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Home ›La chimera del “diritto al lavoro” (II parte)
Ovvero, la riduzione della giornata lavorativa a parità di salario (il “lavorare meno, lavorare tutti”): la grande chimera e il grande inganno dei riformisti “radicali”
Nella precedente puntata dimostravamo come il capitalista tragga il suo guadagno (altrimenti detto “profitto”) proprio appropriandosi delle merci prodotte dal tempo di lavoro eccedente quello necessario (ossia quello pagato al lavoratore per la sua sopravvivenza): quel tempo di “pluslavoro” che il capitalista non remunera al lavoratore. E come da ciò discenda l'impossibilità (o non convenienza) per lui di garantire a tutti il cosiddetto “diritto al lavoro” a piena remunerazione se non sulla carta (ossia come diritto formale e astratto da sbandierare sulle sue “sacre” carte costituzionali): e cioè solo se esso, negli angusti limiti della ricerca di profitto, possa garantirgli comunque un guadagno, che senza mezzi termini noi qualifichiamo come “parassitario”, perché ottenuto su lavoro altrui sottomesso (sfruttato) e non interamente remunerato e che non si traduce affatto nel possesso del prodotto (ma al contrario nella sua sottrazione) da parte del suo vero produttore (il lavoratore che lo produce). Da ciò deriva l'illusorietà e l'ingannevolezza della rivendicazione sindacal-radicale del “lavorare meno, lavorare tutti”.
Certo, in teoria sarebbe pensabile (o meglio “sognabile”) o auspicabile, ma di sicuro nella pratica e nella realtà si tratta di una mera astruseria, di una chimera, di un paradosso assolutamente irrealizzabile, di un vero e proprio suicidio dell’imprenditore. E non vogliamo qui pronunciarci circa la vera intenzione di una simile impossibile rivendicazione: se dettata da mera ignoranza o ingenuità o se invece dettata dalla necessità di prendere per i fondelli i lavoratori stessi, magari con la solita scusa che, senza le “abilità, le competenze manageriali e la bontà” del loro padrone, essi non avrebbero di che lavorare. Ci limitiamo per ora a dire che noi riteniamo che ai lavoratori si debba parlare sempre in modo chiaro, realistico e veritiero.
Con la premessa data, l’unica strada percorribile per il capitalista è dunque piuttosto la crescente precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro e cioè: magari ridurre sì le giornate lavorative remunerate (accettando per esempio – come infatti avviene - i famigerati “contratti di solidarietà”, con lavoratori a turnazione sui luoghi di lavoro per pochi giorni al mese) o le ore di lavoro giornaliere (per es. con contratti part-time), ma riducendo al tempo stesso i rispettivi salari e in entrambi i casi e al tempo stesso incrementando al massimo la produttività del lavoro, in modo da ottenere una maggiore quantità di merci nel minor tempo di lavoro “concesso”. Ricavando fra l’altro da ciò, in parecchi casi, l’ulteriore vantaggio di poter disporre di manodopera meno stanca (o affaticata), oltre che più docile perché più facilmente ricattabile. E infatti è esattamente ciò che sta avvenendo (non “inventiamo” davvero nulla).
Così lavorerebbero – certo! – in molti di più, ma con salari che non consentirebbero loro di arrivare neanche alla prima metà del mese. L’aumento di tasse e i tagli dello “stato sociale”, ad opera dello Stato, faranno il resto nell’erodere ulteriormente il già minore potere d’acquisto reale rimasto.
Ma si sa, il mal comune mezzo gaudio sembra essere la “filosofia” alla quale i nostri riformisti e sindacalisti più “radicali” (FIOM in testa!) si ispirano e in nome della quale ai lavoratori è insistentemente chiesto di accettare e metabolizzare - sotto il ricatto del “non lavoro”, o del licenziamento, o della delocalizzazione – di tutto e di più: maggiore sfruttamento a peggiori condizioni di sicurezza, a minori garanzie contrattuali, a minori salari, e poi precarietà, flessibilità, “solidarietà” - certamente! – ma … col padrone.
Di certo, con simili politiche si abbasserebbero i famigerati indici ufficiali di disoccupazione – come già avvenuto in Germania dopo la riforma del socialdemocratico Schroeder (cui Renzi – e non solo – ammicca da lungo tempo) – ma con quali drammatiche conseguenze per i lavoratori?! Questa: ricattabilità e accettazione di salari da fame per lavori saltuari, flessibili, in una parola “precari”!
Ecco perché il capitalista piuttosto punta, e non può che puntare, tutto sull’incremento di produttività del lavoro (intesa come maggiore estorsione di plusvalore, non di prodotti in sé) a parità (quando non a un livello inferiore) di salari, in modo da accrescere i suoi profitti.
Puntare su tale incremento è dunque per lui doppiamente necessario, diremmo un imperativo categorico impostogli dalle stesse leggi del capitale: _sul fronte competitività delle sue merci _rispetto ai concorrenti per poter sopravvivere alla sempre più feroce giungla capitalistica, ossia s_ul fronte dell’incremento dei suoi profitti_ (sia come massa che come quota percentuale sul capitale inizialmente investito nel ciclo produttivo).
