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Home ›Il “condono” del debito cubano: contesti e retroscena
Della serie: la magnanimità “pelosa” dei colossi imperialistici
Indice:
- L’accordo russo cubano sul “condono” del debito
- Cuba e la geopolitica del petrolio
- Le ragioni del cinquantennale embargo unilaterale USA…
- … e le prime timide “aperture” da parte di importanti fazioni borghesi USA verso Cuba e persistenza del predominio della potente lobby anticastrista di Miami (FNCA)
- Aperture internazionali contro l’embargo a Cuba anche tra i Paesi dell’U.E.
- Un po' di storia del debito cubano e del presunto "socialismo cubano"
- Il doppio regime monetario e la profonda spaccatura sociale
- Fine della doppia moneta circolante
- Il "nuovo corso" di Raoul Castro
- a) Il contesto delle alleanze "locali"
Il dinamismo politico-diplomatico e commerciale dei governi castristi nello scenario generale degli appetiti imperialistici
- Le relazioni tra Cuba e Venezuela
- Le relazioni tra Cuba e Brasile
- b) Il contesto inter-imperialistico mondiale e i suoi “appetiti”
- Gli appetiti cinesi nell'area centro-sudamericana
- Gli accordi Pechino-Caracas
- Gli accordi Pechino-Buenos Aires
- Gli accordi Pechino-L’Avana
- Gli "appetiti" strategici e geopolitici russi nell'intera area
- L'asse Mosca-Brasilia
- La crisi ucraina e il recente accordo russo-cinese sul gas fanno da sfondo al dinamismo diplomatico e commerciale putiniano
- Tra Russia e Cina si “annuncia” una cooperazione globale
- Il dinamismo imperialistico russo e cinese a confronto
- L'America Latina detiene un quinto del petrolio mondiale
- Cuba, un mare di oro nero - Il “sogno cubano”: prospettive di indipendenza energetica per Cuba e di succulenti tintinnanti affari per Putin e "concorrenti" vari
- Conclusioni: considerazioni generali e valutazioni politiche
Appendice 1:
ALBA (Alleanza Bolivariana para America Latina)
Appendice 2:
Dal Bancosur alla “Nuova Banca dei BRICS”
L’accordo russo-cubano sul “condono” del debito
Il 4 luglio 2014 l'Agenzia ANSA di Mosca - tra il tripudio di gioia ed esultanza dei sinistrorsi dell’intero pianeta sostenitori del “socialismo cubano” - batte la notizia:
«La Duma, il ramo basso del Parlamento russo, ha ratificato un accordo tra Russia e Cuba per l’annullamento del 90% del debito dell’Avana verso l’Urss, pari a 35,2 miliardi di dollari. Saranno rimborsati solo 3,5 miliardi di dollari circa, che però Mosca reinvestirà nell'economia cubana. L'intesa era stata siglata lo scorso ottobre dal premier russo Dmitri Medvedev durante una visita a Cuba. In questo modo la Russia rinsalda i legami con il suo vecchio alleato storico durante la guerra fredda» (1)
Secondo l’Agenzia Reuters, l’accordo finale – dopo un’intesa preliminare già firmata in occasione della visita del premier russo Medvedev a L’Avana nel febbraio 2013 - è stato siglato a Mosca, a ottobre 2013, nel corso di un incontro tra il primo ministro russo Medvedev e il leader cubano Raoul Castro: incontro nel quale si sono discussi i rapporti economici tra i due Paesi nell'ottica di aumentare le loro già consistenti relazioni commerciali, il cui attuale interscambio si aggira sulla considerevole cifra di 200 milioni di dollari, tutti a favore delle esportazioni russe. Nel corso dell’incontro precedente, svoltosi a Cuba, era anche stato peraltro concordato l'affitto a L’Avana di 8 aviogetti (del valore di 650 mln di dollari), 3 Iljushin II-96-400 a lungo raggio, 3 An-158 regionali e 2 Tu-204Sm a medio raggio.
Secondo l’Agenzia Reuters - che cita «diplomatici russi ed europei» – lo “storico” accordo mette fine ad una controversia ventennale e apre la strada a nuovi investimenti e rapporti commerciali tra i due Paesi. Le banche russe che finanzieranno l'accordo riceveranno garanzie sovrane dal governo.
Reuters rivela anche più nei dettagli la notizia secondo cui la decisione appena “ratificata” di cancellare unilateralmente il 90% dello storico colossale debito contratto da Cuba nei confronti della Russia (e in scadenza a fine 2013 e francamente considerabile ormai poco o difficilmente esigibile per intero), comporta per la Russia la rinuncia a qualcosa come oltre 35 miliardi di dollari; il restante 10% (circa 3,5 miliardi di dollari circa) dovrà invece essere rimborsato in 10 anni, per un ammontare annuo di circa 320 milioni (già un enorme sforzo per l'economia dell'isola), che - pare - Mosca intenda reinvestire nella stessa economia cubana (2).
L'ingente debito cubano – risalente ai tempi dell’Unione Sovietica, quando il regime di Fidel, per evitare la bancarotta, prese a prestito un’enorme quantità di denaro dal governo russo di allora – è tra i più alti tra quelli contratti dagli ex alleati di Mosca (3) ed è stato per anni al centro di una annosa e controversa questione: Mosca sosteneva che il denaro era “dovuto” dai tempi dell'Unione Sovietica, Cuba sosteneva che Mosca avrebbe dovuto compensare Cuba per aver rotto le relazioni economiche bilaterali nel 1990 (con relativa fine dei consistenti afflussi di denaro dal Cremlino) in seguito alla disastrosa crisi economica che, investito il colosso russo e svuotate le casse statali di quella liquidità concessa per anni ai partners a tassi d'interesse generosissimi, condusse poi al crollo e disgregamento del blocco sovietico e alla cosiddetta “fine della guerra fredda” e del “bipolarismo”.
L'accordo siglato è di certo una salutare boccata d'ossigeno per l'economia dell'isola, fortemente influenzata da un alto debito pubblico e da un altrettanto alta esposizione debitoria verso altri Stati.
Ma è francamente molto difficile, se non impossibile oltre che ingenuo, avanzare anche solo l'ipotesi che il generoso gesto di Putin sia frutto di una magnanimità che non chieda e non ottenga qualcosa in cambio; e tantomeno pare plausibile quella di un rinnovato sostegno politico alla "rivoluzione socialista cubana", come si sono affrettati a commentare entusiasticamente i fans del presunto quanto falso “socialismo castrista”.
La realtà, infatti, come sempre, supera ogni “ideologica” immaginazione, e un sano realismo conduce alla necessità di indagare assai più a fondo sulle reali motivazioni di tale generoso e amichevole gesto.
Se fosse vero (4), infatti, che nei profondi mari caraibici vi sarebbero ingentissimi giacimenti offshore di petrolio e gas, è certo che al loro sfruttamento le compagnie petrolifere russe (dalla Zarubezhneft alla più celebre Gazprom) non intendono per nulla rinunciare.
La rivelazione parrebbe attendibile per una serie di fattori: 1) la spietata corsa all'accaparramento delle licenze (peraltro costosissime) per la ricerca e la perforazione da parte delle principali compagnie petrolifere canadesi, occidentali e cinesi (e i relativi accordi già conclusi per l'esplorazione) (5); 2) quanto dichiarato da uno studio del Servizio Geologico degli Stati Uniti (Usgs) già nel 2004 (6); 3) infine le "accalorate" reazioni ed iniziative legislative promosse da alcuni congressisti americani (7) per tentare il discredito e il boicottaggio o, dal lato opposto, per consentire alle imprese petrolifere statunitensi di entrare nella corsa in gioco e poter così usufruire di altrettante golose opportunità.
Un altro dato significativo è stato l'arrivo, nel gennaio 2012, della piattaforma petrolifera d’avanguardia Scarabeo 9 nei mari di Cuba (zona ZEE) - costruita in Cina dall'italiana Saipem (società di Eni costruttrice di infrastrutture per il settore petrolifero) - capace di perforare fino a 3.600 mt di profondità e di ospitare 200 addetti ai lavori tra cui tecnici altamente specializzati di diversi Paesi. Posizionata nelle acque antistanti la capitale cubana, essa ha subito iniziato le perforazioni a 1700 mt di profondità, nel "blocco cubano" denominato Jaguey, a circa 22 miglia dalla costa cubana.
La compagnia petrolifera spagnola Repsol - che gia' nel 2004-2005 aveva effettuato perlustrazioni e individuato la presenza di un blocco petrolifero definito «con alte aspettative» - se ne era subito aggiudicata l'affitto al salatissimo costo di 15 mln di dollari al mese (oltre 500,000 al giorno). Altre imprese avevano poi contestualmente ottenuto contratti d’affitto per altri blocchi (8).
È più che noto che Cuba è un grosso importatore di energia, e che la sua eccessiva dipendenza dalle importazioni di materie energetiche è oggi principalmente rispetto al vicino Venezuela. Attualmente Cuba consuma 140.000 barili al giorno di petrolio, 92.000 provenienti dal Venezuela e acquistati a un prezzo «politico» (nel 2008, pare, al di sotto dei 30 dollari al barile).
Ciò - ci pare - spiega molto bene come il governo cubano abbia colto al balzo la palla dell’oneroso debito per proporre a Mosca un "ottimo affare". Il tutto, peraltro, continuando a muoversi molto abilmente anche sul piano delle relazioni e degli accordi con altri partners internazionali, nell’intento di diversificare le necessarie partnership commerciali e poter così condurre a termine la sua massima ambizione: rendersi del tutto autonoma dal punto di vista energetico.
Persino numerosi e quotati analisti borghesi sostengono che la decisione "potrebbe" essere collegata soprattutto alla possibilità per la Russia di mettere le mani sugli ingenti giacimenti petroliferi e di gas al largo delle coste cubane e in tutto il bacino caraibico (già esplorate da Zarubezheft), con colossali ritorni in termini di giri d’affari miliardari sulle quote solitamente spettanti alle compagnie petrolifere incaricate delle perforazioni ed estrazioni.
Noi, armati di sano realismo, non solo non abbocchiamo all'amo della magnanimità gratuita (specie per simili entità debitorie e certi del fatto che nel mondo degli affari capitalistico niente si fa mai per niente) bensì, come sempre, non ci limitiamo semplicisticamente a constatare notizie, ma vediamo di andare oltre ogni supposizione o ipotesi campata per aria per proporre un'analisi più accurata del contesto più generale (geopolitico, strategico, economico e storico) – oltre che di quello più ravvicinato e diretto tra i due Paesi - entro i quali la “storica” e oggi rianimata amicizia Cuba-Urss va senz’altro collocata.
Il tutto per dimostrare e sottolineare in primo luogo il forte dinamismo politico, diplomatico e commerciale (analizzandone origini, modalità e finalità) che, lungi dal coinvolgere soltanto il colosso russo e quello cinese nell'area centro-sudamericana, caratterizza e si esprime già da qualche decennio nella stessa politica castrista (sul piano interno come internazionale), in particolare dalla chiusura dei rubinetti russi del credito facile e a bassissimo costo che consentiva a Cuba di ricevere ingentissimi flussi di denaro dallo storico amico, storicamente molto interessato alla “presenza strategica” di un fedele alleato nel famigerato cortile di casa statunitense.
Cuba e la geopolitica del petrolio
Come dicevamo, Cuba è da sempre un grosso consumatore e importatore di energia. La sua enorme dipendenza dalle importazioni di materie energetiche l’ha sempre resa, specie negli ultimi decenni, parecchio dinamica sul piano delle relazioni, alleanze o partnership commerciali, nell'intento di poter ridurre i costi notevoli sopportati tenendo così sotto controllo la sua bilancia commerciale. Chiaro che per far questo, i suoi governi hanno dovuto sviluppare e affinare le abilità nel contrattare reciproci favori e vantaggi. Ma è soprattutto dalla chiusura dei rubinetti del credito russo, che tale dinamismo si è dovuto orientare necessariamente verso una diversificazione delle partnership commerciali, che in certo qual modo hanno allentato quel carattere privilegiato del precedente rapporto con una "mamma Russia" divenuta peraltro, e per lungo tempo, molto meno generosa rispetto a qualche decennio prima della sua disastrosa crisi economica.
Nel 1958 (prima della cd. "rivoluzione castrista") gli USA erano anche il primo partner commerciale cubano, acquistando il 74% delle esportazioni dell'isola e fornendo il 65% delle sue importazioni. Con l’attuazione dell’embargo la situazione si capovolse di 180 gradi.
Castro, appena preso il potere, si era subito trovato obbligato, dunque, a cercare dei nuovi fornitori “energetici”, anche in considerazione dell'isolamento internazionale promosso dagli USA (9). Per questo, sin dal 1959 ha cercato di controllare il Venezuela, principale produttore sudamericano di petrolio, e di cercare un'altra sponda in Africa, dove intervenne militarmente in Angola (10) (altro grande produttore di petrolio) per difenderlo dall'aggressione del Sudafrica.
Dal 1960 alla fine degli anni ‘80 l'Unione sovietica fu il principale fornitore di greggio di Cuba: sfruttando l'isolamento de l'Avana promosso da USA e nazioni del blocco "occidentale", essa iniziò a fornire petrolio ai cubani a prezzi irrisori, guadagnandone l'allineamento sulle posizioni internazionali di Mosca.
Con la implosione dell'impero sovietico (siglata dalla caduta del celebre muro...), la nuova Russia si trovò a dover affrontare condizioni economiche critiche che non le permisero più la precedente generosa politica verso gli alleati del cosiddetto Terzo Mondo. Il gigante dai piedi d'argilla necessitava di divise fresche (afflussi di capitale estero per investimenti e a sostegno del suo export) per sopravvivere e rilanciare la propria agonizzante economia in crisi e non poteva più permettersi di scambiare barili di greggio in cambio di canna da zucchero, come fatto sino ad allora.
Fine dei sussidi russi, embargo e dipendenza energetica pressoché totale dall'estero fu un terrificante mix di fattori che costrinse, gradualmente ma in fretta, i governi cubani a nuove alleanze strategiche: con l'Iran prima, col vicino Venezuela poi e, dalla fine degli anni ‘90 con imprese petrolifere occidentali cui affidare l'esplorazione petrolifera al largo delle sue coste.
Pur finita l'era della guerra fredda, Cuba rimaneva e rimane comunque una preziosa pedina geopolitica strategica fondamentale per i russi (ma non solo) nel "cortile di casa USA". L'isola metteva (e mette anche oggi) soprattutto a disposizione dei vicini di casa i suoi “saperi” e le sue tecnologie casa - usandoli come merce di scambio - per ricevere in cambio petrolio, avviando contemporaneamente una strategia di più lungo respiro e largo raggio al fine di creare un nuovo asse "antimperialista" (prevalentemente anti USA) con la creazione di un'area di mercato unico centro-sudamericano di libero scambio (il progetto ALBA è solo il più recente), capace di rendere l’area più autonoma e non egemonizzata rispetto alle ingerenze USA, e che possa fare da contraltare alle analoghe ambizioni USA di creare un mercato unico dall’Alaska all’Argentina sotto il suo diretto controllo egemonico (il progetto “alternativo” ALCA). È per questo che Cuba, d'intesa col Venezuela di Chavez, promuove nel 2001 il progetto ALBA nell'intento di dar vita ad un nuovo polo regionale, operante nell’area centro-sudamericana tramite l'integrazione delle politiche economiche, sociali e di difesa dei Paesi dell'area.
Tale ambizioso e complessivo progetto si è, nel tempo, tradotto in diverse iniziative e progetti di integrazione politico-economica, tutte osteggiate e boicottate dagli USA (si ricordi il fallimento del Mercosur), fino a concretizzarsi nella creazione di Alba (nel 2001) e nella più recente nascita della “Nuova Banca dei BRICS”, così è stata definita la Nuova Banca per lo Sviluppo (NdB, New Development Bank) costituita nel luglio di quest'anno al VI Vertice BRICS tenutosi a Fortaleza (11), facendo seguito alla già precedente costituzione del Bancosur nel 2009 ma amplificandone alquanto le funzioni: dal solo finanziamento di opere infrastrutturali congiunte fra i vari Paesi (con un fondo iniziale di 100 mld di dollari) alla concessione di prestiti tramite un fondo di riserva d'emergenza (il Cra, Contingent Reserve Arrangement), anch'esso di 100 mld di dollari, destinato sia a prevenire gli effetti di temute fughe di investimenti stranieri, sia soprattutto a tamponare o compensare eventuali scompensi derivanti da crisi finanziare o valutarie (si pensi al recente caso argentino). Sembra che la Banca sarà operativa e concederà il suo primo “prestito” nel 2016. In occasione del Vertice si è svolto a Brasilia un Forum nel quale si sono discussi affari tra 700 imprenditori provenienti dai paesi dei Brics, con la partecipazione di altri Stati sudamericani che fanno parte di Unasur e della Celac, l'organismo che riunisce la Comunità degli stati latinoamericani e dei Caraibi (tra cui Ecuador e Bolivia)che hanno già da tempo solide relazioni con i BRICS (12).
