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Home ›Siria: un punto di vista internazionalista
Fonte: pane-rose.it - Ringraziamo il redattore del Pane e le Rose per la puntuale recensione dell'incontro.
Venerdì 8 novembre, presso la sede di via Efeso 2/a Roma, si è tenuta l'iniziativa Siria: la tragedia continua, organizzata dal Partito Comunista Internazionalista, importante espressione della corrente della sinistra comunista in Italia, che ha i suoi organi di stampa in Battaglia Comunista e nella rivista di approfondimento teorico Prometeo.
L'iniziativa si è incentrata su un'ampia relazione di Fabio Damen, cui sono seguiti interventi e domande.
Il punto di partenza del discorso di D. è stata la constatazione del calo di attenzione nei confronti delle vicende siriane, una volta che il regime di Bashar al-Assad ha accettato lo smantellamento delle armi chimiche a sua disposizione, facendo rientrare il pericolo di un attacco franco-statunitense.
A questo proposito, si è specificato che si ritiene che il problema delle armi chimiche sia in realtà una mistificazione e per due precise ragioni. La prima è che non è chiaro chi le abbia usate: la scorsa primavera, Carla del Ponte, in qualità di membro della Commissione sulla violazione dei diritti umani in Siria, pur non fornendo certezze assolute al riguardo, sostenne che gli indizi a disposizione spingevano piuttosto a puntare l'indice contro alcune fazioni armate ribelli.
La seconda ragione, più importante della prima, riguarda il pulpito da cui viene la predica. Non dovrebbero poter usare questo argomento per giustificare minacce militari, quegli States che hanno impiegato il napalm e i defoglianti in Vietnam, o il fosforo bianco in Iraq.
Dunque, è certo che il tema sia stato agitato in maniera strumentale, ma per quali motivazioni reali?
Il peso economico della Siria è scarso: il suo PIL è di poco superiore a quello dell'area Abruzzo-Molise. La sua industria manifatturiera non ha avuto un particolare sviluppo e le stesse disponibilità petrolifere sono limitate.
Eppure, potenze regionali e globali continuano a soffiare sul fuoco della guerra civile che insanguina il paese da due anni e passa. Sulla sua genesi, il relatore non si è soffermato, affermando di non ritenere dirimente la scelta fra le due opzioni interpretative più diffuse. Quella, da noi ripresa quando siamo intervenuti, che rinvia ad una rivolta spontanea portata su un binario sbagliato dalle ingerenze esterne. E quella - che consideriamo lontana da una lettura materialistica della realtà - secondo cui la sollevazione sarebbe stata sobillata da fuori sin dal principio.
D., al contrario di noi, non esclude tassativamente la seconda ipotesi, ma in ogni caso la scelta fra l'una o l'altra lettura non risulta decisiva nell'economia del suo discorso.
A differenza che in altri casi, il fatto che poco o nulla sia concesso alla rivolta siriana, non implica un giudizio positivo su quel regime degli Assad che, dal 1971 ad oggi, si è sempre caratterizzato per le feroci pratiche repressive. Si tratta di una repubblica presidenziale che, per certi versi - tra cui la trasmissione ereditaria del potere - risulta prossima ad una monarchia assoluta, per giunta segnata da una pesante connotazione clanica.
Ad essa, però, si contrappone oggi una lotta armata in cui il jihadismo sunnita ha nettamente preso il sopravvento, con diverse formazioni che si ispirano alla guerriglia contro i sovietici nell'Afghanistan degli anni '80 del secolo scorso o che traggono esplicitamente esempio dalle pratiche di Al Qaeda (nella corposa galassia in questione, vengono segnalate in particolare due realtà: Jabat Al-Nusra e lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante). Peraltro, molti jihadisti sono stati fatti venire da vari stati islamici, secondo un modello che, inaugurato nel citato Afghanistan, si è poi riproposto, in piccolo, nella ex Jugoslavia in via di smembramento.
Dunque, quello che è in corso sarebbe anzitutto lo scontro tra un regime dispotico e un composito fronte islamico ultra-reazionario.
Un conflitto in cui intervengono appunto, vari attori esterni, portatori di disegni fra loro contrastanti.
L'Iran, ad esempio: un paese che da lungo tempo è sotto embargo e che ha quindi difficoltà ad uscire dal Golfo Persico. Il suo intento è costruire una pipeline fino alla Siria, così da riuscire ad affacciarsi sul Mediterraneo, definendo un sicuro trampolino commerciale per il proprio petrolio verso l'Europa.
