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Home ›La loro commemorazione della Prima Guerra Mondiale e la nostra
Ancora sulla Prima Guerra Mondiale. Pubblichiamo la traduzione di un articolo dei compagni della CWO sulle celebrazioni della borghesia relative a uno dei più grandi macelli della storia dell'umanità, innescato e prodotto dalla maturazione dei contrasti imperialistici tra i segmenti della borghesia europea e mondiale.
La Prima Guerra Mondiale scoppiò 100 anni fa, in questo mese. Iniziò con l'assassinio di un arciduca austriaco a Sarajevo il 28 giugno, ma all'Impero Asburgico ci volle un mese per invadere la Serbia. Nel giro di pochi giorni tutte le potenze d'Europa (tranne l'Italia) entrarono in guerra. L'assassinio di Sarajevo può però aver rappresentato la scintilla, non fu la causa della guerra.
Abbiamo già avuto centinaia di commenti borghesi sull'inizio della guerra. Quando non attribuiscono la colpa, come fa Paxman, alla Germania per aver attaccato “la Gran Bretagna democratica” (dove la larga maggioranza della classe lavoratrice non aveva diritto di voto), dicono che le cause della guerra sono “troppo complesse da capire”. Ciò perché essi guardano soltanto agli attori individuali e non alle forze reali che guidavano le loro azioni: non riescono a vedere il bosco perché sono troppo concentrati sugli alberi. E “il bosco” erano le rivalità imperialistiche che portarono tutti gli stati a prendere decisioni che condussero alla guerra. La Gran Bretagna, per esempio, voleva distruggere la flotta tedesca che minacciava l'Impero Inglese, “su cui non tramontava mai il sole”. L'invasione del Belgio fu il pretesto di cui aveva bisogno per dichiarare guerra alla Germania il 4 agosto, e di un vero pretesto si trattò: il “Piccolo e coraggioso Belgio” non era una vittima innocente, era una potenza imperialistica a pieno titolo. La tortura e la mutilazione per amputazione somministrate al popolo del Congo facilitavano la fornitura di gomma a buon mercato per le industrie inglesi.
Tuttavia possiamo essere d'accordo con i commentatori della classe dominante su una cosa: la guerra che scoppiò nel 1914 definì una nuova era del capitalismo. Si annunciava l'era dell'economia globale, iniziò un processo verso una più grande integrazione dell'economia mondiale, fu l'inizio dell'età dell'imperialismo: cambiò il mondo per sempre e mise fine ad ogni idea che il capitalismo fosse il migliore dei sistemi possibili. Le “guerre progressiste” appartenevano al passato: ora il capitalismo necessitava della guerra per sostenere il suo processo di accumulazione.
E uno dei motivi per cui la guerra scoppiò nel 1914, né prima né dopo, fu la paura della classe lavoratrice da parte della classe dominante. La stessa crisi che costrinse il capitalismo alla guerra imperialista produsse anche una risposta da parte del proletariato. Fin dall'inizio del secolo c'era stata una resistenza da parte dei lavoratori all'abbassamento dei salari e all'aumento della povertà di cui molti fecero esperienza. Il sindacalismo, l'anarco-sindacalismo e la socialdemocrazia si diffondevano in numerosi paesi dove si ebbero scioperi di massa e minacce di rovesciamento dell'ordine sociale. Il che quasi successe in Russia nel 1905.
Certamente in Gran Bretagna e in Russia alcune frazioni della classe dominante (Lloyd George, ad esempio) ritennero che una guerra avrebbe messo fine a questa minaccia: avrebbero potuto mobilitare il proletariato dietro la bandiera nazionale e farlo combattere per “il re e la patria”. Tuttavia i socialisti rivoluzionari confidavano che la borghesia non sarebbe riuscita a tanto: dopo tutto, nel 1907 e nel 1912 la Seconda Internazionale aveva votato due volte contro la guerra, dichiarando che a questa avrebbe risposto con la proclamazione dello sciopero generale; in Germania il partito più grande che la componeva, il Partito socialdemocratico tedesco, aveva dichiarato che si sarebbe attenuto a questo programma. Ma mentre la crisi bellica si avvicinava, nel 1914, i leader socialdemocratici informarono il Cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg che “non avrebbero abbandonato la patria” in caso di guerra. Questo accadde un mese prima dello scoppio del conflitto: quando fu l'ora, i socialdemocratici tedeschi votarono i crediti di guerra al Kaiser; ciò rimane il più grande tradimento nella storia del proletariato, che ancora oggi separa i rivoluzionari dai riformisti di tutte le paste. Ma la socialdemocrazia tedesca non fu l'unica a gettarsi tra le braccia del nemico di classe: in Francia il sindacato anarchico CGT decise di sostenere la guerra, in Russia il venerando anarchico Kropotkin passò dalla parte dello zar per salvare la “civiltà francese” dagli Unni. Presi in mezzo a quest'orgia di patriottismo, i lavoratori se ne andarono con allegrezza a massacrarsi reciprocamente. Fu guerra di classe, benché sotto un altro nome, e i capitalisti vinsero quella battaglia.