Con l'Iran Cuba ha scambiato per anni informazioni di intelligence (tramite la base di Lourdes) in cambio di petrolio, oltre a curare la costruzione (in Iran) del più grande centro di ingegneria genetica e biotecnologia della intera regione.
Contemporaneamente Cuba stringe proficui legami col vicino Venezuela, in cambio di forniture di greggio e di prestiti a tassi d'interesse bassissimi e a lungo termine, mettendo a disposizione di Caracas i suoi impianti di raffinazione. Cuba possiede infatti 4 raffinerie di petrolio (la cui capacità complessiva di raffinazione è di 7 milioni di tonnellate l'anno), ma soprattutto un'esperienza più che trentennale (risalente all'epoca sovietica) nella raffinazione per la produzione di combustibili. Ciò fa di Cuba un alleato strategico fondamentale per Chavez e la sua analoga ambizione di creare un nuovo polo di potere in America Latina capace di contrastare la storica ingerenza a stelle e strisce.
I contratti stipulati da Cuba con imprese petrolifere straniere occidentali per l'esplorazione petrolifera offshore hanno come ritorno lo sfruttamento a proprio vantaggio delle capacità tecnologiche europee. Un do ut des formidabile.
Esempio emblematico di traduzione di questa strategia è l'impresa cubano-canadese Energas (che lavora e sfrutta il gas il 95% del gas che fuoriesce dall'estrazione del petrolio) con investimenti per un giro d'affari di 1.250 mln di dollari.
Nelle seguenti dichiarazioni di Raoul Castro tutto il significato della copertura ideologica, in maleodorante "salsa socialisteggiante e antimperialista" (ma a rigoroso “senso unico”…) data all'intera strategia secondo cui: gli investimenti stranieri nel campo petrolifero si manterranno e potranno anche crescere in futuro, «sempre che apportino capitali, tecnologie o mercato che siano utili per lo sviluppo del Paese», e che «si lavorerà con imprenditori seri e su basi giuridiche che preservino il ruolo dello Stato nelle scelte strategiche e il predominio della proprietà socialista».
Non ci è dato comprendere cosa ci sia di “socialista” nell’auspicare “apporto di capitali” e nell’affermare “predomini di proprietà” (seppur "socialista"): investimenti - diciamo noi - comportano impiego di capitali, derivati da estrazione di plusvalore da lavoro salariato e dunque profitti realizzati. Trattasi, forse, di profitti "socialisti"?! - ci chiediamo sarcastici. Di certo sappiamo, per essere marxiani, che tale categoria non e' contemplata in alcun modo da Marx nell'ambito di un'economia socialista, checche' ne dica ... Baffone!
Ed ecco che, spingendosi persino oltre i toni della ben nota retorica contro l’imperialismo americano, Raoul si premura a dichiarare «benvenute» le imprese statunitensi nelle attività di esplorazione petrolifera nelle sue acque, ben consapevole del vantaggio che ne otterrebbe nello sfruttare le elevatissime capacità tecnologiche USA. Coinvolgimento attualmente impossibile, dato l'embargo USA ancora vigente.
Le ragioni del cinquantennale embargo unilaterale USA…
Prima del 1959 gli USA controllavano petrolio, miniere, centrali elettriche, telefonia e 1/3 della produzione di zucchero di Cuba.
Preso il potere, Castro procedette alla nazionalizzazione ai danni delle multinazionali statunitensi, rifiutandosi peraltro di elargire loro un indennizzo immediato. È così che gli USA, nel 1962, pongono su Cuba un duro embargo commerciale che dura tuttora, costringendola così a rifugiarsi sotto la “generosa” gonna di Mosca ed ad entrare a pieno titolo nella zona di influenza geopolitica russa.
… le prime timide “aperture” da parte di importanti fazioni borghesi USA verso Cuba e persistenza del predominio della potente lobby anticastrista di Miami (FNCA)
Soprattutto nell’attuale quadro di relazioni internazionali, seguito alla fine della guerra fredda, è d’obbligo fare qualche interessante valutazione in merito al persistere dell’embargo ai danni di Cuba.
Iniziato in piena guerra fredda, il perdurare di quell'embargo appare oggi non solo del tutto fuori luogo, ma addirittura dannoso per gli stessi interessi strategici ed economici USA in quell'area, soprattutto da quando in essa hanno preso piede galoppanti nuove economie, prevalentemente basate sulla rendita derivante dall'esportazione (rigorosamente in preziosa valuta dollaro USA) di materie prime energetiche, abbondantissime prima sul suolo oggi – pare - nelle profondità marine circostanti.
Certo è che il mantenimento dell'embargo, a crollo dell'Urss avvenuto, si giustificava col tentativo di mettere definitivamente in ginocchio l'economia cubana, convinti che Castro non potesse reggere a lungo il colpo subito per l’interruzione dei generosi sussidi di Mosca.
Nella realtà il dinamismo geopolitico dimostrato da Cuba in reazione alla strategia USA si è abilissimamente concretizzato non solo in un sostanziale rafforzamento di alleanze sia nell'area (asse con Venezuela e Brasile in particolare) che altrove (Iran), ma ha aperto le porte all'ingresso di altri ambiziosi quanto affamati concorrenti imperialistici degli USA nell'area (Cina e Russia, ma anche Unione Europea).
Realisticamente, la prosecuzione dell'embargo USA si lega senz’altro anche all'azione di potenti lobbies americane, gruppi di interesse che direttamente finanziano i governi USA e le loro politiche estere. In particolare la potente lobby cubana anticastrista di Miami (FNCA) è infatti il secondo gruppo che più finanzia i candidati al Congresso e alla Presidenza USA, svolgendo così un ruolo determinante nella politica estera nei confronti di Cuba.
Se in maggioranza i cubani esuli a Miami sono ferventi "repubblicani", nella realtà, curando i propri interessi (alla difesa e rafforzamento delle sanzioni contro Castro), essi non disdegnano sostegni bypartisan anche a candidati "democratici" consenzienti. Gli anni che più contribuirono coi loro finanziamenti furono il 1995-96, nei quali furono guarda caso inasprite le sanzioni contro Cuba (legge Helms-Burton): io ti aumento i finanziamenti elettorali (in quel caso indirizzati ai candidati democratici), tu mi approvi la legge (ancora una volta do ut des). Spingendosi addirittura, nel 1992, ad esercitare pressioni su Clinton per impedire la nomina di Baeza, importante avvocato cubano-americano, a Segretario di Stato per gli Affari Interamericani per essersi dichiarato contro l'utilità dell'embargo contro Cuba.
Bush padre e figlio sono i due presidenti americani che hanno ricevuto i maggiori finanziamenti da parte della FNCA, e non è certo un caso (13).
Il nuovo presidente Obama sembra iniziare a mostrare almeno la volontà di alleggerire il peso dell'embargo, come quando nell'aprile 2009 ha revocato le restrizioni ai viaggi (meno intransigenza nella concessione dei "visti", prima molto rigidi, e dunque concessione di maggiore libertà di viaggio dei cubani verso gli States) e alle rimesse per i cubano-americani con parenti nell'isola, allargando la gamma di oggetti spedibili a Cuba (14).
In realtà è in corso un vero e proprio scontro tra gli oppositori dell’embargo (che, sotto la pressione delle maggiori compagnie petrolifere, vorrebbero ammorbidire l’embargo e appoggiano un legislazione che permetta alle imprese USA di partecipare allo sfruttamento del petrolio offshore di Cuba) e i fautori dell’embargo che vorrebbero invece introdurre leggi che impongano sanzioni e ulteriori restrizioni anche alle compagnie petrolifere straniere già operanti. (15)
Aperture internazionali contro l’embargo a Cuba anche tra i Paesi dell’U.E.
Nel frattempo - anche a seguito e nel contesto delle riforme liberalizzatrici avviate da Raoul Castro, e che tanto entusiasmano i partners occidentali - l'embargo è stato progressivamente condannato da tutta la comunità internazionale, che è giunta nell'ottobre 2009 alla votazione a maggioranza, in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite (ONU), di una mozione che ne richiedeva addirittura la cessazione (dopo le precedenti svariate volte: 1992, 2004, 2005, 2007 e 2008).
A fronte del dinamismo mostrato dal governo cubano, gli USA sembrano dunque, come dire, essere rimasti indietro, da un lato rinunciando nei fatti allo sfruttamento di importanti risorse energetiche presenti nel loro "cortile di casa" (e lasciando enormi spazi liberi di intromissione ai suoi concorrenti), dall'altro favorendo il rafforzamento, a partire dall'asse l’Avana-Caracas per finire all'asse Cuba-Cina-Russia, delle ambizioni di autonomia dall'egemonia Usa in quell'area.
L'unica attuale contromossa americana nell'area, al momento, sembra essere lo spostamento di grandi risorse militari in America Latina (sette basi militari in Colombia!) con i conseguenti enormi sforzi economici per il loro mantenimento.
In ogni caso, una parte della leadership cubana ritiene (e spera) che le recenti aperture liberali del "nuovo corso" di Raoul (di cui parleremo più avanti) possano essere il punto di partenza per migliorare le relazioni non solo con gli USA ma anche con i Paesi della Unione Europea che - come abbiamo visto - già hanno mostrato di “ricambiare” favorevolmente sul piano diplomatico internazionale (in sede ONU) facendo pressioni sugli USA per il ritiro definitivo dell’embargo.
Un po' di storia del debito cubano e qualche considerazione sul presunto "socialismo cubano"
A partire dai primissimi anni ‘90 l'economia cubana era stata ridotta al collasso dal crollo politico ma soprattutto economico dell'ex Urss, che aveva comportato la fine dei generosissimi sussidi di Mosca. Fidel Castro aveva allora deciso di puntare sul turismo estero, in particolare per aumentare l'afflusso di ricchezza in entrata. Legalizzata la circolazione del dollaro, il governo adottò un sistema di doppia moneta: il cuc (nuova moneta coniata nel 1994), come moneta convertibile in dollari (con valore paritario fissato a 1 dollaro) e il cup (peso cubano, del valore di 1/25 del cuc) non convertibile, stampato dalla Banca Centrale Cubana per pagare i salari dei dipendenti delle aziende statali e le pensioni.
Il doppio regime monetario all'origine di una profonda spaccatura sociale
In vigore dal 1994, la moneta convertibile (cuc) entrava e circolava nel paese grazie alle transazioni dei turisti e agli scambi con l'estero, e veniva usata (ovviamente dai soli possessori di cuc) per l'acquisto di beni importati (petrolio incluso) e dunque per le transazioni internazionali, oltre che per le rimesse dei cubani dall'estero e in generale nell'economia turistica; mentre il cup, utilizzato per il pagamento dei dipendenti statali e delle pensioni, non essendo convertibile (ossia scambiabile con nessun altra moneta), aveva valore circolante solo all'interno del circuito nazionale.
Il cuc, come moneta forte convertibile a tasso di cambio di parità col dollaro, ha dato in due decenni linfa vitale all'economia di Cuba, ma ha anche creato una spaccatura nella popolazione tra chi, lavorando con turisti o nel commercio, aveva accesso privilegiato al cuc (necessario per acquistare prodotti importati dall'estero) e chi invece (la maggioranza) no, potendo quest'ultima disporre solo di un reddito in moneta più debole quanto a potere d'acquisto.
Una insanabile spaccatura sociale, dunque - secondo la quantomeno bizzarra concezione del principio di eguaglianza sociale messo a punto nello "splendido modello di socialismo cubano" - tra chi aveva accesso al dollaro e chi no.
Nel 1994, dopo che il crollo dell'ex Urss aveva danneggiato l'economia di esportazione cubana (verso i paesi del blocco russo) ed eliminato i sussidi alla produzione, Castro aveva adottato il duplice sistema monetario anche per evitare la propagazione di un mercato nero parallelo basato sul dollaro, che avrebbe comportato un aumento dell'inflazione e una notevole svalutazione del peso sui mercati esteri.
Grazie al suo rapporto paritario col dollaro USA, il cuc diventò la 13a moneta più forte del mondo, non risentendo pesantemente nei mercati esteri dell'implosione sovietica, e poté godere - in termini di spesa, cioè di consumo interno (anche se solo per chi disponeva di dollari) - della circolazione e accumulazione di moneta forte per eccellenza sul mercato internazionale. Venuto meno il sostegno economico e finanziario russo, tale regime monetario consentì a Cuba di resistere, tamponando i contraccolpi della crisi russa sulla propria economia, e mantenersi politicamente più indipendente dalle pressioni di Washington.
Fine della doppia moneta circolante
È di fine ottobre 2013 la notizia della decisione del governo cubano (16) - euforicamente annunciata dallo stesso Raoul Castro - di porre fine al doppio regime monetario, durato venti anni, e di procedere in tempi relativamente rapidi (secondo Reuters entro 18 mesi) alla riunificazione monetaria e cambiaria, rivalutando parzialmente il peso cubano (cup) e svalutando il cuc.
Il ritorno ad un'unica moneta circolante (il peso cubano) - una volta eliminato gradualmente il convertibile cuc - non sarà certo un passaggio indolore: la nuova sovranità monetaria costringerà la Banca di Cuba a ricollocarsi all'interno del sistema monetario internazionale e a riformulare tassi di cambio plausibili, e cioè accettabili all'estero: insomma, andrà definito il valore della moneta cubana rispetto alle altre monete internazionali e ciò influirà di certo sulla bilancia commerciale del paese nonché sui tassi di interesse sui debiti contratti con l'estero. Su chi, ancora una volta, peserà il costo di questa manovra è inutile dirlo.
«La convertibilità del cuc non è più sostenibile» - secondo il governo cubano - perché minaccia seriamente l'equilibrio sociale: infatti, se già negli anni '90 il doppio sistema valutario aveva creato forti sperequazioni nel potere d'acquisto fra chi possedeva cup e chi cuc, le nuove riforme economiche in senso liberista (che prevedono anche la privatizzazione di alcuni servizi attualmente pubblici) acuirebbero le già evidenti differenze di reddito (17). Due monete equivalgono di fatto a due stratificazioni sociali: chi opera in ambiti legati al turismo accede alla moneta "buona", quella di valore, con cui può acquistare beni e servizi di qualità più alta; tutti gli altri (la maggioranza!) sono relegati nella sfera della sussistenza: vivono della "libreta", la tessera annonaria con cui si ottiene cibo dallo Stato con razioni che garantiscono la sussistenza o sopravvivenza fisica e nulla di più. Alla faccia del "socialismo cubano"!!! La più evidente delle contraddizioni prodotte è osservabile nelle disparità di trattamento economico tra un chirurgo, che guadagna 20 dollari al mese, e un addetto alle pulizie di un albergo internazionale che in mance può incassarne anche 400-500.
Il "nuovo corso" economico di Raoul Castro
La recente decisione non è affatto casuale – come dicevamo - ma va inquadrata meglio nel contesto delle riforme e politiche di liberalizzazione “graduale” da qualche tempo avviate da Castro e attuate in campo economico - il cosiddetto "nuovo corso" - in particolare con la legge n. 118, che disciplina gli investimenti stranieri sul territorio cubano, con l'obiettivo di agevolare l'ingresso di capitali e investimenti esteri nel paese attraverso tutta una serie di incentivi, agevolazioni, detassazioni, sgravi fiscali, ecc. Come ben si vede, nulla che abbia lontanamente a che fare con un’economia… “socialista”.
Il percorso o “nuovo corso” era già iniziato nel 2011 con la elaborazione e definizione delle "Linee guida della politica sociale ed economica", un documento strategico che prevede riforme graduali da portare a compimento entro il 2015 e che abroga la precedente Legge 77 del 1995 che precedentemente disciplinava la materia.
L'obiettivo dichiarato è trasformare l'economia cubana aprendo alla piccola libera iniziativa privata interna in campo commerciale, dei servizi e agricolo, nonché – anzi: soprattutto – ad agevolare l'ingresso di grandi imprese straniere rendendo appetibili i loro investimenti sull'isola.
La legge 118 autorizza infatti per la prima volta l'esistenza di progetti imprenditoriali interamente finanziati da capitali stranieri e prevede l'esistenza di imprese controllate da capitali completamente esteri (18) mentre la precedente normativa prevedeva solo partecipazioni straniere all'interno delle imprese statizzate e per ciò stesso spacciate per "imprese socialiste".
Un sistema, quello precedente “delle partecipazioni”, che peraltro si era rivelato fallimentare non solo nel promuovere quel consistente afflusso di investimenti e di capitali che la leadership cubana si attendeva per rimpinguare le casse statali, ma anche nel garantire il raggiungimento di quell'obiettivo minimo programmato da Castro di una crescita annua del 5% (in realtà, infatti, e' stata registrata una misera crescita del PIL del 2.7% nel 2013, peraltro riconfermato dalle stime ONU identico anche per il 2014).
La finalità di queste aperture liberalizzatrici e delle relative normative è dunque duplice: 1) da un lato diversificare le relazioni economiche internazionali del Paese e ampliare il mercato delle sue esportazioni riducendo nel contempo le importazioni soprattutto nel settore alimentare; 2) dall'altro ottenere la fiducia degli investitori esteri e dunque attrarre nel Paese freschi capitali esteri d’investimento (attraverso trasparenza, regole chiare e semplificate, ma soprattutto... enormi incentivi!) allo scopo di aumentare un PIL pressoché stagnante (se non in decrescita) dopo e malgrado le “euforiche” previsioni castriste.
