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Home ›Porte aperte alla libera attività imprenditoriale
Un ritorno al vero liberalismo reclamerebbe – scrivono gli… opinionisti – un “basta!” alle scelte depressive e una “giusta equità economica”. A cominciare da una “liberalizzazione dei licenziamenti”, rispettando il pensiero razionalistico-liberale incentrato sul primato del soggetto-individuo in lotta per l’affermazione dei propri diritti, a conferma di una processo sociale unicamente visto e interpretato come una continua atomizzazione sociale.
A chi trova tempo per sfogliare il Corsera capita di incontrare i pensieri di un Ostellino scalpitante, in forza della sua “teoria empirica della conoscenza”, e più che mai convinto che “tante verità siano disperse fra milioni di uomini che, perseguendo i propri interessi (privati – ndr) realizzano inconsapevolmente un beneficio comune”. Recentemente, Ostellino ha confidato di essere “relativamente ben pagato” nell'esternare le sue opinioni. Si considera al servizio di un Paese sofferente di mali che lui – “liberale integrale, grazie a cinquant'anni di letture dei classici del liberalismo” – cerca di “esaminare in punta di sociologia, di storia del pensiero liberale, di filosofia del diritto e di dottrina dello stato”. Un altro premio Nobel mancato, dopo un Brunetta che si riteneva escluso “per ragioni politiche” dal Nobel di economia…
In tema di verità ideali da diffondere fra il pubblico pagante, troviamo un M. Riva (Repubblica) che sul mercato “chiuso e asfittico” alza il lacero vessillo della libera competizione. Rimpiangendo persino i bei tempi di un ventennio (1945-’65) capace di generare “futuro e progresso” al nostrano capitale, grazie alla “passione per il lavoro” dimostrata allora dai proletari, stimolati dai “consigli” di Togliatti per la ricostruzione del Paese. Allora in adorazione di un mistificato marxismo-leninismo che la chiesa di Mosca esibiva mentre lo Stato (URSS) ufficialmente lo diffondeva incarnandolo e proclamando con Stalin che altro non si doveva fare se non raccogliere le bandiere delle libertà borghesi dalla borghesia stessa gettate nel fango…
Fatte le debite differenze (nello spessore del pensiero) si può risalire a quel Gramsci che, affinché il proletariato italiano si costituisse in classe egemone per orientare le forze produttive secondo proprie finalità e interessi, pensava ad un potere politico relativamente autonomo, in concorrenza con quello esistente e all’interno dello Stato borghese e del capitalismo dominante. Al partito “comunista” spettava il compito di farsi promotore di una "riforma morale e intellettuale" della intera società. Ricercando non alleanze transitorie, bensì un vero blocco storico con rapporti organicamente costruiti….
Più “realisticamente”, oggi si tratterebbe di assicurare (rispettando i canoni della giustizia sociale!) un equo profitto agli imprenditori per nuovi investimenti, aumentando la produttività e quindi le vendite di merci: p.e. elettrodomestici, telefonini e auto in quantità e svariati modelli. Tempi felici (nel 1959 i disoccupati erano “appena” un milione), e indicherebbero la strada da percorrere: un’alta efficienza produttiva per rilanciare sviluppo e accumulazione di capitale. Con più esportazioni di merci grazie ad un “contenuto costo del lavoro”. Ai giovani ricordiamo la “linea politica, tattica e strategica” sulla quale marciava il “Partito nuovo” di Togliatti, dopo aver eliminato dalle sue fila ogni minima dissidenza specie se ispirata ai “cani rognosi seguaci di Bordiga e Trotski”. In alto sventolavano i vessilli della “ricostruzione del Paese per permettere ai lavoratori di partecipare alla direzione dello Stato (borghese – ndr) e alla creazione di un regime democratico nuovo e progressivo”. (Togliatti, Due anni di lotta dei comunisti italiani). Sostenendo quindi la partecipazione del Pci al Governo: lo esigeva il “comune interesse nazionale”, portando in verità alle sue estreme conseguenze i deliberati gramsciani del Congresso di Lione 1926, dopo l’avvenuta defenestrazione della Sinistra dal PCI.
Sepolto Togliatti, si cominciò ad ammettere un “eccesso di fiducia” riposto nelle masse proletarie e riguardante i possibili (ma, per il Pci, “sicuri”) risultati elettorali al seguito della politica di responsabilità nazionale e di abbraccio coi ceti piccoli (e grandi) della borghesia. Il Migliore si prodigò invano nella rivendicazione della “imprescindibile necessità di una trasformazione sociale profonda”, di cui “noi, i socialisti e i democratici avanzati, fummo gli iniziatori e i dirigenti”. (Togliatti nel 1958: Il partito comunista italiano)
I democratici ringraziarono successivamente il Pci per i principi e le prospettive che Togliatti aveva steso, come un tappeto di velluto, dinanzi allo sviluppo del risorto capitalismo nazionale. Già in La nostra ideologia (Unità, 23-9-1925) chiaramente le vie politiche enunciate anticipavano l'uscita dalla via maestra del marxismo rivoluzionario. Ed è proprio in base a quanto scriveva fin da allora, che Togliatti potrà dire successivamente: “Noi veniamo da lontano”…
Nessuna meraviglia se oggi un “cronista economico” come M. Pirani (intellettuale e funzionario del Pci dal 1945 al ’61, ben 5 anni dopo la tragedia ungherese e oggi editorialista di Repubblica) fa credito al Pci di un’opera di “grande pedagogia politica e organizzazione democratica” (Poteva andare peggio – Mondadori). In seguito con la pratica delle capriole in voga fra l'intellighenzia borghese, denuncerà “l’orgoglio luciferino di una confraternita chiamata a trasformare l’Italia e il mondo”. Ma oggi ritorna ad accarezzare le “idee di programmazione dell’economia e della finanza”… Gli fa eco persino – tenetevi forte – uno Slai Cobas come quello della fu Alfa Romeo, che a suo tempo coltivava le illusioni (dure a morire) di “piani che salvaguardino l’occupazione e le fabbriche”.
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