Ma ci fu un'opposizione alla guerra. Sin dall'inizio i partiti socialisti serbo, bulgaro e soprattutto quello bolscevico russo rifiutarono di seguire la marea. Per essi l'opposizione pacifista alla guerra imperialista non era più sufficiente, Lenin fu il primo a riconoscerlo. Per lo slogan “trasformare la guerra imperialista in guerra civile” fu deriso, nel 1914, ma gettò le basi di un movimento rivoluzionario, una volta che il fascino dell'idea della guerra fu spazzato via dalla sua orribile realtà. Non fu un caso che lo slogan “Basta guerra!” fosse sugli striscioni dei primi scioperanti a Pietrogrado nel 1917. E alla fine fu la rivoluzione proletaria che causò la fine della guerra imperialista. Esplose in Russia nel 1917 ma ve ne furono segnali più o meno ovunque, dal Clydeside “rosso” alle fabbriche di Torino e persino sul fronte occidentale dove i soldati delle diverse nazioni iniziarono ad ammutinarsi.
Quando i bolscevichi presero il potere nel novembre 1917, pubblicarono i trattati segreti dell'Intesa, mostrandone gli intenti predatori. Emanarono anche un decreto sulla pace che non fu solo simbolico: era una sfida alle potenze imperialiste e un appello ai lavoratori di tutto il mondo. Il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson accettò questa sfida rendendo pubblici nel gennaio 1918 i suoi 14 punti, che promettevano una pace “giusta e durevole”. Ma i guerrafondai imperialisti continuarono a combattere ugualmente.
Fu soltanto nel novembre del 1918, quando i marinai di Kiel e Wilhelmshaven si ammutinarono e si unirono alla gente delle città per dar vita a consigli dei lavoratori, che la partita era finita per l'impero tedesco. Il 9 novembre il Kaiser abdicò e due giorni dopo fu firmato un armistizio. Il quale non pose termine alla guerra: significò semplicemente che tutta la forza dell'imperialismo internazionale poteva ora essere riversata sulla Russia sovietica. E la Russia sovietica, come tutti sapevano, poteva essere salvata solamente dalla rivoluzione tedesca. Sfortunatamente la rivolta spartachista deflagrò prematuramente nel gennaio 1919, quando (come Rosa Luxemburg sapeva benissimo) troppo poco era stato fatto per prepararne i lavoratori. Una volta ancora il partito socialdemocratico tedesco arrivò alla riscossa della “patria”: la famigerata telefonata di Ebert, leader della SPD, diede il via libera alla formazione dei Freikorps (in buona parte costituiti da ufficiali dell'esercito tedesco che tornavano dal fronte dopo l'armistizio con i loro uomini completamente armati). Questi, precursori dei nazisti, furono sguinzagliati contro i comunisti. La sconfitta dei quali, con le morti della Luxemburg e Liebknecht, segnò la fine della prospettiva di una prima rivoluzione tedesca e in ultima istanza spianò la strada alla classe capitalista internazionale nel resistere all'intera ondata rivoluzionaria che durò per anni dopo la guerra: da quella volta, essa non ha più affrontato una sfida altrettanto minacciosa da parte del proletariato.
Ma le contraddizioni capitalistiche non scompaiono. La costante necessità di sfruttare la classe lavoratrice significa che la pace sociale può anche durare a lungo, ma inevitabilmente il proletariato è spinto a rispondere agli attacchi che il sistema gli infligge. La borghesia di tutto il mondo è alle prese con la crisi globale. La sua risposta, ovunque, è di giocare la carta nazionalista: quando non può usare eventi sportivi come i Giochi Olimpici o la Coppa del Mondo di calcio, usa gli anniversari di eventi quali la Prima Guerra Mondiale per creare una narrazione nazionalista, ognuno la sua propria. Le bugie che racconta (ad esempio di una guerra per la democrazia) sono parte della stessa guerra di classe che condusse nel 1914: nazione contro classe, i termini della lotta non sono cambiati. E col sistema in crisi stiamo una volta ancora assistendo al montare di tensioni imperialistiche. Dall'Est Europa attraverso il Medio Oriente e l'Asia Centrale sino al Mar Cinese Meridionale i confronti di questo tipo aumentano; su tutto il pianeta si combattono ancora conflitti scoppiati decenni fa. Dietro ad ognuno di essi sta la spinta verso le risorse marginali di un mondo capitalista sempre più disperato.
In Gran Bretagna la generazione più giovane non si ricorderà di come i concetti di “bandiere al vento” e nazionalismo venissero derisi prima del 1982. Con la guerra delle Falkland abbiamo assistito ad una crescita dello sciovinismo, del razzismo e della promozione del militarismo: sono state fondate associazioni di carità come Help for Heroes (dove gli “eroi” altro non sono che assassini mercenari addestrati) e il Poppy Day, da associazione insignificante che era, è assurto a godere di promozione nazionale a cui ci si oppone a proprio rischio. Ironicamente la “commemorazione” dell'inizio della Prima Guerra Mondiale nel Regno Unito avrà luogo a Glasgow alla conclusione dei Giochi del Commonwealth, il 4 agosto. Fu a Glasgow, cuore del Clydeside “rosso”, che John Maclean nell'agosto 1914 fu il primo uomo a pronunciare un pubblico appello di resistenza alla guerra, e fu anche il primo ad essere incarcerato per via del DORA (Decreto per la Difesa del Regno) a causa dei suoi discorsi contro la guerra, nel settembre 1915 Ecco ciò che i rivoluzionari commemoreranno.
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