento palese e spudorato che ribaltato il senso di quella legge sottoscritta da 400mila cittadini e aggiornata alla luce dei risultati del referendum popolare del 2011.

Fonte: “Acqua pubblica: Pd e governo affossano i referendum”, di Contropiano.

(3) Con normative che garantiscono (e non solo ai petrolieri) sgravi fiscali, contributi a fondo perduto, ricapitalizzazioni, salvataggi con denaro pubblico.

(4) I referendum su divorzio e aborto furono facilmente vinti sia perché anche gran parte della borghesia - e persino un settore dei cattolici - si pronunciò a favore di quei due “istituti” (segno che la “modernità” borghese aveva conquistato anche la “cattolica” Italia), sia perché la stessa opinione pubblica rifiutava ormai ampiamente il bigottismo clerico-fascista di Fanfani e Almirante, valutando assai più pragmaticamente la convenienza “civica” di poter usufruire dell'acquisizione di simili “diritti”.

Per il nucleare, che mise invece in discussione interessi notevoli, vale per certi versi lo stesso discorso, anche se accostato stavolta a motivazioni economiche: ossia che la paura dell'energia nucleare attraversava e attraversa trasversalmente la società e i due referendum, 1987 e 2011, caddero proprio a ridosso di due grandi catastrofi nucleari, Cernobyl e Fukushina, che oggettivamente diedero una grossa spinta alla bocciatura dell'opzione nucleare. A ciò va aggiunto che allora l'investimento nel nucleare non risultava particolarmente interessante da un punto di vista economico poiché a fronte di investimenti iniziali d'impianto esorbitanti (e a costi di sicurezza e di smaltimento scorie altrettanto impegnativi) la produzione del kW tramite centrali nucleari risultava di redditività (profittabilità) assai bassa e dunque poco competitiva rispetto a quella ottenuta con altre fonti (fossili, idriche, ecc.), rendendo assai più conveniente acquistare energia da nucleare dalla vicina Francia, che allora – vista la sua alta sovrapproduzione – rivendeva a prezzo assai più conveniente le sue enormi eccedenze.

(5) La geologa Maria Teresa Fagioli, Presidente dell’Ordine dei Geologi della Toscana, intervistata dall’Adnkronos, dichiara:

Intanto l’impatto ambientale -- spiega Fagioli -- si crea nel momento in cui si perfora per estrarre petrolio, gas o idrocarburi in genere, non quando si frutta un giacimento. Il pozzo in mare, inoltre, se realizzato con tutte le tecniche del caso, non è inquinante, è il cosiddetto ‘indotto’ che crea alti rischi per l’ambiente, basti pensare alle attività delle navi di carico. [Inoltre... ] in Italia i pozzi che si stanno realizzando sono perforati in verticale, ma tecnicamente ai giacimenti si può accedere anche orizzontalmente, per cui si possono superare le 12 miglia, posizionarsi a 13 miglia e ricongiungersi ai ‘serbatoi’ iniziali. E chiudere un giacimento a metà apre a rischi ambientali gravi. -- E aggiunge: -- Il referendum è quindi riduttivo perché se si chiude un pozzo a metà del suo sfruttamento, il rischio di impatto ambientale diventa molto elevato. [E se si raggiunge il quorum con la vittoria del sì,] cosa faranno le compagnie energetiche? Chiuderanno in tutta fretta i pozzi aperti ma non esauriti, o investiranno nelle tecniche più moderne e costose per chiudere il giacimento non esaurito, con tutte le garanzie per l’ambiente? [...] Il problema ambientale delle trivellazioni esiste, ma quando si interviene sul territorio o in mare non c’è mai l’impatto zero, quindi il problema non è limitabile alle trivelle ma è lo sfruttamento della terra che va visto in maniera globale.

Ovviamente nella “valutazione globale” - sicuramente necessaria – avanzata dalla nostra geologa si esula del tutto dalla necessità improrogabile del superamento del capitalismo che genera quel disastroso impatto ambientale (e non solo), sistema di cui non si analizzano le contraddizioni interne legate proprio alla sua esclusiva finalità (il profitto) e che restano insuperabili se non con il suo totale abbattimento.

(6) Come riportato dall’UNMIG del Ministero dello Sviluppo Economico, sul sito unmig.mise.gov.it : _“le royalties incidono percentualmente sulla produzione” configurandosi dunque come un corrispettivo della concessione del diritto di sfruttamento delle risorse del sottosuolo versato al “proprietario” delle risorse (lo Stato), che in tal modo partecipa alla produzione senza sostenere direttamente i costi di impianto ed estrazione.