Ed ecco cosa prevede la nuova normativa in materia del governo considerato "socialista" (19): vantaggi fiscali per gli investitori nell'isola, esenzioni dal pagamento delle tasse per i primi 8 anni di attività e dei dazi doganali nella fase d'investimento, taglio della tassazione sui profitti delle società straniere (dal 50% al 15%, escluse solo le imprese che sfruttano risorse naturali del paese, come nichel e carburanti fossili, che resteranno tassate al 50%).
E ancora: semplificazione delle procedure per aprire un'attività privata e per accedere al credito d’impresa, sia nel terziario che nel settore agricolo (con conseguente nascita e sviluppo di una nuova classe media piccolo borghese, una nuova piccola classe imprenditoriale interna con lo sguardo aperto rivolto a partnership con privati esteri); maggiore autonomia nella gestione delle aziende pubbliche e nella costituzione di cooperative, maggiore decentralizzazione delle decisioni relative ad investimenti e produzione (ossia allentamento di quel precedente rigido dirigismo statale), impegno del governo a non compiere espropriazioni (se non per pubblica utilità e interesse sociale) e garanzia, in tal caso, di un adeguato indennizzo; autorizzazione all'esportazione e importazione di prodotti finiti così come di quelli necessari per la produzione; snellimento delle procedure di valutazione e approvazione dei progetti esteri d'investimento; reclutamento e utilizzo della forza lavoro attraverso enti speciali (sotto controllo statale).
Un bel … “socialismo”, non c’è che dire!
a) Il contesto delle alleanze "locali"
Il dinamismo politico-diplomatico dei governi castristi nello scenario generale degli appetiti imperialistici
Cuba si mostra da tempo come una delle realtà più dinamiche dell'America latina, assieme al Venezuela.
Le testimonianze di questo crescente dinamismo diplomatico e commerciale, sul piano delle relazioni internazionali, sono innumerevoli, specie in quest'ultimo ventennio. Abbandonata per vent'anni da "mamma Russia", Cuba inizia ad intrattenere prima, a stringere poi preziosissime partnership commerciali con il vicino Venezuela di Chavez, ma anche col Brasile e col dinamico colosso cinese. Ed è proprio in questo scenario che la Russia di Putin torna all’arrembaggio.
Molto più di ampio respiro è poi, come abbiamo detto, il suo operare sul piano delle intese commerciali all’interno dell'area caraibica e sudamericana (vedi Appendici 1 e 2 a questo articolo sul progetto di integrazione ALBA e la nuova Banca dei BRICS).
In questo ampio e variegato contesto di “appetiti” strategici ed economici (geopolitici) da parte dei principali concorrenti competitors imperialistici mondiali, il dinamismo geopolitico internazionale (20) castrista - mirante alla costante indipendenza internazionale dell'isola nonché, d’intesa col Venezuela, dell’intera area centro-sudamericana - si è espresso e orientato, nel corso dell'ultimo decennio, prevalentemente nella direzione di diversificare e allargare le alleanze internazionali consentendo al Paese di rimanere lo storico riferimento politico-ideologico principale contro l'influenza egemonica “imperialistica” statunitense nel sud del continente.
Vediamolo all’opera, questo dinamismo, in sintetico dettaglio.
- Le relazioni tra Cuba e Venezuela
Dalla fine della guerra fredda, i Castro sono stati in grado di trovare un nuovo patrono, meno poderoso dell'Unione Sovietica ma ugualmente disposto a sovvenzionare l'isola, in particolare col petrolio: il Venezuela di Hugo Chávez, che vedeva in Fidel un faro e che con lui ha ideato l'Alleanza bolivariana dei popoli di nostra America (Alba).
Negli anni di Chávez (1999-2013), il legame tra Caracas e L'Avana si è rafforzato in senso favorevole alla seconda, che è ancora oggi in grado di esercitare un tutoraggio non solo ideologico sulla prima, grazie ai suoi uomini dei servizi segreti e delle Forze armate presenti in numero sconosciuto negli alti ranghi del potere venezuelano. Si ritiene che Chávez abbia designato come suo erede politico l'attuale presidente Nicolás Maduro anche in virtù dei legami di quest'ultimo - già ministro degli Esteri - con Cuba.
La nuova fondamentale e strettissima alleanza con Venezuela di Chavez è stata sin dall’inizio strategica per Cuba e la sua crescita economica. Grazie all'Accordo di cooperazione Integrale dell'ottobre 2000, Cuba riceve quotidianamente dal Venezuela 98.000 barili di greggio ad interessi praticamente nulli e con pagamenti dilazionati (anche fino a trenta anni): dunque energia a bassissimo costo che ha consentito all'economia dell'isola incrementi del doppio del PIL (30 mld di dollari nel 2000, 60 mld nel 2010), almeno fino all'esplodere della crisi finanziaria globale, per poi scendere a tassi d'incremento più bassi ma costanti (2% in media) grazie all'aumento esponenziale delle esportazioni e alla diminuzione delle importazioni.
Infatti, la crisi globale esplosa nel 2008 (espressione “conclamata” della crisi del ciclo di accumulazione manifestatasi sin dai primi anni '70), che ha causato il calo del prezzo del petrolio, ha colpito anche le finanze del Venezuela, troppo dipendenti dalle sue esportazioni di oro nero, innescando anche nel paese del “mitico socialismo bolivariano” il manifestarsi di un progressivo malcontento sociale per le politiche di taglio della spesa sociale. La morte del “carismatico” Chávez ha aggiunto un elemento di tensione politica (con conseguente erosione del precedente consenso sociale) ad una situazione economica del Paese che già nei suoi ultimi anni di potere era notevolmente peggiorata. L'attuale crisi economica ha infatti intaccato pesantemente anche l'economia venezuelana innescando una crisi dei consumi dovuta ad una disoccupazione e ad un’inflazione in crescita: tutto ciò obbligherà l'entourage governativo di Maduro ad aumentare gli investimenti interni per scongiurare una recessione dietro l'angolo, motivo sufficiente per diminuire gli aiuti venezuelani elargiti per la crescita cubana.
Nell’attuale critico scenario, l'Avana utilizza anche i programmi di sviluppo infrastrutturale di Caracas - finanziati (sponsorizzati) da Petrocaribe (la società per la cooperazione voluta da Chavez) - ricambiando con la messa a disposizione della sanità venezuelana di migliaia di medici, allo scopo di incrementarne gli standard qualitativi.
- Le relazioni tra Cuba e Brasile.
Abbiamo analizzato e constatato come il programma di riforme voluto e avviato dal governo di Raoul non solo rientri appieno nei canoni di un sistema capitalistico, ma punti sia alla realizzazione degli obiettivi di crescita economica interna, sia a dare slancio alle relazioni internazionali di Cuba, aprendo ad una necessaria diversificazione dei partners commerciali.
I danni all'economia cubana dovuti all'embargo USA in vigore dal 1962 – e stimati nell'ordine di miliardi di dollari - sono indiscutibili. Ecco giustificato il dinamicissimo e riuscito tentativo di disimpegnarsi da una partnership "esclusiva" e peraltro dimostratasi a lungo poco attendibile (quella russa) per incrementare il flusso di capitali da chiunque provenissero.
Dal novembre 2013 è stata così aperta la Zona di libero scambio nel porto di Mariel: un investimento del costo di 900 mln di dollari finanziato proprio dal Brasile, avente l'obiettivo di attrarre nuovi investimenti esteri e di fluidificare i commerci marittimi con Messico, Brasile e Cina, aggirando i divieti dovuti all'isolamento commerciale provocato dall'embargo (21)
b) Il contesto inter-imperialistico mondiale e i suoi “appetiti”: Russia e Cina all’arrembaggio dei Caraibi
Cuba ha tuttavia evitato di legare il suo destino solo a Caracas, che pure rimane primo partner commerciale dell'isola, strizzando l’occhio al riavvicinato Putin, non disdegnando la “nuova America di Obama” e numerosi Stati della U.E., ma soprattutto aumentando gli scambi con la Cina.
Raúl Castro è considerato un sostenitore del modello cinese. Il rapporto bilaterale è essenzialmente commerciale: la Repubblica Popolare Cinese ha fatto capire di essere interessata al nickel e al petrolio cubano, ma molto meno ad un'alleanza che parta dal “richiamo al comunismo” per opporsi all’aggressivo capitalismo USA. D'altra parte, la stessa Cuba potrebbe in un futuro non troppo lontano abbandonare l'ostilità retorica nei confronti di Washington.
Cuba vorrebbe – e al suo fianco è schierata anche una consistente fazione della borghesia statunitense, interessata a poter competere con gli altri concorrenti alle perforazioni petrolifere offshore nei Caraibi - la fine dell'embargo e l'esclusione dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo stilata annualmente dal Dipartimento di Stato Usa; Washington dal canto suo, prima di fare concessioni, pretende un chiaro impegno de L'Avana «a favore della democrazia e dei diritti umani», nonché nella direzione di ampie e consolidate «liberalizzazioni”». Il nuovo panorama elettorale statunitense, in cui il peso della storica e influente lobby cubano-americana anticastrista sembra oggi andarsi riducendo (vedi nota 14), sembra poter favorire il dialogo nel medio termine. Dal primo mandato di Obama sembra infatti iniziato un lentissimo processo di disgelo tra gli Stati Uniti, il cui esito è però ancora da verificare.
In tal senso «anche il ritorno alla moneta unica è un nuovo passo sulla via del riformismo che il regime dei Castro ha intrapreso da qualche anno in economia e in diplomazia, e i cui risultati non sono ancora giudicabili considerando la scelta di implementare gradualmente le riforme» (22).
Più in generale, le aperture democratiche poi, e le spinte riformiste e liberali avviate dai Paesi latinoamericani (Cuba inclusa) facenti parte di ALBA, sono il chiaro tentativo di rinnovare e consolidare l'interesse internazionale. Malgrado ciò, Cuba rimane ancora il Paese che maggiormente rivendica su un piano meramente propagandistico (ovviamente a propria copertura ideologica e per mantenere il consenso popolare) una politica di stampo "socialista e antiamericano" (ovviamente a chiacchiere) e che rimane unico regime espressamente "antidemocratico" dell'area, almeno nell'accezione che il termine "democrazia" ha per i cosiddetti paesi occidentali.
Certo e dunque il riposizionamento geopolitico cubano va riferito anche agli “auspicati” nuovi rapporti con Washington (e in particolare con le nuove emergenti lobbies pro-affari con Cuba che iniziano a delinearsi sempre più consistenti e potenti), e con i Paesi della UE, ma - vista la titubanza e l’incertezza “americana” e considerato il solo recente riavvicinamento di Mosca dopo anni di abbandono - il partner cinese è apparso realisticamente a Cuba come, al momento, ben più … affidabile.
Ed ecco perché i legami sempre più stretti con Pechino appaiono al momento privilegiati da Cuba, al fine di consentirle di non rimanere sprovvista di solidi, potenti e consistenti alleati per la propria indipendenza politica ed economica nel continente americano e nel cortile di casa USA.
Gli appetiti cinesi nell'area centro-sudamericana
Il crescente interesse che ormai da un decennio la Cina "popolare" mostra e "dimostra" nei confronti dell'area caraibica non è solo economico: mira anche a garantirsi un punto di appoggio strategico preziosissimo alle porte degli Stati Uniti, anzi proprio nel suo tradizionale "cortile di casa", in particolare per la vicinanza alle principali rotte commerciali marittime e per la presenza di importanti infrastrutture (Canale di Panama e porti della regione).
China National Petroleum, la compagnia petrolifera nazionale, ha infatti negoziato una serie di accordi commerciali con l’Avana già nel 2011, per iniziare alcune perforazioni nelle acque territoriali cubane del Golfo del Messico, come confermato dal direttore delle esplorazioni dell’azienda cubana, Guillermo Hernandez Perez.
Il regime di Pechino, noto affamatissimo divoratore di materie prime, si muove ormai da tempo, abilmente e sempre meno nascostamente, nel tradizionale "cortile di casa" Usa, dispensando generosi "regali" per ottenere in cambio le ambite concessioni all'esplorazione prima, all'estrazione poi, del prezioso e a quanto pare abbondante petrolio caraibico. Il tutto tessendo pazientemente alleanze commerciali in funzione di una sua migliore collocazione strategica nelle aree ad alto potenziale energetico.
Del resto è ben noto l'arrembaggio cinese ai Caraibi - ed è in questo contesto più generale che occorre a nostro avviso inquadrare il rapporto Cina-Cuba - da quando ingenti giacimenti offshore di petrolio e shale gas (23) sono venuti alla luce nell'intera area centro-sud-americana.
Malgrado ciò, più d'uno sembra voler ridimensionare simili “entusiasmi”, sia quanto a realistiche prospettive - almeno a medio termine - di affari colossali, sia rispetto alla possibilità che davvero lo shale gas possa diventare la principale fonte energetica "alternativa" rispetto a petrolio e gas; per non parlare dei devastanti effetti ambientali (derivanti dalle su procedure di estrazione) che già da tempo gli ambientalisti di mezzo mondo denunciano. Ci sentiamo perciò di dire: vedremo se è tutto oro ciò che sembra luccicare.
Negli ultimi due anni circa 6 mld di dollari sono affluiti da Pechino ai Caraibi per finanziare diversi progetti infrastrutturali. Dal 2005 al 2012 banche statali cinesi (Export-Import Bank e China Development Bank) hanno prestato 4 mld di dollari a Bahamas e Giamaica per la costruzione di resort, casinò, strade e risistemazione delle coste. Nel 2013 a Trinidad Tobago il presidente cinese in visita annunciò un pacchetto di prestiti per lo sviluppo per 3 mld di dollari e il consolidamento delle cooperazione tra i due paesi nei settori infrastrutture, energia, minerali, telecomunicazioni e agricoltura (24).
- Gli accordi Pechino-Caracas
Altro recente succoso risultato della diplomazia cinese è la sottoscrizione di oltre 200 accordi tra il Venezuela e Pechino nel corso del summit che ha visto il leader cinese Xi Jinping a Bogotà (25): accordi di cooperazione in ambito economico, energetico (petrolifero in primis), educativo, culturale, agricolo, delle infrastrutture e della tecnologia. Più di 220 progetti per i quali giungerà il sostegno del Fondo di Finanziamento "made in china".
Altro grosso "bottino" - emblematico della penetrazione di Pechino in Centroamerica - è il canale inter-oceanico lungo 278 km che un'azienda cinese costruirà in Nicaragua entro il 2020 (26): un investimento di circa 40 mld di dollari per un'opera ambiziosamente definita «la più grande opera mai realizzata nella storia dell'umanità"».
Già nel 2006, del resto, le imprese cinesi avevano ottenuto autorizzazione dal governo "socialista" venezuelano di Chavez per ricercare petrolio sia su terraferma sia offshore. La successiva stipula di ben 38 accordi col governo di Caracas (per una linea di credito di 4 mld di dollari) - con particolari appetiti sul petrolio della Faja del Prinoco - dà una chiara idea del tutto, considerato anche il fatto che la Cina è oggi diventata il secondo partner commerciale (dopo gli USA) del regime di Maduro (27) e il secondo più grande importatore di petrolio dal Venezuela.
- Gli accordi Pechino-Buenos Aires
Da non dimenticare e sottovalutare, infine, i numerosi accordi sottoscritti da Xi Jinping con la premier argentina Kircher, che prevedono ingenti «investimenti cinesi in un’Argentina costantemente sull’orlo del baratro economico, tanto più dopo la sentenza della Corte Suprema di Washington sui bond argentini “ristrutturati” dopo il default del 2001 (e dopo il respingimento, di fine luglio, del ricorso argentino presentato alla Corte americana di…. Ndr).
Il viaggio del presidente cinese Xi Jinping in Argentina si è concluso con la firma di un accordo multimiliardario tra i due paesi che prevede finanziamenti per le infrastrutture e uno scambio valutario da 70 miliardi di yuan, che aiuterà il paese sudamericano a ripagare i propri creditori difendendo allo stesso tempo la valuta nazionale.
Secondo l’accordo inoltre Pechino presterà 2,1 miliardi di dollari all’Argentina per la ristrutturazione del suo sistema ferroviario e 4,7 miliardi di dollari per la costruzione di dighe idroelettriche nel sud del paese (Il Sole 24 ore, 21 luglio 2014). Non bisogna dimenticare che la China National Offshore Oil è la seconda azienda petrolifera del Paese, alle spalle del gruppo nazionale Ypf» (28).
- Gli accordi Pechino-L’Avana
Nello stesso periodo anche il regime cubano stipulava un "accordo di cooperazione" con quello cinese per lo sfruttamento del grande giacimento petrolifero sotto i fondali marini dello stretto della Florida.
Il colosso cinese intrattiene ormai da anni relazioni economiche stabili con Cuba - di cui Pechino è il secondo partner commerciale sia per l'import che per l'export - con cui fra l’altro condivide una altrettanto “strategica” affinità ideologica (entrambi bramano qualificarsi come economie "socialiste").