Ma come egli può ottenere tale incremento di produttività?
Egli ha a disposizione sostanzialmente due metodi: o aumentare la durata della giornata lavorativa e incrementarne al massimo i ritmi produttivi (cosa che ha però un limite oggettivo – la durata temporale di 24 ore della giornata e la massima sopportabilità di fatica umana), oppure introdurre macchinari e razionalizzare l'organizzazione dei processi produttivi.
Nel secondo caso egli non avrà più necessità di impiegare e pagare lo stesso numero di lavoratori precedenti (ora affiancati da – o soggiogati a – macchinari che li rendono più produttivi e veloci) per ottenere la stessa o una maggiore quantità di merci, una parte dei quali gli risulterà perciò in eccedenza e verrà quindi espulsa, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Solitamente il capitalista, specie in periodi di crisi (originate dalla caduta tendenziale del saggio medio di profitto), adotta qualunque metodo che possa servire alla rianimazione del SMP: il contenimento o abbassamento dei salari reali, l’incremento dei ritmi, l'allungamento della giornata/periodo lavorativo, l'introduzione di macchinari e di processi di produzione sempre più automatizzati, che sfornano disoccupazione a man bassa.
Ecco dunque spiegato perché il “diritto al lavoro”– nel capitalismo – può essere “garantito a tutti”, si fa per dire, solo a condizione di precarietà, lavoro ridotto ma a salario ancora più ridotto e ipersfruttamento.
Perché parliamo di “sfruttamento” e di “parassita-capitalista”
Ecco perché noi comunisti parliamo del capitalista come di un vero e proprio parassita e parliamo di “sfruttamento” del lavoro nella sua forma “salariale” (capitalistica), denunciando non solo 1) la non retribuzione al lavoratore dell'intera giornata lavorativa e l’appropriazione di tale parte non remunerata da parte del parassita-capitalista, dunque 2) l’assoluta incompatibilità di interessi tra i due soggetti coinvolti nel processo produttivo (lavoratore e capitalista).
Per questo individuiamo in questo rapporto produttivo la contraddizione fondamentale del capitalismo e in esso indichiamo l’origine di ogni malfunzionamento prima (squilibri domanda-offerta sia per le merci-prodotto che per la speciale merce-forza lavoro), di ogni inceppamento (crisi), poi, del sistema stesso. Si dimostra così come l’unica possibile via d’uscita è il suo abbattimento radicale e necessariamente rivoluzionario.
Una produzione, quella capitalistica, finalizzata dunque non a soddisfare i bisogni degli esseri umani, ma esclusivamente a massimizzare e ingigantire quell'appropriazione di ricchezza sociale che sotto forma di profitti si concentra nelle mani di una sempre più ristretta parte della società.
La realissima prospettiva di una diversa organizzazione sociale: il vero comunismo
Nella realtà odierna, l’enorme sviluppo delle capacità tecnologiche e produttive sociali, unitamente alla disponibilità di un enorme numero di potenziali lavoratori, rende possibilissima e immediatamente attuabile una riduzione netta del tempo di lavoro sociale necessario, la quale si tradurrebbe in una quantità decisamente “più che sufficiente” di prodotto disponibile da “distribuire” a ciascuno secondo i suoi peculiari bisogni, non da “vendere e comprare”. Tale distribuzione avverrebbe, dunque, non tramite il mercato (la compravendita) ma in funzione delle diverse necessità di ciascuno (e nessuno è uguale all’altro: altro che “appiattimento”dell'uomo nel comunismo!). Ma tutto ciò è impossibile nel capitalismo, che proprio sul “tempo di pluslavoro” non pagato fonda l’intero dominio sociale borghese e dunque non può eliminare affatto quel plus di tempo di lavoro.
Tutto ciò è però realizzabile unicamente a condizione di eliminare il capitalismo e, con esso, il lavoro salariato e il parassita sociale che da questo trae il suo alimento condannando alla precarietà, alla progressiva miseria e alla disperazione milioni e milioni di proletari sull’intero pianeta.
Ecco perché l’unica via d’uscita da queste insanabili e drammatiche contraddizioni è scardinare dalla fondamenta il sistema capitalistico per sostituirlo con la vera organizzazione sociale comunista, con il vero socialismo. Che – non ci stancheremo di ripetere – non ha mai avuto ancora realizzazione in alcuna parte del pianeta, se non un unico glorioso tentativo prima vittorioso poi purtroppo sconfitto (la Rivoluzione d’Ottobre in Russia). Il motivo è facilmente comprensibile: la borghesia non molla facilmente il proprio dominio senza reagire, ma lavora quotidianamente per farci credere e accettare l’idea che al capitalismo non vi sia alternativa alcuna e che esso sia – malgrado le sue “imperfezioni” - l'unico e il migliore dei mondi possibili. Crediamo di aver già dimostrato a sufficienza che così non è affatto.
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