In Italia il gettito delle royalties è applicato sulla base dei seguenti criteri:

PRODUZIONE / UBICAZIONE FRANCHIGIA entro le: ALIQUOTA ROYALTY FONDO IDROCARBURI (ART.45 L.99/09) ALIQUOTA AMBIENTE E SICUREZZA (D.L 83/12)
Olio / Terra 20.000 tonnellate 7 % + 3 % -
Olio / Mare 50.000 tonnellate 4 % - + 3%
Gas / Terra 25 milioni di metri cubi 7 % + 3 % -
Gas / Mare 80 milioni di metri cubi 7% - + 3%

(7) Nel dossier ‘Figli di un dio minore’, il Wwf ha confrontato le royalties italiane con quelle previste in Croazia, dove i petrolieri pagano quasi cinque volte di più. In Italia dal 2010 per le estrazioni in terraferma la royalty è del 10% su petrolio e gas, mentre in mare dal 2012 ci sono due diverse aliquote: 10% per il gas e 7% sul petrolio (in Croazia è del 10). Negli altri Paesi? Per l’oro nero si va dal 25% della Guinea alle tassazioni sugli utili dei petrolieri vicine all’80% chieste dalla Norvegia. Ma su alcune di queste percentuali vi sono pareri discordanti.

Un sistema comodo per le società, che possono mantenere in vita impianti da cui producono quantità modeste di petrolio -- spiega Andrea Boraschi, responsabile di Greenpeace -- Smantellare costa di più -- aggiunge -- meglio continuare a produrre anche poco, sotto la soglia della franchigia, senza pagare le royalties.

In Italia, inoltre, sono esentate dal pagamento le produzioni in regime di permesso di ricerca.

Se avessimo portato le royalties al 50%, nel 2014 avremmo avuto un gettito di 1,9 miliardi, invece dei 401,9 milioni.

... ha spiegato Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, commentando un recente studio sugli aiuti ai combustibili fossili. Fonte: Il Fatto Quotidiano.

(8)

… in caso di vittoria del SI non vi sarà lo stop automatico, ma la possibilità di funzionare SOLO in regime di proroga, regime che necessita del parere delle Regioni (ora non necessario). Dato che le Regioni non sono di norma enti a guida “blackblocnotavnotriv” molte proroghe saranno_ comunque _concesse a seconda di quanto i Presidenti giudicheranno conveniente o meno (per i loro calcoli politici) dare l’avvallo, ma in ogni caso facendo pesare il proprio parere ai privati estrattori in termini di “compensazioni” (di vario tipo: dalla realizzazione di lavori pubblici o ambientali a quelle economiche…). Non è quindi un caso che il referendum sia proposto dalle regioni!

da Clash City Workers: “Petrolio, trivelle, politicanti, referendum e noi”

(9) Magari ricavare anche qualche ulteriore, illecito ma utilissimo, introito extra attraverso l’allentamento dei controlli sugli impianti in cambio della consueta compravendita di mazzette, come l’ennesimo, appena scoperchiato scandalo lucano (e non solo) sta dimostrando.

(10) È della sera dello stesso giorno in cui si teneva il referendum, la notizia del disastro avvenuto nella Raffineria Eplom di Borzoli (Genova), peraltro solo l’ultimo di una lunga serie di incidenti, come denunciano gli abitanti. Nel sito petrolifero – ma stavolta “di terra” – la rottura di una tubatura dell’oleodotto ha causato un massiccio sversamento di greggio che, dopo aver invaso e inquinato prima il rio Fegino poi il torrente Polcevera (con rischio per le falde acquifere), si è riversato in mare in prossimità delle coste e lungo circa 28 km. Qui la notizia: ilfattoquotidiano.it

(11) Rinviamo anche a: leftcom.org

(12) La nostra organizzazione non ha mai fatto dell'astensionismo per principio la propria bandiera, valutando sempre il possibile utilizzo tattico (politico-propagandistico) del momento elettorale in relazione alle circostanze storico-politiche e sempre inquadrando il problema tattico nel più ampio quadro strategico (rapporto strumento-finalità). Mai rifiutandosi – per una sorta di disgusto dai connotati più anarcoidi che comunisti – di partecipare e alzare la propria voce nei dibattiti pre-elettorali e sempre invitando i proletari a NON votare, a non cadere nella trappola dell'inganno democratico borghese. Per approfondimenti rinviamo a due interessanti scritti presenti sul nostro sito: “Sulle cinque tesi di Pannekoek” (da Prometeo n. 10, serie I, giugno-luglio 1948) e “Proletari non votate, per nessun partito, per nessun fronte...” (Documento del CE del Partito Comunista Internazionalista, diffuso in occasione delle elezioni politiche del 1948).

Sabato, April 30, 2016