Il tutto supportato dall'emissione di ingenti crediti cinesi a interessi vicini allo zero.
Tra i due paesi si sono avviati diversi progetti cooperativi per l'energia alternativa, settore ritenuto strategico dal governo cubano sia per la sua crescita economica, sia per tentare di limitare la sua cronica dipendenza energetica dal petrolio venezuelano e dai programmi di sviluppo infrastrutturale finanziati da Petrocaribe, società venezuelana, concessi a Cuba in cambio del sostegno politico alla rivoluzione bolivariana e non solo.
L'attivismo cinese nell'area allarmava gli Stati Uniti (come il Financial Times si premurava di sottolineare) già ai tempi di Bush, che definiva l'area caraibica come "la terza frontiera" americana. Ma la Cina, lungi dal rimanerne allertata, ha continuato, se vogliamo con più insistenza e abilità di prima, a tessere le proprie trame affaristiche, sfruttando del resto il diminuito attivismo dimostrato da USA ed Europa, e anzi potenziando i propri investimenti. Fu allora che addirittura Washington ipotizzò una strategia addirittura "militare" di Pechino nell'area, per certi aspetti assimilabile a quella attuata negli anni '80 dal'Unione Sovietica, per disturbare le linee di comunicazione e di trasporto marittime statunitensi in caso di guerra. Il timore, ribadito dal Wall Street Journal nel settembre 2013, era che Pechino tentasse di introdurre sistemi di sorveglianza e di firmare accordi di accesso navale. Paranoie da novelli e sprovveduti 007? Lasciamo decidere voi.
Chiaro e intuibile che il bilaterale dinamismo economico internazionale cubano e cinese nell’area dia adito a preoccupazioni nei due principali concorrenti energetici mondiali, ovunque in ferocissima competizione per il controllo sia delle zone di estrazione e produzione energetiche (petrolio e gas in primis), sia delle vie di approvvigionamento e distribuzione (oleodotti e gasdotti): USA da un lato, URSS dall'altro, e ciò spiega a sufficienza il rinnovato e generosissimo riavvicinamento di Mosca, peraltro per nulla disinteressato e privo di interessanti contropartite in succulenti affari.
Gli "appetiti" strategici e geopolitici russi nell'intera area centro-sudamericana
Sull’antro versante, non va sottostimato anche il ritrovato interesse politico-strategico ed energetico russo nell'intera area centro-sudamericana, che si esprime a vasto raggio e con iniziative e accordi su più “assi”: Brasile, Cuba e Venezuela in primis.
Specie dopo che la multinazionale spagnola Repsol ha deciso di andarsene definitivamente da Cuba per i risultati praticamente nulli della sua ultima esplorazione dei fondali offshore cubani svolta all’inizio 2012, sia per la compagnia petrolifera sotto controllo statale Zarubezhnetf che per la Gazpromneft si sono infatti spalancate le porte per alcuni succulenti accordi con la compagnia petrolifera nazionale cubana per nuove ricerche e perforazioni (29).
L'asse Mosca-Caracas-L’Avana
Allo stesso mese di novembre 2008 risale anche l’interessata accoglienza di Medvedev (con identico entourage al seguito) a Caracas da parte del sedicente Stato "socialista" venezuelano (con un Chavez fresco di vittoria elettorale), così come l'attracco delle navi da guerra russe (un incrociatore nucleare lanciamissili, una nave antisottomarini e varie navi di appoggio) nel porto venezuelano di La Guaira, a 30 km da Caracas: una presenza sollecitata peraltro dallo stesso Chavez, che con le navi russe farà nei Caraibi (cortile di casa USA) esercitazioni militari congiunte con allegata esibizione delle armi acquistate proprio da Mosca (30).
Insomma, sarà un caso se le cannoniere russe approdano e scorrazzano nei Caraibi con a bordo il nemico n. 1 che sogna di diventare il nuovo Fidel petrolifero per esportare il "socialismo bolivariano" (?!) in tutta l'America Latina? Noi non crediamo davvero.
Del resto il gruppo petrolifero russo Rosneft aveva già da tempo firmato parecchi accordi per l’esplorazione e la produzione di greggio e i suoi derivati sia con il Venezuela che con Cuba.
Con Caracas, Rosneft - interessata a dare impulso alla produzione di petrolio soprattutto nella fascia dell'Orinoco - ha siglato un’intesa con Pdvsa per un controvalore di 2 mld di dollari per garantire la fornitura di petrolio e di prodotti, con l’obiettivo di estrarre 6 mln di barili di greggio al giorno.
Per quanto riguarda l’Avana, Rosneft e Zarubezhnetf hanno firmato recentemente un accordo di cooperazione con la compagnia petrolifera statale cubana Cupet (Union Oil Cuba) con l'intenzione di sviluppare progetti congiunti di esplorazione e produzione (31).
Un interesse “pelosissimo” – quello putiniano - testimoniato sì e chiaramente dal recente “condono” di Putin a Castro, ma che affonda dunque le sue radici nel tempo, se si pensa che già nel 2008 il premier russo Medvedev (con al seguito i ministri per l'energia e degli esteri, nonché il direttore dell'agenzia spaziale e l’amministratore delegato del gruppo petrolifero russo Lokoil e il vicepresidente di Gazprom) organizzava una visita ufficiale di 3 giorni nel Brasile di Lula per dare «un forte impulso all'insieme delle relazioni bilaterali mirante a trasformare in un partenariato strategico reale e a moltiplicare gli scambi economici e i contatti scientifici, al fine di forgiare un'alleanza tecnologica tra i due Paesi». Nel corso della visita Medvedev incontrava non solo i dirigenti del gruppo pubblico petro-gasiero brasiliano Petrobas, ma anche numerosi imprenditori brasiliani operanti nei settori energia, miniere, agroalimentare e bancario. (32)
Ci chiediamo: non si tratterà per caso di spiccato appetito per golosi – e di certo “rigorosamente ... socialisti" - profitti?!
Più recentemente, nel corso del recente suo tour ufficiale (luglio 2014) in America del Sud - in cui si è svolto anche l’incontro coi capi di governo di Argentina e Brasile – Putin ha anche firmato un pacchetto di 10 documenti comprendente anche un accordo tra le compagnie petrolifere russe Rosneft e Zarubezhneft e la Cubapetróleo (Cupet) per lavorare insieme sul giacimento della piattaforma cubana N° 37 (33).
- L'asse Mosca-Brasilia
Anche Brasilia e Mosca hanno firmato nel tempo importanti accordi economici e commerciali e stanno negoziando l'acquisto per le forze armate sudamericane di un sistema di difesa antiaerea russo.
Peraltro già nel novembre 2008 l'incontro di Medvedev (con succoso entourage “imprenditoriale” russo al seguito) con l’allora presidente Lula (34) era servito ad illustrare tutte le allettanti offerte ed intenzioni dello Stato-mercato russo, già da allora intenzionato a sbarcare alla grande in Sudamerica.
Oggi per la Rousseff il recente vertice dei Brics è stato una importante vetrina politica. Anche se l'economia brasiliana ha perso il ritmo di crescita degli ultimi anni ed ora il Pil fa segnare una rachitica crescita dell'1%, mentre l'inflazione, storico tallone d'Achille del gigante sudamericano, ha superato il 6,5%.
Anche in vista della sua candidatura di ottobre 2014 per un secondo mandato, Dilma ha infatti incassato un importante endorsement da Putin, che ha definito il Brasile «un candidato meritevole e forte per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite» e approfitterà quindi del vertice dei Brics per rilanciare l'immagine del Paese come potenza regionale e del suo governo come propulsore di tale ruolo. Ed è per questo che Dilma ha deciso di invitare ai lavori del summit, oltre a Putin, anche i leader dell'Unione delle nazioni sudamericane (Unasur) per una photo opportunity con il presidente cinese Xi Jinping, il premier indiano Modi e il presidente sudafricano Jacob Zuma (35).
La crisi ucraina e il recente accordo russo-cinese sul gas fanno da sfondo al dinamismo diplomatico e commerciale putiniano
Il ritrovato dinamismo diplomatico e commerciale di Putin su tutti gli scenari energetici esistenti ( dal Medio Oriente all’America Latina passando per l’Ucraina) è recentemente culminato nel succulento accordo russo-cinese (36) sulle forniture di gas russo, seguito alla visita del leader russo in Cina: dopo dieci anni di contrattazioni, l’azienda energetica russa Gazprom e l’omologa cinese China national petroleum corporation (Cnpc) hanno siglato un accordo trentennale (del valore complessivo di 400 mld di dollari!) per cui Mosca fornirà gas a Pechino per i prossimi tre decenni per 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno a cominciare dal 2018, attraverso il sistema di trasmissione di gas Power of Siberia, che una volta costruito dovrebbe collegare i giacimenti della Siberia occidentale alla costa pacifica, per poi varcare i confini cinesi. Il prezzo del gas è stato definito dal Ceo di Gazprom «un segreto commerciale».
Del resto già lo scorso ottobre 2013 Cina e Russia avevano firmato un precedente accordo energetico secondo cui l’azienda petrolifera russa Rosneft fornirà 100 milioni di tonnellate di petrolio nei prossimi dieci anni alla Cina: un succulento affare da 85 miliardi di dollari (37).
La recente crisi ucraina (38), l’annessione della Crimea da parte di Mosca e il rinnovato clima di tensione tra Russia e Occidente, hanno spinto il Cremlino a cercare il sostegno politico ed economico della Cina, la quale non è solo il mercato ideale per dipendere in misura minore da quello europeo, ma anche il partner privilegiato in chiave anti-Usa.
Il tutto se si considera che il maxiaccordo energetico consentirebbe alla Russia di sopportare più agevolmente eventuali provvedimenti tesi a ostacolare il suo business energetico, in particolare in Europa. L’Ue importa infatti 167.2 miliardi di metri cubi di gas russo. Di questi, 82.3 miliardi transitano per l’Ucraina. L’importanza dell’accordo è amplificata dal fatto che, secondo l’Fmi, la Russia è in recessione e nel 2014 il suo PIL crescerà solo dello 0.2%.
Quando la Russia ha annesso la Crimea, infatti, Stati Uniti e Ue hanno imposto a suoi funzionari di alto livello alcune sanzioni economiche (blocco dei visti e congelamento dei beni di alcuni funzionari di alto livello).
Ma, nell’occasione, la Russia non è stata appoggiata totalmente dalla Cina che, durante la votazione presso il consiglio di sicurezza Onu a favore di sanzioni contro Mosca, si è astenuta (39). Per il governo cinese, ovviamente, si tratta di un gioco ipocrita della sua diplomazia (40), un gioco delle parti dettato dalla non convenienza cinese a schierarsi “apertamente” con la Russia proprio in considerazione dei fatti d’Ucraina e del montante “fastidio e dissenso” dei governi e in genere dell’opinione pubblica europei.
Allo stesso tempo, dalla prospettiva di Pechino, Mosca è però anche il più grande ostacolo al funzionamento del Pivot to Asia, la strategia di contenimento anti-cinese voluta da Washington.
Di certo, dal canto suo, anche la Cina può dirsi più che soddisfatta dal maxi-accordo: il gas russo contribuisce a diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, oltremodo necessarie per continuare a crescere economicamente. Inoltre, Pechino attingerà così a una risorsa energetica “più pulita” del carbone (attualmente il più utilizzato dalla Cina), che è una delle principali fonti del suo altissimo inquinamento: il che le consentirà, fra l’altro, anche di giocarsi tatticamente la carta propagandistica di un suo allineamento alle nuove politiche internazionali di “rispetto ambientale”.
Tra Russia e Cina si “annuncia” una cooperazione globale
Ma il riavvicinamento tra Russia e Cina è cominciato molto prima della crisi ucraina. Xi Jinping aveva scelto la Russia per il suo primo viaggio presidenziale nel 2013 e vi ha fatto ritorno esattamente un anno dopo in occasione della cerimonia di apertura dei discussi Giochi Olimpici invernali di Sochi (prima volta che un presidente cinese ha assistito a un grande evento sportivo su suolo straniero).
«La dichiarazione congiunta firmata da Putin e Xi evidenzia che Cina e Russia miglioreranno la cooperazione in una molteplicità di settori, tra cui la finanza, il commercio, l’energia e la costruzione d’infrastrutture. Attualmente, lo scambio commerciale tra i due paesi è pari quasi a 90 miliardi di dollari. In un’intervista rilasciata ai media cinesi, Putin ha detto che dovrebbe raggiungere i 100 miliardi nel 2015 e 200 nel 2020» (41).
E non è un caso neanche che martedì 20 maggio 2014 Putin e Xi abbiano partecipato alla cerimonia di apertura della terza esercitazione navale congiunta russo-cinese, che per sei giorni si è svolta nel Mar Cinese Orientale.
L’asse strategico russo-cinese in funzione anti-USA si presenta però ancora instabile e soprattutto dagli esiti tutti da verificare. Il riavvicinamento tra Pechino e Mosca è ovviamente legato non solo alle contingenze ma anche all’evolversi del rapporti interimperialisti complessivi.
Certo è che espandendo l’export energetico in Cina, Putin – oltre che diversificare i destinatari delle sue esportazioni energetiche - vuole certamente dimostrare anche di saper sopravvivere alle sanzioni occidentali legate alla crisi Ucraina, rafforzando al contempo il legame con il suo vicino in funzione anti-ingerenza Usa nel suo, di cortile di casa: quello alle frontiere occidentali del suo impero.
Ma è anche vero che la Russia non intende essere o diventare «il junior partner della Cina o una “potenza regionale” (come è stata definita dal presidente Obama): i due paesi hanno entrambi una vocazione imperiale e condividono circa 4 mila chilometri di confine. Questi fattori li rendono rivali strategici» (42).
Normale routine, del resto, diremmo noi: come spesso accade nei rapporti tra le nazioni e, oggi, tra gli imperialismi, gli “amici” di oggi sono i nemici di domani: tutto dipende dagli interessi strategici sul piatto e dalla convenienza, volta per volta stimata, di legarne la propria sorte al partner che appare più appropriato (anche fosse solo sul piano della forza militare). Per non andare troppo lontano, si ricordi il repentino “mutare” delle alleanze strategiche, politiche e militari, in prossimità del secondo conflitto mondiale: USA e Germania negli anni Trenta, poi URSS e Germania (patto Stalin-Ribbentrop), poi URSS e anglo-americani, ecc.
Il dinamismo imperialistico russo e cinese a confronto
Una differenza sostanziale - sottolineata anche in un recente studio (43) dello statunitense Council of Hemispheric Affairs - mostra una "Cina (che) sta cercando di aumentare la sua influenza con l'impiego di strumenti economici e il soft power piuttosto che attraverso strategie quali l'hard power militare e gli atti di unilateralismo che hanno portato ad un profondo risentimento regionale verso le politiche statunitensi" (44).
Il crescente, parallelo e concorrente attivismo imperialista di Cina e URSS nell'intera area caraibica e sudamericana (e non solo) - mirante con tutta evidenza a rafforzare la rispettiva presenza in un'area geopoliticamente molto sensibile per gli interessi statunitensi – evidenzia anche, al tempo stesso e a ben guardare, «le debolezze strutturali dell'imperialismo russo e la forza strutturale di quello cinese. La Russia esporta per lo più' armi e politica, la Cina soprattutto capitali e merci, ma anche armi e politica» (45).
Certo per entrambi pur sempre di "ottimi affari" si tratta, ma con caratteristiche, e potremmo dire "approcci" molto diversi per il loro raggiungimento.
Più in generale, attualmente il vorace appetito cinese predilige strategie "soft", per così dire (tra cui anche il "fare shopping", specie in quei paesi - come la Grecia - più' messi in ginocchio dalla crisi), rispetto ai metodi ben più “truculenti” (quelli dell’invasione militare e dei bombardamenti) tipici dell'imperialismo USA, ma anche URSS (si pensi alla vendita di armi come al sostegno militare diretto su molteplici scenari bellici, come all’intervento militare diretto in Afghanistan), spesso privilegianti il carro armato alle “buone maniere”. Con questo non intendiamo certo negare che gli USA, come ogni altro, faccia ricorso a tutti gli strumenti dell'imperialismo, anche economici e finanziari (in particolare tramite istituzioni come FMI e Banca mondiale).
Ma – ci teniamo a sottolinearlo - pur sempre di imperialismo si tratta, come vorremmo ricordare ai sedicenti “antimperialisti a senso unico" (rigorosamente ed esclusivamente anti-yankee, per intenderci), che con molta faciloneria identificano l'imperialismo con l'utilizzo della violenza e del mezzo militare e non, invece, come dovrebbero, con il prevalere di politiche (anche apparentemente "pacifiche") di controllo politico attuate anche e soprattutto con l'esportazione di capitali finanziari (oltre che di apparati militari) come strumento di soggezione di fatto e di ricatto rispetto ai Paesi che la subiscono (in special modo dal punto di vista proletario).
Riferendoci all’area centro-sudamericana, ricordiamo infatti che, a parte il “condono”, Mosca ha venduto al Brasile un sistema di difesa anti-aerea e firmato con l’Argentina un’intesa per la cooperazione in campo nucleare.
A testimonianza dell’estremo dinamismo cinese su scala planetaria, oltre ai già visti innumerevoli accordi stipulati in terra caraibica, una rapida occhiata va anche alle sue incursioni in terra d’Africa, in cui sempre più massiccia si fa la presenza di «imprese cinesi che stanno trasferendo la produzione di alcuni settori ad alta intensità di manodopera impiegata (tessile-abbigliamento e lavorazione metalli e minerali)": anche in Cina la manodopera inizia a scarseggiare e i salari a salire (anche a seguito dell’aumentata conflittualità operaia nelle aree più industrializzate del Paese) e la ricerca di manodopera più a buon mercato è d'obbligo» (46).
La penetrazione cinese in Africa è in questo senso emblematica: «creazione di infrastrutture, aumento della capacità produttiva e dell'occupazione, trasferimento tecnologico e sviluppo del capitale umano (47) consente a Pechino, tra l'altro, di «accreditare la cooperazione cino-africana come mutualmente vantaggiosa, e non paravento di mire neo-coloniali", in particolare tramite le "Zone economiche speciali (Zes) su cui la Repubblica popolare cinese investe capitali e energie politiche notevoli». Risultato: la costante crescita dell'interscambio commerciale tra Cina e continente africano, passato da 198 mld di dollari Usa del 2012 agli oltre 200 mld del 2013. «Nel 2012 delle circa 5.090 imprese cinesi dislocate nel mondo circa 2.000 (quasi la metà!) operano in Africa con un flusso netto di investimenti diretti esteri (Ide) pari a 2,5 miliardi di dollari, a fronte dei 390 milioni del 2005» (48)
L'America Latina detiene un quinto del petrolio mondiale
L'intera area caraibica e latino americana disporrebbe – a quanto pare - di enormi riserve petrolifere offshore, ossia nelle profondità dei suoi mari: solo nel Golfo del Venezuela Eni, nel 2009, avrebbe scoperto un giacimento (49) nel Golfo del Venezuela che potrebbe contenere 1 mld di barili petrolio (equivalenti ad una quantità di gas superiore a 160 mld di metri cubi). Peraltro pare si tratti di un greggio molto denso e di un gas di elevata qualità.
Ed ecco che, non a caso, l’industria petrolifera globale si è spostata, armi e bagagli, in quella “terra promessa”, verso l’esplorazione delle acque più profonde alla ricerca di petrolio e gas naturale.
Questa nuova frontiera, insieme alle sabbie bituminose e ai giacimenti di petrolio e gas di scisto, sembra essere considerata al momento la fonte primaria delle forniture di petrolio per i prossimi 10 anni e oltre, sufficiente a scatenare l’attuale corsa all'aggiudicazione delle concessioni per perforazioni, estrazione e raffinazione del "nuovo" greggio. In particolare (50) sulla costa atlantica del Sudamerica e soprattutto nel bacino venezuelano dell’Orinoco (55.000 kmq con – pare - 297 mld di barili), in Brasile (con i giacimenti di Tupì per 33 mld di barili e quello di Giove con 12 mld) e al largo del delta dei fiumi nel Golfo del Messico. (51)
Già al 2010 il predominio del Golfo del Messico era evidente: i rapporti della Deutsche Bank parlano di un triplo di pozzi trivellati rispetto al numero di quelli in Brasile e, ancora, stilano un elenco delle compagnie più attive nell'area offshore. Chevron e Royal Dutch Shell con circa 760 pozzi, Petrobas, Exxon e Bp con oltre 600, Eni, Statoil e ConocoPhillis con circa 300-500 ciascuna. Per 7 di queste 8 la più grande concentrazione di pozzi in acque profonde è stata nel Golfo del Messico, ad eccezione del portafoglio brasiliano di Petrobas che detiene oltre il 90% del giro d'affari e di Total in Angola (52).
Tutti i Paesi dell’area sono dunque costantemente alla ricerca di nuovi giacimenti, affidandosi, oltre che alle loro compagnie petrolifere nazionali, all'opera di sondaggio e perforazione di compagnie petrolifere estere. Da qui ecco giustificata la estenuante corsa all'accordo più conveniente, come al regalo più consistente, da parte dei governi delle rispettive compagnie petrolifere nei confronti dei rispettivi governi dell’area, per accaparrarsi preziose licenze estrattive.
E di certo tra i regali più “consistenti” si colloca il “condono” putiniano del debito concesso a Cuba, in concorrenza sfrenata con la generosità cinese nell'elargire alla stessa Cuba prestiti finanziari a tassi prossimi allo zero e dilazioni di pagamento: il tutto rientra appieno nelle mire geopolitiche russe, tanto magnanime quanto interessate, che si estendono sull’intero pianeta (dal continente americano all’area mediorientale all’Ucraina, fondamentale viadotto per il passaggio di gasdotti e oleodotti russi).
I giacimenti di petrolio accertati in Sud America al largo delle coste costituiscono - secondo i dati dell'Organizzazione Latino Americana dell'energia (Olade) - il 20% di tutte le riserve mondiali. Venezuela, Messico, Brasile producono già l'80% del totale della regione, cui aggiungere le stime sull'abbondante greggio cubano.
Le abbondanti “stime” – che prendiamo con le dovute pinze - secondo cui solo le riserve venezuelane potrebbero addirittura durare per 201 anni (considerando ovviamente costanti gli attuali livelli di consumi), spiegano in particolare perché sia soprattutto il governo di Caracas a pianificare progetti faraonici per l'estrazione e lavorazione del greggio e a promuovere la trivellazione di 10.500 pozzi, oltre la costruzione di 2 raffinerie e di un nuovo terminal di esportazione. Il tutto in previsione che entro il 2015 la produzione di petrolio venezuelano ammonterà a 4,5 mln di barili al giorno e la raffinazione a 3,6 mln. In uno dei blocchi venezuelani (Cardon IV) è già dal 2009 operativa una Joint operating company partecipata al 50% dall'italiana Eni (per una produzione giornaliera di circa 8.000 barili di petrolio) e al 50% da Repsol.
Cuba, un mare di oro nero?
Il Servizio Geologico degli Stati Uniti (Usgs) avrebbe calcolato, nel 2012, che le riserve di petrolio cubano nelle acque del Golfo del Messico ammonterebbero a 4,6 mld di barili, mentre gli specialisti cubani sono convinti che i barili di greggio disponibili sarebbero almeno 20 mld.: un vero mare di oro nero! (53)
Il “sogno cubano”: prospettive di indipendenza energetica per Cuba e di tintinnanti affari per Putin e "concorrenti" vari
La disponibilità per Cuba di ingenti quantità di greggio rappresenterebbe per l'economia dell'isola una svolta storica, consentendole di arrivare, per la prima volta, non solo ad una indipendenza energetica (soprattutto da Caracas) ma addirittura a diventare un paese esportatore di greggio.
Se davvero vi fossero tali enormi quantità – per ora solamente stimate - di greggio solo con riferimento ai mari cubani, l'Avana vedrebbe infatti radicalmente e rapidamente trasformarsi in pochi anni la sua economia, diventando uno dei primi paesi latinoamericani estrattore ed esportatore.
Nel 2010 Cuba ha prodotto in totale 21.4 mln di barili di petrolio (il 46% del consumo nazionale), restando costretta ad importare il resto del suo fabbisogno dal vicino Venezuela, incidendo pesantemente sulla sua bilancia commerciale con l'estero.
Se le perforazioni rispettassero le aspettative (circa 380.000 barili in più al giorno) si calcola che entro il 2016 la produzione di greggio potrebbe arrivare a 525,000 barili al giorno (54) (contro gli attuali 53 mila a fronte di un consumo interno di 150 mila), il che significherebbe nuove e consistenti entrate per le casse statali e una drastica riduzione delle spese destinate all'import energetico. Si stima – anche qui - che se l'attuale prezzo del barile si mantenesse a poco meno di 100 dollari, il governo cubano vedrebbe entrare ogni giorno nelle proprie casse una cifra di tutto rispetto: le quote destinata al consumo interno e quelle spettanti per diritto alle imprese straniere, essa ammonterebbe a circa 18 milioni e 550 mila dollari in più al giorno (55). Una manna, non c'è che dire.
Non a caso L’Avana sta progettando la costruzione di nuove raffinerie (e l’ampliamento di quelle esistenti) e, tra i progetti sul suo tavolo, rientrano anche la ristrutturazione della raffineria di Cienfuegos e la trasformazione del porto di Mariel, a 40 km dalla capitale, in terminale strategico per l’industria petrolifera.
Dalla cordata di società coinvolte nell'affare le compagnie petrolifere USA sono al momento escluse: l'embargo statunitense esclude infatti la partecipazione di imprese statunitensi, un paradosso che si ritorce contro gli interessi dell'industria petrolifera a stelle e strisce. Secondo una norma del blocco economico in qualsiasi apparato che voglia fare affari con Cuba non può esserci più del 10% di tecnologia statunitense.
Del resto, in un’eventuale era post-embargo, il potenziamento delle capacità di raffinazione cubane potrebbe tornar utile anche agli USA, la cui capacità copre solo l'80% della domanda interna.
Al di là del fatto scontato che presto o tardi gli Stati Uniti dovranno fare i debiti conti e riflettere se ancora valga la pena di mantenere un embargo peraltro unilaterale che danneggia gli interessi stessi delle proprie aziende petrolifere, è chiaro che esistono tutti i presupposti per un ingigantirsi degli interessi e appetiti economici (e delle mire di controllo sulla “preziosa” area) da parte dei principali concorrenti imperialistici internazionali degli USA - Cina e ... Russia di Putin in testa - ad uno sfruttamento il più esclusivo possibile delle piattaforme petrolifere già presenti nel bacino. Anche considerando il solo fatto che, in caso di ritrovamento di giacimenti, le imprese affittuarie avrebbero diritto alla gestione del giacimento stesso e alla metà delle quote estratte.
E dunque appare sempre più inconsistente e inverosimile ritenere gratuita e magnanima la generosità putiniana di condonare l'enorme debito di Cuba nei confronti della Russia.
Un mare di oro nero è pur sempre una torta fin troppo succulenta per non stimolare appetito e golosità persino del magnanimo Putin.
C'è comunque da ribadire che Cuba deve comunque scendere a patti con le principali imprese petrolifere straniere coinvolte (e dunque coi loro governi), perché non dispone di mezzi e tecnologie propri per la perforazione e l’estrazione petrolifera.
Conclusioni: considerazioni generali e valutazioni politiche
All'arrembaggio dei Caraibi e più in generale del continente sudamericano, detentore di enormi riserve energetiche fondamentali (gas e petrolio), si rivolgono dunque pressoché tutti i principali competitor imperialistici attuali: dalla Cina all'Urss, dalla UE agli USA.
Lontani dunque dall’esultare per un socialismo davvero distante galassie dall’isola caraibica e dai suoi vicini di casa (Venezuela in primis), nonché dalla Russia imperialista dell’era Putin, tutta l’operazione – da noi descritta nel contesto dell’intricato intreccio di rapporti ed interessi economici ed imperialistici concorrenti che la sottendono - lungi dal delinearsi come l’ennesimo soccorso rosso della ex “Patria del socialismo” nei confronti dei suoi legittimi “figli”, si traduce in una ben comprensibile operazione di fine strategia geo-politica, peraltro perfettamente rientrante nella “normalità” – a nostro avviso - della quotidiana e sempre più sfrenata concorrenza-scontro tra imperialismi rivali, di cui la Russia è parte a tutti gli effetti. Una concorrenza resa sempre più spietata dalla crisi capitalistica mondiale strutturale in corso.
Offshore nei mari di Cuba ci sarebbero ingenti giacimenti petroliferi che le compagnie russe vorrebbero sfruttare da sole battendo la concorrenza occidentale. Ma anche se il presunto “mare di olio nero” dovesse alla fine rivelarsi solo un semplice “laghetto”, ciò non inficia in nulla l’analisi sin qui condotta: quella secondo cui ad ogni “odor” di succulento pasto, tutti i commensali si precipitano alla golosa mensa.
Ma l’ulteriore e non certo secondario elemento in causa è quello strategico: resta il fatto che la Russia non vuole correre il rischio, nel dopo Castro, di perdere l'unico alleato nell'area caraibica e con esso – aggiungeremmo – l’intero e sempre più vasto entourage di Paesi oggi gravitanti attorno alla sua orbita “ideologica” e di partnership economica (Venezuela e Brasile in testa).
Insomma rispetto alla generosità “pelosa” di Putin siamo senz’altro, fuor di retorica, in presenza di un autentico "investimento" politico a 360 gradi in chiave di "neo guerra fredda" che passa anche da quelle latitudini. Per cui la questione politico-strategica, oltre - se non prima ancora di - quella economica, unitamente a quella dell'egemonia nel controllo sulle fonti energetiche mondiali dei prossimi decenni (nonché delle loro aree e canali di distribuzione: gasdotti e oleodotti) e delle esportazioni energetiche, sono tutti elementi che giustificano abbondantemente tanta apparente "magnanimità". E ciò anche in considerazione del fatto che gli attuali contendenti si disputano la partita decisiva sul piano di quello che domani potrà essere il più forte esportatore di materie prime energetiche: oggi appannaggio della Russia, domani forse degli Usa… eventuale petrolio cubano permettendo. In questo senso, è in particolare sui giacimenti cubani che si concentrano attualmente le principali attenzioni.
Tutti elementi che sembrano davvero sfuggire agli sguardi “ideologici” degli osservatori "sinistrorsi" di intransigente fede (perchè di questo non può che trattarsi!) socialista bolivariana, troppo intenti a verificare e riaffermare assi di amicizia spassionata quanto idealistica, lontani davvero anni luce dall’immenso e ben più concreto, realistico e “terreno” mondo degli affari capitalistico.
Ecco allora spiegato il corollario del “condono” del debito cubano: una finissima operazione strategica e diplomatica (quella dell’imperialismo russo) la cui consistenza può “sfuggire” solo a chi, ancora una volta, omette di analizzare il quadro complessivo, e ancora in itinere, sia dei delicati rapporti sia dei crescenti appetiti inter-imperalistici in campo, e degli scontri da essi alimentati destinati a sfociare necessariamente negli innumerevoli focolai bellici già disseminati sull’intero pianeta.
O a chi (come certi mediocri filosofetti o analisti da strapazzo oggi tanto in auge…) si dice felice che “finalmente” - dopo il “doloroso” venir meno (per l’implosione del vecchio – e da essi tanto amato - blocco sovietico) dei “positivi equilibri” venuti fuori dagli assetti spartitori di Yalta tra i due colossi vincenti del II conflitto mondiale - si stia configurando una auspicabile ed equilibrata “multipolarità” che sia capace – a detta ed auspicio loro – di contrastare il predominio assoluto e arrogante degli States, unico polo da essi identificato come imperialistico in campo. Dimenticando, ignorando, o meglio ipocritamente e falsamente omettendo di dire e riconoscere che le entità di questo nuovo “assetto multipolare” sono e restano (come noi ci premuriamo di ricordare) tutte ugualmente interamente capitalistiche e imperialistiche.
La miopia e inconsistenza di questa prospettiva conduce tali “sinistri” (anche nella loro versione più … “radicale” o “sedicente” marxista) al ben noto quanto semplicistico e reazionario schierarsi, volta per volta, al fianco, e dunque al sostegno, di uno dei diversi fronti imperialistici (nel caso specifico di quello che sembra loro essere il più … debole) che si contendono il controllo egemonico di intere aree strategiche del mondo addossando l’enorme costo delle loro abili manovre (militari, economiche, “riformatrici”, diplomatiche, politiche) sulle spalle di milioni di proletari. Il tutto nella illusoria speranza che indebolendo il fronte “più aggressivo” si possa agevolare – chissà poi in virtù di cosa – un qualche processo progressivo. Nella realtà, piuttosto, il tutto si risolve nell’esatto contrario: indebolire un fronte (imperialistico) significa infatti giocare a favore del rafforzamento dell’altro (altrettanto imperialistico).
La inconsistenza e il carattere reazionario della prassi politica che ne consegue è perfettamente coerente con le errate premesse, e si esprime, del tutto impotente, in generiche quanto inconsistenti, spesso infantili, ed astratte “solidarietà” (per lo più solo ideologiche) nei confronti di altrettanto astratti “popoli” concepiti come entità interclassiste da sostenere … “a prescindere” da ogni – diciamo noi – corretta ed indispensabile analisi classista.
Solidarietà formali e parolaie che nessun vantaggio apportano agli interessi concreti dei proletari di ogni dove, proprio perché avulse da ogni analisi classista dei vari contesti in esame. Solidarietà formali destinate solo a inutili pratiche attiviste – momentanee, immediatiste e consolatorie di una rabbia certo legittima ma che fatica a trasformarsi in lucida coscienza politica - il cui risultato finale si rivela oggettivamente reazionario.
Proletari (tutti!) che andrebbero piuttosto condotti, in un’ottica rivoluzionaria internazionalista e disfattista, a battersi rigorosamente e unitariamente contro le manovre delle proprie rispettive borghesie nazionali, legate a maglie strettissime con le maggiori e più aggressive espressioni imperialistiche dei grandi blocchi predominanti che, grazie alla loro potenza militare ed economica, si contendono il controllo e il dominio del mondo mirando, per adesso, ad indebolirsi reciprocamente in via preventiva.
Ed è a quell’ottica – quella dell’unità proletaria senza patrie e nazioni, quella del boicottaggio di ogni guerra, quella della fraternizzazione, quella della progressiva trasformazione della guerra fratricida in guerra di classe antiborghese - che invece noi comunisti internazionalisti facciamo e abbiamo sempre fatto riferimento, certi che solo dalla lotta di classe dei proletari e dalla rinsaldata unità del fronte proletario sotto la necessaria guida della loro indispensabile avanguardia politica (il partito di classe) – sia sul piano nazionale che, soprattutto, internazionale - potrà alla fine e unicamente scaturire la vera emancipazione dalla società del dominio e e della mercificazione e, con essa, il trionfo della sua dimensione finalmente umana.
E alla costruzione e al rafforzamento di quell’avanguardia noi lavoriamo.
Appendice 1:
ALBA (Alleanza Bolivariana para America Latina)
Avviato formalmente nel 2004, si tratta di un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i Paesi dell'America Latina e i Paesi caraibici, promossa dal Venezuela e da Cuba in funzione anti-egemonia USA nell'area e dunque in alternativa a quell’Area di libero commercio delle Americhe (ALCA) voluta degli Stati Uniti, la quale, rispondendo agli interessi del capitale transnazionale USA, persegue la liberalizzazione assoluta del commercio di beni e servizi. Utilizzando la solita retorica "socialisteggiante" e antimperialista a senso unico (cioè solo anti USA) , ALBA pone ovviamente la sua enfasi sugli «obiettivi della lotta dei popoli alla povertà e all'esclusione sociale». Ovviamente non da un punto di vista classista e rivoluzionario, ma semplicemente rivendicando per l'area dell'America Latina un'indipendenza (tutta capitalistica!) dagli interessi dell’ingombrante ed egemonico “vicino di casa yankee”.
ALBA si fonda sulla creazione di una serie i meccanismi finalizzati alla «creazione di vantaggi cooperativi fra le nazioni che permettano di compensare le asimmetrie (sociali, tecnologiche, di grado di sviluppo economico, sanitarie, ecc.) esistenti tra i paesi dell'area». Una cooperazione dunque tramite fondi di compensazione destinati a correggere le disparità che giocano a svantaggio dei paesi più deboli dell'area rispetto alle potenze economiche: si privilegia perciò la negoziazione tra i blocchi sub-regionali, «identificando ambiti di interesse comune e muovendosi nella direzione della costruzione di alleanze strategiche negoziate attraverso comuni e condivisi processi, sfruttando il vantaggio dell'unità delle forze» volto ad impedire l'assorbimento delle pressioni d'interesse esercitato (tramite ALCA) dal padrone di casa più potente dell'intero continente americano. ALBA si lega anche a maglie strette sia ai trattati di commercio dei popoli (TCO) sia alla recente costituzione della nuova “Banca dei Brics” appena giunta a conclusione.
Per ulteriori approfondimenti e valutazioni politiche rinviamo a: I Paesi “emergenti” nell'area sud-americana (2014) presente sul sito www.leftcom.org nonché all'appendice 2 di questo articolo.
Appendice 2:
Dal Bancosur alla “Nuova Banca dei BRICS”
Il Bancosur (2009)
Il Banco del Sur era nato da un'idea del presidente venezuelano Hugo Chavez e - proposto per la prima volta al vertice di Cochabamba (dicembre 2006) e riproposto dopo la sigla degli accordi fondativi a Buenos Aires (dicembre 2007) – è stato avviato formalmente nel 2009 ma con operatività a partire dall'aprile 2013, un capitale iniziale di 20 mln di dollari,sede a Caracas, e due filiali a Buenos Aires e La Paz..
L'accordo fu allora firmato da Argentina, Brasile, Bolivia, Ecuador, Paraguay, Uruguay e Venezuela il 9 dicembre 2007: Argentina, Venezuela e Brasile hanno versato 4.000 milioni di dollari, mentre Uruguay, Ecuador, Paraguay e Bolivia hanno contribuito con importi minori.
Si trattava di dar vita ad un fondo monetario e al tempo stesso ad una banca di sviluppo e, almeno nelle intenzioni iniziali, anche ad un'organizzazione di prestito cui, oltre al Venezuela, avevano aderito anche Argentina, Brasile, Bolivia, Ecuador, Paraguay e Uruguay. Il Cile partecipava come osservatore e la Colombia aveva richiesto l'adesione sin dal 2007 ma ha poi desistito riguardo alla sua incorporazione. Esso avrebbe dovuto agire come una banca di sviluppo principalmente per finanziare opere infrastrutturali e appoggiare le imprese pubbliche e private dei paesi firmatari. Il progetto fu allora appoggiato anche dal Premio Nobel per l'economia (2001), ed ex economista della Banca Mondiale, Stiglitz, che vede anch'egli di buon grado il configurarsi di un assetto multipolare.
Il fatto che Chavez abbia a suo tempo lanciato l'iniziativa in concomitanza con l'annuncio che il Venezuela avrebbe abbandonato Fondo Monetario e Banca Mondiale (cosa poi non concretizzatasi) non è riuscito a spostarne le finalità. Sebbene carica di suggestioni «anti», e sebbene negli intenti esso avrebbe dovuto concedere prestiti a singoli Paesi in cambio di condizioni e scelte macroeconomiche, ben presto e ben più realisticamente esso si rendeva conto di poter solo finanziare progetti infrastrutturali. Come poi ammesso di recente dallo stesso governo di Caracas : “non può per il momento prendere il posto dell'Fmi”. Per il momento, per l'appunto: ossia in attesa di … futuri e migliori assetti, che presto avrebbero trovato soprattutto nella Cina il loro principale “finanziatore”.
Del resto già allora, per alcuni economisti brasiliani, l'istituzione non sarebbe servita a nulla: «L'unica cosa che sarà in grado di fare è riservare prestiti modesti a Paesi dall'economia fragile come Bolivia ed Ecuador» (56).
Obiettivo prioritario dichiarato della Banca fu dunque fornire (utilizzando i mezzi dei Paesi partecipanti, attualmente investiti in Europa e negli Stati Uniti) risorse finanziarie alternative a quelle del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale per la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali congiunti per lo sviluppo e l'integrazione regionale. Dunque assicurare - come enfaticamente sostenuto da Chavez - «un aumento della produzione di petrolio e gas, creare più lavoro e garantire combustibile alle famiglie povere...», nonché giungere a quella integrazione dell'America Latina in alternativa al libero scambio che gli USA vorrebbero imporre con ALCA (vedi Appendice 1).
Ad ulteriore copertura e retorica ideologica Chavez si spingeva a dichiarare: «Un vento nuovo soffia su Argentina, Bolivia, Ecuador, Venezuela, Nicaragua e Cuba (...) Paesi che costituiscono l'asse delle organizzazioni popolari, dei governi progressisti, rivoluzionari e socialisti che vogliono rafforzare l'unità del popolo in tutto il continente, allo scopo di spuntarla sull'Impero e la sua nuova offensiva». Inutile precisare a quale "Impero" il nostro si riferisca.
Una simile prospettiva presentata come "emancipatrice" del Sud del Mondo dall'arroganza e aggressività del Nord del Mondo - peraltro enfaticamente impostata sul "democratico" criterio di uno Stato un voto (a prescindere dal livello di contribuzione di ognuno) convinse anche l'Uruguay, la Colombia ma soprattutto il Brasile (di Lula prima e di Dilma Rousseff poi) che, malgrado disponga già di una sua banca per lo sviluppo, si aggregò al progetto, finalmente divenuto realtà, guardando lontano, e cioè convinto che l'integrazione progressiva - prima energetica poi economica- dell'area latino-americana possa essere lo strumento migliore per rafforzare la tradizionale leadership del Brasile nel Sudamerica. E ciò sebbene il governo di Lula avesse inizialmente preso tempo, con posizioni contrapposte all'interno del governo, preferendo alla fine aderire. A differenza del Venezuela, infatti, Brasilia non era e non è “in rotta di collisione” con Washington, intesa sia come Casa Bianca sia come Fmi, avendo saldato i suoi debiti da qualche anno e non avendo programmi pendenti. E ciò spiega il suo rifiuto ad un immediato ingresso di nuovi membri, come invece da altre parti si era ventilato.
In particolare il decisivo passo avanti auspicato era già allora l'allontanamento dalle istituzioni finanziarie internazionali e soprattutto dalle loro rigidissime prescrizioni economiche oltre che dai rigidi dettami di rientro dal debito contratto.
Nel corso degli anni '90 infatti FMI e Banca Mondiale (in cui il peso economico e politico statunitense è preponderante) fornivano prestiti alle nazioni sudamericane in difficoltà imponendo loro sia l'adozione di politiche economiche fortemente liberiste (totale apertura dei mercati interni agli investimenti internazionali e riduzione della spesa sociale dei governi in carica,), sia tassi d'interesse molto alti, conducendo al loro crescente impoverimento (il cui esempio più eclatante fu la bancarotta argentina nel 2001-2002).
Ed ecco che tra le belle e pie intenzioni del Banco del Sur si era fatta strada quella della concessione di prestiti del tutto liberi da prescrizioni economiche, rendendo peraltro l'intera regione indipendente dai secolari condizionamenti economici e politici statunitensi.
Inutile dire che a gettar acqua sul fuoco di così tanti bei propositi "socialisti" bastava il sopraggiungere della crisi in atto e in espansione, nonché l'assoluta interconnessione tra le istituzioni finanziarie che nel capitalismo globalizzato stiamo assaporando da ormai oltre un ventennio.
La non irrilevante denominazione (Banco del Sur - ossia Sud - e non invece Banca del Sudamerica) già allora lasciava intravvedere l'intenzione futura di trascendere i confini latino americani per assorbire altri Stati di quel “sud del mondo” dislocati in altri continenti (Africa e Asia in primis).
Già allora fu data per scontata comunque l’intenzione di finanziare (come primo esperimento) la costruzione del grandioso gasdotto di 8000 km dal Venezuela alla Terra del Fuoco e al Canale di Panama (il Gasoducto del Sur), infrastruttura ritenuta essenziale da Chavez per l'integrazione energetica sudamericana e primo passo per la successiva integrazione economica dell'intero continente sudamericano.
La capitalizzazione dell'istituto fu allora decisa nell'ordine di 2 mld di dollari ciascuno subito, 10 mld in 7 anni e 40 mld di garanzie, con erogazione dei primi prestiti già nel 2016.
La “Nuova Banca dei BRICS” (2014)
A metà luglio 2014 a Fortaleza (Brasile) i leader delle 5 economie "emergenti" (BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) - riuniti per il loro VI Vertice - hanno dato vita ufficialmente alla Nuova Banca per lo Sviluppo (Ndb. New Development Bank) con un capitale iniziale di 50 mld di dollari che salirà successivamente a 100 mld, con sede attuale a Shangai in Cina e primo mandato di presidenza quinquennale accordato all'India.
Secondo il manifesto.it anche Cuba e altri paesi come Ecuador, Bolivia e Uruguay sarebbero interessati a parteciparvi.
Il 14 luglio si è dato il via ufficiale alla costituzione della Banca e del fondo di riserva, mentre il 15 e 16 luglio i presidenti delle 5 economie emergenti si sono poi incontrati a Brasilia con i rappresentanti delle nazioni sudamericane che compongono l'Unasur e la Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici che esclude solo Usa e Canada.
Si è anche discusso dal ruolo esercitato dai tribunali internazionali (che trascinano gli Stati in giudizio seguendo gli interessi delle grandi corporations statunitensi e della drammatica situazione argentina (57).
Dopo l’incontro Brics-Unasur, i capi di stato e di governo di Cina e Brasile hanno incontrato “il quartetto della Comunità degli stati latinoamericani (Celac), composto da Costa Rica, Cuba, Ecuador e da un membro della Comunità dei Caraibi.
Sembra si preveda anche, nel medio periodo, la creazione di una moneta comune che consenta ai paesi membri di non dipendere dal dollaro. In America latina, del resto, c’è già un blocco regionale — quello dell’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (Alba) — che ha sperimentato una moneta alternativa, il Sucre. E diversi paesi, come l’Ecuador o il Venezuela, stanno portando avanti studi e sperimentazioni di finanza creativa nell’ottica di una diversa integrazione regionale” (58).
Rispetto al precedente Bancosur, oltre al finanziamento di opere infrastrutturali congiunte, l'istituto si dà – stavolta più concretamente - l'ulteriore scopo dichiarato (al netto della solita retorica ideologica del riscatto dei Paesi deboli del Sud del Mondo dai Paesi ricchi del Nord) di costituire un fondo di riserva per fronteggiare crisi finanziarie e fughe di capitali e investimenti stranieri dall'area, attraverso la concessione di prestiti a tassi agevolati (e, a quanto dichiarato, non accompagnati da condizioni vincolanti come invece gli “aggiustamenti e le riforme strutturali” richiesti da FMI e Banca Mondiale, rispetto ai quali Banca e Cra intenderebbero porsi in concorrenza diretta). E a tale scopo istituisce infatti, contemporaneamente, il fondo di riserva Cra (Contingent Reserve Arrangement), con una disponibilità iniziale di 100 mld di dollari.
Un ulteriore obiettivo sembra essere “quello di rafforzare il controllo sulle proprie fonti di energia e sulle materie prime. Durante il vertice, i Brics hanno firmato accordi anche sulla questione della sicurezza e della lotta al narcotraffico” (59).
“... a Fortaleza i Brics hanno disegnato il quadro di una nuova architettura finanziaria alternativa al Fondo Monetario internazionale e alla Banca Mondiale (…) Quella annunciata dai Brics a Fortaleza, pur modulata dai diversi interessi e visioni, è l’ipotesi di una nuova configurazione geopolitica multipolare, basata «sull’inclusione, il dialogo e la ricerca di soluzioni politiche ai conflitti in base al rispetto della sovranità nazionale». Il tema del governo delle risorse e della sovranità è stato al centro degli incontri dei Brics con i rappresentanti della Unasur. (…) ” (60).
Pare insomma che fra gli intenti prioritari vi sia anche quello di ampliare e consolidare le relazioni tra i paesi “emergenti” (Brics) e quelli in via di sviluppo (in Asia e Africa soprattutto), dei quali i primi potrebbero diventare i principali “finanziatori”. Da qui il rinnovato recente tour di viaggio, fitto di appuntamenti, di Obama nel continente africano, già da tempo nelle fauci di numerosissime imprese cinesi già operative.
Di certo la partecipazione di Putin al VI Vertice dei BRICS è stato per lui un ottimo palcoscenico politico internazionale, specie dopo l'espulsione dal G8 in seguito alla annessione della Crimea. Il buon Putin ha ovviamente ricambiato l'accoglienza riservatagli con un importante endorsement a Dilma, in vista della sua candidatura al suo secondo mandato presidenziale di ottobre, proponendo la candidatura "meritevole" del Brasile per un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e rilanciando l'immagine del Brasile come potenza leader nella regione sudamericana. Restituendole così un'ottima vetrina di consenso politico, specie a fronte di una decrescita dell'economia brasiliana (un misero PIL dell'1%!) e di un'inflazione in crescita esponenziale (oltre il 6,5%) i cui disastrosi effetti il proletariato brasiliano sta già “assaporando” da lungo tempo (61).
Si tratta dunque – ancora una volta - del tentativo di dar vita ad un nuovo assetto finanziario localizzato, cui soprattutto Cina e Russia si mostrano particolarmente interessate, per allentare il predominio finanziario del dollaro, esercitato dagli States (come anche dalle principali banche europee) anche tramite il controllo delle istituzioni finanziarie internazionali su citate, e certamente più in sintonia con il nuovo "mondo multipolare" da tanti auspicato e accolto entusiasticamente, venuto fuori dopo l'implosione di uno dei due precedenti blocchi imperialistici - configuratisi al tavolo di Yalta (1945) - e dunque con la fine del periodo della guerra fredda.
In particolare nel fondo di riserva Cra il ruolo cinese sarà il più rilevante, con la dotazione di 41 sui 100 mld di dollari del fondo, a fronte dei 18 mld cadauno previsti per Mosca, Brasilia e Nuova Delhi e dei 5 mld di Johannesburg.
“La Cina è l'unica potenza non occidentale in grado di sfidare, al momento, l'egemonia finanziaria statunitense, ma non può farlo da sola, ha bisogno dei Brics e in particolare della solidità e dinamicità diplomatica russa”. (…) La Cina dispone infatti di ampia liquidità e investe in aree chiave quali energia, minerali e infrastrutture” (fino ai recenti accordi – ben 150! - stipulati da Pechino con l'Argentina per 11 mld di dollari in 3 anni (su elettricità e ferrovie), col Venezuela e con Cuba.
La stessa visita di Xi Jinping in Argentina, Venezuela e Cuba ha dunque “tutta l'aria di un reclutamento per allargare la platea ben oltre i Brics”. (62)
Il tutto mentre, dal canto suo, Putin – dopo la firma di numerosi accordi economici e commerciali col Brasile di Dilma e alla trattativa in corso per l'acquisto di un sistema di difesa antiaerea russo - condona il debito a Cuba e poi al Nicaragua, per volare infine in Argentina a concludere importanti accordi sul nucleare civile, prima di approdare al Vertice Brics di Fortaleza. L'attivismo russo mirerebbe dunque anche a “potenziale l'industria delle armi (attraverso vendite e collaborazioni) oltre che a “dare uno schiaffo morale a Washington intervenendo proprio a due passi dal suo territorio”.
Ma se Russia e Cina si sono avvicinate anche per la comune ostilità statunitense, è pur vero che esse conservano “non poche aree di tensione, dalla competizione per risorse e influenza in Asia Centrale a quella dell'Artico” (63)
Un tour de force dunque, che vede impegnati i due principali competitors degli States, nel corso del quale si è ampiamente discusso di un eventuale prossimo allargamento dell'area BRICS (ipotesi cui attualmente la Rousseff sembrerebbe contraria). Del resto giù da tempo Venezuela, Bolivia ed Ecuador hanno solide relazioni con i Brics.
Dichiara Pepe Escobar, giornalista di Asia Times:
“In Sud America, Putin incontra non solo il Presidente dell'Uruguay, Pepe Mujica discutendo tra gli altri argomenti, la costruzione di un porto in acque profonde - ma anche Maduro del Venezuela e Morales della Bolivia. Xi Jinping è anche lui in tournée, recandosi in Brasile, Argentina, Cuba e Venezuela. Quel che Pechino dice (e fa) completa Mosca; l'America Latina è vista come estremamente strategica. Ciò dovrebbe tradursi in maggiori investimenti cinesi e aumentare l'integrazione Sud-Sud. Questa offensiva commerciale e diplomatica russo-cinese corrisponde alla spinta concertata verso un mondo multipolare. L’Argentina è un esempio di prim'ordine. Mentre Buenos Aires, già impantanata in una recessione, lotta contro i fondi avvoltoio degli Stati Uniti - sintesi della speculazione finanziaria - nel Palazzo di Giustizia di New York, Putin e Xi stanno offrendo di investire in tutto, dalle ferrovie al settore energetico"
Davanti a questo manovrare, sottolinea sempre Escobar, occorre chiedersi già oggi: 1) quale sarà la “reazione” USA, 2) se i paesi aiutati accetteranno (e a che condizioni) di liberarsi dalla dipendenza USA per mettersi però sotto la tutela ufficiosa della Cina (principale contribuente finanziario dell'operazione), e – non da ultimo – 3) come si posizionerà la nuova Banca dei BRICS di fronte alle altre istituzioni similari (non solo “occidentali”), tra cui la nuova “Banca Asiatica di Investimenti in infrastrutture” che Pechino ha lanciato in parallelo (64).
Il tutto anche in considerazione non solo 1) del fatto che altri paesi (65) potranno presto unirsi agli attuali BRICS, che già ora, da soli, “detengono oltre il 40% della popolazione mondiale, il 30% della massa terrestre e il 25% del PIL mondiale” (solo nel 2010 circa 14.000 mld di dollari Usa, pari al 18,5%) (66); ma anche 2) del “potenziale” stimato ufficialmente a proposito del peso economico dei Brics nel prossimo futuro:
“Secondo gli ultimi dati del Fondo Monetario Internazionale (FMI) quest’anno l’economia mondiale crescerà del 3,7% e i paesi dei Brics saranno quelli in cui la crescita sarà maggiore. Entro il 2025, si prevede che i Brics racchiuderanno il 30% dell’economia mondiale. Nel 2014 e nel 2015, il Pil della Russia crescerà rispettivamente del 2% e del 2,5% (…) Quanto al successivo blocco di paesi emergenti, i cosiddetti Mint (messico, Indonesia, Nigeria e Turchia), nei prossimi vent’anni avranno dalla loro diversi punti forti da spendere nel mercato internazionale: in primo luogo la crescita demografica e l’aumento della forza-lavoro. (…) Del resto la nuova Banca dei Brics potrà effettuare prestiti non solo ai paesi membri, ma anche ad altre nazioni emergenti” (67)
Ovviamente – aggiungiamo noi – si tratta di previsioni che, per quanto “ottimistiche” e “incoraggianti”, dovranno comunque e inevitabilmente fare i conti con i sempre più catastrofici effetti economici e sociali dell'avanzante crisi strutturale planetaria del capitalismo.
(1) Fonte: La Duma cancella il 90% del debito di Cuba verso l'Urss, da www.ansa.it
(2) La priorità della Russia è “rifinanziare” il debito di Cuba, ha dichiarato il ministro dell’Industria e del Commercio russo Denis Manturov: «Si tratta di una decisione complessa che coinvolge in parte il debito prescritto e il rifinanziamento del resto, entro 10 anni», aggiungendo che il debito totale è di «30 miliardi dollari» ed «è troppo presto dire quanto gran parte di esso sarà eliminato e quanto dovrà esserne rifinanziato il resto».
(3) Russia ha già ristrutturato il debito ad altri paesi che godevano di rapporti privilegiati con l’Unione Sovietica, come l’Afghanistan (12 mld di dollari), l’Iraq (13 mld di dollari) e il Nicaragua. Inoltre altri paesi creditori avevano già annullato parte del debito cubano, come la Cina, nel 2010, e il Giappone l’anno scorso. (Fonte: La Russia cancella il debito cubano, luglio 2014, da www.sinistraunita.org)
(4) Nel 2005, infatti, pare che anche alcune compagnie canadesi abbiano trovato petrolio di alta qualità' nella Zona Economica Esclusiva (ZEE) assegnata a Cuba nel Golfo del Messico con gli Accordi di Divisione Marittima del 1997 con Messico e USA.
(5) Tra i contratti già stipulati da Cuba con le principali imprese petrolifere spiccano: 1) l'impresa mista cubano-canadese Energas (che lavora il gas accompagnante il petrolio) che prevede nei prossimi anni investimenti per 1.250 mln di dollari; 2) l'impegno di esplorazione già nel 2012, nelle acque cubane del Golfo del Messico, della spagnola Repsol, della brasiliana Petrobas e della norvegese Statoil Hidro. A ciò si aggiungono le dichiarazioni pubbliche della leadership cubana secondo cui, se non fosse per l'embargo, persino le imprese USA sarebbero le "benvenute" in tali attività. Fonte: Cuba e la geopolitica del petrolio, di Sergio Barone - 24/07/2010, da www.eurasia-rivista.org
(6) Lo studio di Usgs del 2004, che si avvale delle informazioni disponibili sugli elementi geologici che gli scienziati chiamano “sistema di Petrolio Totale” (SPT), ha calcolato che le riserve di petrolio cubano nelle acque del Golfo del Messico ammonterebbero tra i 4,6 mld e i 9 mld di barili oltre a circa 10 mld di piedi cubici di gas. Più ottimistiche le stime dei specialisti cubani: 20 miliardi di barili. (fonti: 1) Cuba tra i primi paesi latinoamericani produttori di petrolio? - 12 febbraio 2012, da www.thisiscuba.net; 2) La vendetta di Fidel – È sicuro: nelle acque di Cuba c’è il petrolio, luglio 2008, da www.comedonchisciotte.org
(7) La congressista del Partito Repubblicano per la Florida Ileana Ros-Lehtinen ha tentato la criminalizzazione delle trivellazioni da parte di Cuba utilizzando strumentalmente l’argomentazione “ambientalista” secondo cui la barriera corallina subirebbe enormi danni dalle trivellazioni. Anche un altro deputato repubblicano della Florida, Vern Buchanan, si oppone alle trivellazioni perché ”potrebbero essere una minaccia per il turismo e l’ambiente della Florida”. Già nel 2007, l’ex senatore repubblicano della Florida Mel Martínez, aveva presentato un progetto di legge che proponeva chiare misure punitive per le compagnie straniere, ritirando loro i visti e multando chi investiva nel petrolio cubano, in quanto lo sviluppo del petrolio cubano “va contro la politica di sicurezza nazionale degli USA”. (fonte: Petrolio, Cuba e coralli, 13 dicembre 2011, da www.nuestra-america.it (fonte originale citata su www.nodo50.org)
(8) Il blocco Jaguey fa parte del Z.Z.E. (Zona Economica Esclusiva), un'area totale di 112,000 km quadrati, suddivisa in 59 blocchi (ciascuno di 2,000 km quadrati). Inizialmente la societa petrolifera spagnola Repsol se ne era aggiudicati 6 blocchi (4.500 km quadrati), affiancata dalle compagnie petrolifere Statoi Hydro (Norvegia) e Ongc (India).
Al 2011 dei 59 blocchi disponibili solo 22 sono stati affittati a varie compagnie straniere: Petrobras (Brasile), Petronas (Malesia), PetroVietnam (Vietnam), Gazprom (Russia), Sonangol (Angola), PDVSA (Venezuela) e CNOOC (Cina). Tra le compagnie non compare nessuna società statunitense a causa dell'embargo in vigore da 50 anni: un paradosso che stupidamente colpisce e danneggia gli interessi dell'industria petrolifera statunitense. (Fonte: Cuba tra i primi paesi latinoamericani produttori di petrolio? - 12 febbraio 2012, da www.thisiscuba.net)
(9) Per approfondimenti rinviamo a “Premesse per l'analisi della crisi cubana” (1963) di Raya Dunayevskaya, da www.leftcom.org
(10) Ci riferiamo alla guerra civile angolana del 1975 (durata fino al 2002), scoppiata subito dopo la decolonizzazione (guerra dei garofani e guerra di indipendenza angolana), e che vide coinvolti, direttamente o indirettamente, altri paesi come Urss, Cuba, Sud Africa e Stati Uniti, sul piano dell’assistenza militare alle fazioni angolane in guerra. In quell’occasione Cuba inviò 230 consiglieri militari e 18.000 soldati in supporto del MPLA, svolgendo un ruolo decisivo nel conflitto. (Cit. da Cuba e la geopolitica del petrolio, di S. Barone, 2010)
(11) Per ulteriori approfondimenti rimandiamo anche alle Appendici 1 e 2 a questo articolo presenti sul nostro sito. Per una ricostruzione storica dei successivi passi nei progetti d’integrazione sudamericana che hanno poi condotto ad ALBA, rinviamo al nostro recente articolo di approfondimento: I Paesi “emergenti” nell'area sud-americana (2014), di Davide Casartelli, luglio 2014, da www.leftcom.org
(12) Da contorno al Summit una fervente serie di iniziative: viaggi di “diplomazia economica” ed incontri promossi da Putin e Xi Jinping, con visite in diversi paesi latino-americani, tra cui Cuba, il Venezuela e l'Argentina di nuovo a rischio default (Fonte: La banca BRICS un nuovo tassello del Beijing Consensus di Biava e Gallo, da www.ispionline.it)
(13) La famiglia Bush aveva un forte e consolidato legame con la potente lobby anticastrista di Miami tanto che George Bush "padre", quando era agente della CIA, aveva il compito di reclutare esiliati cubani per operazioni di sabotaggio e terrorismo nell'isola. George Bush "figlio" deve alla FNCA il suo primo successo elettorale (per il "mancato" riconteggio dei voti in Florida). Il fratello Jeb fu eletto Governatore della Florida grazie all'appoggio dell'estrema destra cubana in debito con esso per i preziosi servizi resi. Fonte: Cuba e la geopolitica del petrolio, di Sergio Barone - 26/07/2010, da www.eurasia-rivista.org
(14) «Un senatore democratico, Byron Dorgan, e un suo collega repubblicano, Larry Craig, hanno proposto un progetto di legge per l'energia (Safe Energy Act) che contempla un allentamento dell'embargo, di modo che le compagnie petrolifere americane possano partecipare all'estrazione del greggio in acque cubane. L'azione dei due senatori -«ispirati» soprattutto da Exxon-Mobil - ha avuto l'appoggio di alcuni deputati degli Stati del Midwest e dell'Ovest, i quali rappresentano gli interessi di un agro-business da anni interessato, e parzialmente impegnato, a vendere i propri prodotti a Cuba. La loro argomentazione è che l'embargo si è dimostrato inutile politicamente mentre «ha tenuto lontano compagnie americane da un mercato potenzialmente lucrativo». L'Avana non ci ha pensato due volte a sfruttare la breccia. Il delegato commerciale a Washington, Ernesto Placensia, nel marzo dello scorso anno aveva annunciato che, qualora fosse stato tolto il divieto per le aziende americane di fare business con Cuba, sarebbe stato loro riservato lo stesso trattamento già concesso ai Paesi che non accettano l'embargo Usa.» (Fonte: La vendetta di Fidel – È sicuro: nelle acque di Cuba c’è il petrolio, luglio 2008, da www.comedonchisciotte.org)
(15) Nel 2012 il Congresso degli Stati Uniti ha discusso un nuovo disegno di legge che consentirebbe alle imprese petrolifere statunitensi di perforare in acque della Zona Economica Esclusiva di Cuba (ZEE). Il deputato repubblicano dell’Arizona, Jeff Flake, il 5 marzo ha presentato al parlamento l’iniziativa HR 4135, denominata Legge per la Sicurezza Energetica dell’Emisfero Occidentale 2012. La proposta cerca di fare in modo che le imprese statunitensi “partecipino all’esplorazione e all’estrazione d’idrocarburi e prevede che i dipendenti di queste società ottengano una “licenza generale”, sena dover più richiedere permessi speciali per poter viaggiare a Cuba. L’HR 4135 non è la prima iniziativa del Congresso per cercare di escludere l’estrazione petrolifera dalle sanzioni imposte dall’embargo. Nel 2010, un progetto di legge presentato dai senatori Lisa Murkowski (repubblicana dell’Arkansas) e Maria Landrieux (democratica della Louisiana) fu bloccato dopo essere stato approvato dalla commissione del Senato per l’energia e le risorse naturali. Fonte: www.lanotaprogressista.wordpress.com, marzo 2012
(16) Per approfondimenti rinviamo a_: Un’altra rivoluzione a Cuba?,_ di Fabio Damen, 28 novembre 2013, da www.leftcom.org
(17) Nel contesto delle nuove riforme liberalizzatrici avviate dal "nuovo corso", il permanere della doppia circolazione monetaria accrescerebbe infatti le diseguaglianze sociali acuendo la disparità tra la maggioranza delle popolazione e una minoranza: per la maggior parte della popolazione infatti l'accesso ai servizi non più statali ma privatizzati, e ai prodotti di importazione, disponendo di una moneta debole, diventerebbe ancora difficoltoso se non impossibile. Si consideri che oggi un lavoratore per lo Stato guadagna circa 400 cup, equivalente a 16 cuc (=16 dollari).
(18) Ciò in tutti i settori eccetto quello sanitario, dell'istruzione e delle forze armate, considerati strategici.
(19) Fonte: Cuba apre agli investimenti esteri: svolta storica? – da www.rainews.it - 29 marzo 2014
(20) Vedi anche: Il dinamismo geopolitico di Cuba, di Salvatore Rizzi, da www.cesi-italia.org
(21) La free trade zone è un'area di libero scambio portuale di ben 465 km quadrati: un escamotage commerciale per aggirare la legge Helms-Burton, che non consente alle navi internazionali di attraccare nei porti americani se nei sei mesi precedenti hanno sostato in un porto cubano. In tale area axtradoganale Cuba assicura ai suoi principali partner commerciali (Italia inclusa) regole meno tortuose e più chiare e veloci, e semplificazione delle negoziazioni nei vari settori di transazione commerciale (la stessa promessa poi realizzata nell'intero Paese col "nuovo corso" riformatore di Raul). Da Cuba lancia la prima zona di libero scambio, di Roberto Da Rin, su Il Sole 24Ore, ottobre 2013, da www.mobile.ilsole24ore.com
(22) Fonte “La moneta unica e il riformismo graduale di Cuba” di Niccolò Locatelli, 26 0ttobre 2013, su Il Sole 24 Ore, da www.temi.repubblica.it/limes
(23) Il cd. shale gas (giacimenti intrappolati nella microporosità di rocce argillose - unitamente ai gas di scisto bituminosi (ottenuti dall'estrazione petrolifera) - ha fatto irruzione nello scenario energetico mondiale negli ultimi 3 anni, cambiando radicalmente il mercato energetico ad oggi soprattutto degli Stati Uniti. Grazie allo sfruttamento dei giacimenti di shale gas e altri gas cosiddetti non convenzionali, la produzione interna degli USA è aumentata del 50% toccando (raggiungendo) nel 2009 quota 624 mld di m3, con oltre il 10% di shale gas e prospettive al 2035 di una produzione di shale gas pari al 26% della produzione nazionale di gas, Numeri che fanno degli USA i maggiori produttori di gas naturale al mondo e che consentirebbero loro di tagliare enormemente le importazioni attuali, ponendosi anzi come esportatori, in forte competizione futura con la Russia che attualmente è il maggiore esportatore di gas del pianeta. Dagli studi effettuati emergerebbe una importante disponibilità di shale gas abbastanza equamente distribuita sul pianeta, con i più grossi giacimenti individuati in Algeria e Libia, Canada, Cina, Argentina e Brasile. Consistenti ma minori giacimenti anche in Europa (Polonia, Francia, Norvegia e Svezia), in Messico, Sud Africa e Australia.
(24) La Cina "regala" così a Nassau, capitale delle Bahamas, un nuovo stratosferico stadio da 35 milioni di dollari (progettato, finanziato da Pechino e persino costruito da manodopera cinese) e un lussuosissimo resort a Baha Mar, del costo di oltre 3 mld di dollari finanziato dalla Bank of China. Anche Dominica ha ricevuto in regalo il suo splendido stadio oltre ad un nuovo ospedale, Trinidad e Tobago ha ottenuto in regalo da Pechino la lussuosa nuova residenza ufficiale per il suo Primo Ministro, Antigua e Barbuda una nuova centrale elettrica. Per non parlare della neo colonizzazione cinese in atto nel continente africano. Tutta generosità gratuita? Niente affatto: ogni dono prevede, richiede ed ottiene un corrispettivo in affari miliardari. Fonte: La Cina all’arrembaggio dei Caraibi, di A. Tapparini, 10 aprile 2012 – da www.america24.com
(25) Fonte: Correo del Orinoco.
(26) Fonte: Cina e Caraibi: tra cooperazione e strategia, di D. A. Bertozzi per Marx 21, da www.marx21.it
(27) Da "Libero", 22 luglio 2014
(28) L’attivismo di Cina e Russia in America Latina e in Africa, da www.sebastianoisaia.wordpress.com
(29) Fonte: Cuba richiama la Russia: petrolio in vista, di S. Vegliò, giugno 2012, da www.pangeanews.net e www.it.cubadebate.cu, agosto 2012.
(30) Fonte: www.greenreport.it
(31) Come parte dell'iniziativa si sta progettando di istituire una base logistica nella zona di sviluppo a Mariel (a 45 circa da L'Avana), un progetto che si concentra sullo sviluppo economico sostenibile attraverso investimenti esteri focalizzata sull'innovazione tecnologica e la concentrazione industriale. Secondo Emilio Lozada, ambasciatore cubano in Russia, questo è un buon momento per questo tipo di accordo. Soprattutto a seguito della recente approvazione da parte de l’Avana di una nuova legge sugli investimenti stranieri e della creazione della Zona Mariel, che hanno creato un ambiente favorevole per lo sviluppo nell'isola caraibica. Fonte: www.ilvelino.it - 28 maggio 2014
(32) Fonte: www.greenreport.it
(33) Fonte: www.247.libero.it - 11 luglio 2014
(34) Fonte: www.greenreport.it
(35) Da: www.lettera43.it - martedì 15 luglio 2014
(36) La stipula del contratto è avvenuta il secondo giorno del viaggio del presidente russo Vladimir Putin a Shanghai (Cina) del maggio 2014, dove ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping e ha partecipato al “Summit of the Conference on Interaction and Confidence Building Measures in Asia” (Cica Summit, un forum intergovernativo per promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità in Asia). In un’intervista rilasciata ai media cinesi, Putin ha detto che “la cooperazione tra Cina e Russia sta raggiungendo un nuovo livello di interazione strategica e di partnership globale. Non sarebbe sbagliato dire che ha raggiunto il punto più alto nella sua storia plurisecolare”. Fonte: Russia e Cina, accordo sul gas e rivalità strategiche, di G. Cuscito, da www.temi.repubblica.it/limes
(37) Inoltre, a gennaio 2014, la Cnpc ha acquistato il 20% del progetto di Novatek per lo sviluppo di gas naturale liquefatto (gnl) a Yamal, nel Nord della Russia. Novatek conserva la quota del 60%, mentre la francese Total detiene il restante 20%. Fonte: Russia e Cina, accordo sul gas e rivalità strategiche, di Giorgio Cuscito, cit.
(38) Per approfondimenti rinviamo a La crisi ucraina, le forze in campo e i giochi degli imperialismi, presente sul nostro sito www.leftcom.org
(39) «Quando la Russia ha annesso la Crimea, non è stata appoggiata totalmente dalla Cina. Durante la votazione presso il consiglio di sicurezza Onu a favore di sanzioni contro Mosca, Pechino si è astenuta. Inoltre, nelle dichiarazioni rilasciate dai suoi leader politici hanno sempre invitato le parti coinvolte a una risoluzione pacifica della questione. Il rispetto della sovranità nazionale è un punto cardine della politica cinese e appoggiare esplicitamente l’annessione della Crimea alla Russia sarebbe stato incoerente. E’ pur vero che la Cina cerca in maniera sempre più aggressiva di affermare la propria sovranità sulle isole contese nel Mar Cinese Orientale e Meridionale, suscitando le preoccupazioni dei paesi dell’Asia Pacifico. Si pensi alla caldissima disputa con il Vietnam dovuta alla collocazione di un piattaforma petrolifera cinese a largo delle isole Paracel e a quella storica con il Giappone per le Senkaku/Diaoyu» Fonte: Russia e Cina, accordo sul gas e rivalità strategiche, di Giorgio Cuscito, 23-05-2014, su Limes, www.temi.repubblica.it/limes
(40) Inoltre, nelle dichiarazioni rilasciate, i leader politici cinesi hanno sempre invitato le parti coinvolte a una risoluzione pacifica della questione. Il rispetto della sovranità nazionale è un punto cardine della politica cinese e appoggiare esplicitamente l’annessione della Crimea alla Russia sarebbe stato incoerente. È pur vero che la Cina cerca in maniera sempre più aggressiva di affermare la propria sovranità sulle isole contese nel Mar Cinese Orientale e Meridionale, suscitando le preoccupazioni dei paesi dell’Asia Pacifico. Si pensi alla caldissima disputa con il Vietnam dovuta alla collocazione di un piattaforma petrolifera cinese a largo delle isole Paracel e a quella storica con il Giappone per le Senkaku/Diaoyu. Come Stati Uniti e Ue, anche il Giappone ha imposto delle sanzioni economiche contro la Russia in seguito all’annessione della Crimea. Mosca ha intanto risposto aumentando i pattugliamenti aerei e navali nell’Asia Pacifico.
(41) I due paesi intendono collaborare servendosi di più piattaforme regionali. Tra queste, la Shanghai Cooperation Organization (Sco, considerata fondamentale per la lotta al terrorismo), l’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec, per promuovere l’integrazione economica regionale) e la Cica, che dovrebbe diventare un importante forum per discutere di “sicurezza e pace” in Asia. Putin ha evidenziato anche l’importanza della Silk road economic belt. Questa zona economica progettata dai cinesi (che unirà 24 città dell’Asia Centrale) potrebbe collaborare con la futura Unione Euroasiatica (voluta da Putin e aperta a tutte le ex repubbliche sovietiche) che dovrebbe formarsi il 1 gennaio 2015. Fonte: Russia e Cina, accordo sul gas e rivalità strategiche, di Giorgio Cuscito, cit.
(42) Da: “Russia e Cina, accordo sul gas e rivalità strategiche” di Giorgio Cuscito, cit.
(43) Studio uscito all'indomani della pubblicazione del "Libro bianco cinese sulla politica in America Latina e nei Caraibi" nel 2008.
(44) C.H.A., "China’s Policy Paper on Latin America and The Caribbean", luglio 2009.
(45) L’attivismo di Cina e Russia in America Latina, da www.sebastianoisaia.wordpress.com
(46) «Finora la Cina è cresciuta grazie alla enorme disponibilità di manodopera, soprattutto giovane e a buon mercato, ma le cose stanno cambiando rapidamente. Anche nel paese più popolato del mondo, la manodopera inizia a scarseggiare. E i salari a crescere. L’introduzione di tecnologie avanzate di produzione nella manifattura è uno degli ingredienti principali del cambiamento strutturale che sta interessando l’economia cinese, insieme agli investimenti in infrastrutture tecnologiche, di comunicazione e di trasporto, all’aumento della produttività del settore agricolo grazie alla meccanizzazione di semine e raccolti, e alla progressiva urbanizzazione che permette a milioni di lavoratori rurali di passare dall’agricoltura alla manifattura e ai servizi e di trovare occupazioni meglio retribuite in città. […]» (Articolo di Alessia Amighini su il "Foglio" del 18 luglio 2014)
(47) Articolo di Alessia Amighini, pubblicato su Il Foglio del 18 luglio 2014, cit.
(48) A. P. Quaglia, "L'avanzata della Cina in Africa”, Orizzonte Cina, maggio 2014, cit. in L’attivismo di Cina e Russia…, cit.
(49) Eni ha effettuato l’importante scoperta di idrocarburi nell'offshore venezuelano, perforando con successo un pozzo esplorativo nel giacimento denominato Perla, localizzato nel blocco Cardon IV, nel Golfo del Venezuela. Secondo quanto segnala il gruppo italiano, durante la prova di produzione il pozzo ha prodotto gas di ottima qualità con una portata di circa 600mila metri cubi al giorno e 500 barili di condensato al giorno. Eni prevede che la produzione di gas in condizioni normali possa superare il milione di metri cubi al giorno. Nel blocco Cardon IV è operativa una Joint operating company, partecipata al 50% da Eni e al 50% da Repsol. In Venezuela, Eni ha una produzione giornaliera di circa 8mila barili di petrolio al giorno dal giacimento di Corocoro e una partecipazione nella società Petrolera Guiria, che gestisce la scoperta di Punta Sur. Fonte: Accordo Eni-Petroleus de Venezuela per il gas dei Caraibi, 23-10-2009, da www.energymanagernews.it
(50) Il tutto va ad affiancarsi alla presenza di grossi giacimenti petroliferi in Africa occidentale (Nigeria e Angola) e in qualche altra località asiatica
(51) L’America Latina (anzi il Venezuela) detiene un quinto del petrolio mondiale, di Luca Troiano, 17 luglio 2011, in GeoPoliticamente – www.geopoliticamente.wordpress.com
(52) David Knapp, 31 dicembre 2010, da www.abo.net
(53) Cuba, mare di oro nero, di Marco Todarello, 26 gennaio 2012, da www.lettera43.it
(54) «In pochi anni Cuba potrebbe produrre 525.000 barili al giorno di greggio e diventare una nazione esportartrice», ha dichiarato Jorge Piñón esperto di questioni petrolifere dell'Università di Miami.
(55) Fonte: www.lettera43.it
(56) Fonte: Lula e Chavez lanciano il BancoSur. Al varo, atteso per dicembre, l' istituto che raggrupperà otto Paesi dell' America Latina, da www.archiviostorico.corriere.it/2007
(57) L'Argentina è fra i paesi con più vertenze aperte presso i tribunali di arbitraggio. E ora è nuovamente a rischio default per via delle richieste dei «fondi avvoltoi», che esigono il pagamento per intero dei crediti contratti dopo la bancarotta del 2001–2002.
La Russia ha apertamente appoggiato la Kircher nella sua battaglia contro i “fondi avvoltoi” e in quella per la sovranità delle isole Malvinas, oltre che discutere della conclusione di accordi riguardanti il maggior giacimento di idrocarburi non convenzionali (uno dei maggiori al mondo) presente nella regione argentina di Vaca Muerta, al cui sfruttamento i russi sono oltremodo interessati. (_Brasile. È in corso il VI vertice dei paesi emergenti per la creazione di una nuova Banca di aiuti allo sviluppo,_di Geraldina Colotti, 14/7/2014, da www.ilmanifesto.info). Dopo l'ingiunzione di pagamento da parte del giudice Usa a nome dei titolari dei “fondi avvoltoi” e dopo il recentissimo rigetto del ricorso presentato dal governo argentino, il Paese è infatti nuovamente a rischio default per l'ingiunzione di pagamento. In una simile situazione per la Kircher l'avvicinamento commerciale con URSS e Cina, nonché la nascita della Nuova Banca dei Brics, è con evidenza una potenziale e “salutare” boccata d'ossigeno.
(58) Summit. Le potenze emergenti cercano alternative al Fondo monetario internazionale, di Geraldina Colotti, 12.7.2014, da www.ilmanifesto.info. E' da vedere anche qui come potrebbero reagire l'Europa e gli USA, se si considera il fatto che “la NATO non ha mai esitato ad attaccare gli Stati che rischiavano di incrinare il predominio a stelle e strisce: pensiamo all’Iraq di Saddam Hussein che minacciava di sganciarsi dal dollaro per vendere il petrolio in euro o in un’altra valuta più vantaggiosa, pensiamo alla centralità geopolitica di Jugoslavia e l’Afghanistan o alla recente guerra in Siria” (Fonte: Nasce la Banca dei BRICS: un’alternativa a Bretton Woods, di Fabrizio Leone, 16 - 07 – 2014, da www.formiche.net). Ovviamente la presenza attiva e protagonista di Cina e Russia rendono molto delicata e al momento a nostro avviso non immediatamente proponibile una azione militare diretta.
(59) A Fortaleza: Brasile. Il VI vertice dei Brics. Siamo la forza del cambiamento», di Geraldina Colotti, 16.7.2014, in www.ilmanifesto.info
(60) Fonte: Brasile. Al VI vertice dei Brics, storico incontro tra Pechino e i rappresentanti della Celac, di Geraldina Colotti, 17.7.2014, da www.ilmanifesto.info
(61) Fonti: 1) “La sfida dei paesi emergenti. Nasce la banca dei BRICS”, 16/7/2014, da www.lastampa.it; 2) Banco del Sur, alternativa sudamericana a Banca Mondiale e FMI, di P. F. Galgani, dicembre 2007, da www.paginedidifesa.it; 3) Brics: nasce la Nuova Banca di Sviluppo. I Paesi emergenti sfidano l’Occidente, luglio 2014, da www.lettera43.it
(62) Fonte: Brics: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa si fanno la loro banca, di Davide Mazzocco , 15 luglio 2014 da www.soldiblog.it e in La banca dei Brics diventa realtà, di Rita Fatiguso, da www.mobile.ilsole24ore.com
(63) “La Cina ne è motore politico, economico e ideologico; propone un modello battezzato “Beijing Consensus” (da Cooper Ramo, 2004), che ha funzionato in Africa e moltissimi altri paesi (dall’Asia centrale al Centro America), fondato soprattutto su prestiti e aiuti a Paesi in Via di Sviluppo, in cambio di investimenti in risorse energetiche e minerali. Investimenti in infrastrutture e trasferimento di tecnologie ai paesi dove Pechino ha investito hanno finora contribuito al successo di questo modello. La Ndb farà prestiti a condizioni più agevolate e tassi d’interesse più bassi rispetto a quelli praticati dal Fmi. Nuovi paesi potranno aggiungersi, anche se i Brics si sono riservati il diritto di mantenere una quota di controllo non inferiore al 55%.“ (fonte: La banca BRICS un nuovo tassello del Beijing Consensus, di Giovanni Biava, Ernesto Gallo, 30 Luglio 2014, da www.ispionline.it)
(64) Fuga dal WashingtonConsensus? Nasce la Banca dei Brics, 5 agosto 2014, di Chems Eddine Chitour, Professore alla Ecole Polytechnique enp-edu.dz, da www.mondialisation.ca, riportato da www.comedonchisciotte.org
(65) Paesi fra i quali spiccano particolarmente l'Iran - con i suoi straordinari progressi tecnologici, - e l'Indonesia, la cui economia è in rapido sviluppo – circa il 7% annuo – e con disponibilità di ingenti risorse naturali.
(66) C'è da aggiungere che «le attuali riserve estere dei Brics sono stimate in 5.000 mld di dollari usa, di cui 3.200 nella sola Cina, e sono al momento per lo più in dollari, oltre a detenere una quota significativa del debito estero USA». Ciò fa ben comprendere la stretta dipendenza di tali economie dall'andamento stesso di quella americana, un cui crollo eventuale si ripercuoterebbe drammaticamente sulle stesse. Ed ecco perchè «la politica della Fed di alzare i tassi di interesse a lungo termine (tra gennario e agosto 2012), ha determinato una diminuzione del valore della valuta di diversi paesi emergenti: Sud Africa -20%, India -17,2%, Brasile -17,4%, Russia -8,4%. Solo la Cina, con la sua enorme capacità produttiva e l'importanza delle sue esportazioni, ha resistito meglio al fenomeno. Tuttavia, questo paese ha aumentato la sua partecipazione ai buoni del Tesoro degli Stati Uniti, vale a dire, come detentore di debito degli Stati Uniti, passando da 1.268 miliardi di dollari di agosto 2013 a 1.293 miliardi a settembre dello stesso anno, ossia il 27,8% del totale della partecipazione straniera». A ciò si aggiunge la previsione secondo cui la Banca dei Brics «in pochi anni raggiungerà una capacità di finanziamento fino a 350 mld di dollari», costituendo dunque un potenziale futuro rischio ai danni della concorrente Banca Mondiale. (Fonte: Fuga dal Washington Consensus? Nasce la Banca dei Brics. di Chems Eddine Chitour, agosto 2014, da www.mondialisation.ca
(67) Geraldina Colotti, Brasile. Gli emergenti creano una nuova banca per lo sviluppo in alternativa all’Fmi” e “Brasile. È in corso il VI vertice dei paesi emergenti per la creazione di una nuova Banca di aiuti allo sviluppo”, in Il Manifesto, luglio 2014
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