Di qui, il sostegno pieno - anche in termini militari - a Bashar al-Assad.
Dall'altra parte, vi sono le monarchie del Golfo, come l'Arabia Saudita e il Qatar, che portano avanti progetti di egemonia nell'area attraverso un impiego massiccio dei petrodollari e che sono in contrasto con Teheran. Ognuno dei due paesi sostiene, nel conflitto siriano, la sua componente di fiducia nell'ambito dell'islam politico.
A un livello superiore agiscono altri attori. In primo luogo, la Russia, che ha molto risentito della dissoluzione della Jugoslavia, importante partner, intensificando di conseguenza i tradizionali rapporti con la Siria per non perdere il suo ultimo avamposto nel Mediterraneo. Un avamposto che significa prima di tutto due porti fondamentali per l'interesse imperialistico russo: Tartous, a destinazione militare, e Latakia, rilevante terminale petrolifero.
Per questo, Putin ha sempre difeso Assad e, nell'ottica di evitare ogni attacco esterno, lo ha convinto ad accettare la soluzione voluta dalla "comunità internazionale" riguardo all'arsenale chimico siriano.
Peraltro, proprio il fatto che l'intervento militare sia rientrato, segna una temporanea ma significativa vittoria politico-diplomatica di Mosca.
Ma per gli Stati Uniti, l'obiettivo di fondo rimane invariato. Arginare ed isolare la Russia è un elemento centrale della politica estera americana. Dunque, magari con mezzi diversi dall'intervento militare diretto, Washington continuerà a perseguire l'obiettivo di sottrarre allo Stato rivale l'ultima sponda nel Mediterraneo.
In questo quadro, D. si è soffermato sulla peculiare posizione della Turchia. La quale, negli ultimissimi anni, pur essendo alleata degli Stati Uniti e membro della NATO, ha perseguito anche interessi confliggenti con questo schieramento geopolitico. Si pensi, in tal senso, alle contraddizioni con Israele (che assaltò la Mavi Marmara, provocando vittime turche), che possono collidere col disegno americano di fare proprio di questi due paesi i principali pilastri del controllo militare dell'area mediorientale.
In più, nel 2009 la Turchia ha sottoscritto con la Russia un trattato relativo al progetto South Stream (concernente cioè il gasdotto che dovrebbe connettere direttamente Russia ed Unione Europea), permettendo l'attraversamento delle proprie acque territoriali nel Mar Nero.
Il punto è che Erdogan mira a fare del paese che governa il principale hub degli idrocarburi del Mediterraneo. In quest'ottica, la piccola Siria è vista come una pericolosa concorrente. Perciò, pur in buone relazioni con la Russia, la Turchia non esita ad usare tutti i mezzi necessari affinché il regime di Assad cada.
Dunque, diventa pienamente chiaro perché un paese in sé non particolarmente ricco di risorse come la Siria, si trovi al centro d'un vero e proprio scontro mondiale, giocato sulla pelle d'una popolazione esausta (circa 120000 morti e due milioni di profughi).
Meno evidenti possono essere i motivi della rinuncia statunitense ad un intervento militare annunciato solennemente. Secondo D., ha pesato l'esplicità volontà della Russia di non stare con le mani in mano in caso di bombardamenti sulla Siria. Del resto, un atteggiamento poco remissivo sarebbe stato probabilmente adottato, in tale circostanza, anche dalla Cina.
Non è chiaro quali forme avrebbe potuto assumere questa contrapposizione, ma si sarebbe trattato di un'accelerazione della latente tendenza al conflitto tra potenze difficilmente sostenibile, nell'immediato, dagli USA. Che sono alle prese con cospicui problemi interni, legati al fatto che alcune promesse di Obama non hanno avuto riscontri pratici. Per dire, il famoso "abbandono dell'economia di carta", da sempre sbandierato ai quattro venti, cozza con il dato degli 85 miliardi di dollari che ancora vengono versati ogni mese alle banche.
In sede di dibattito, ci siamo permessi di integrare queste condivisibili osservazioni con un altro elemento: le perplessità dei generali americani nei confronti delle forti componenti jihadiste presenti tra chi combatte Assad armi in pugno. Si tratta di settori che l'establishment bellico statunitense non considera totalmente "gestibili"ai propri fini e che ritiene rischioso far vincere completamente (infatti, uno dei suoi obiettivi attuali è quello di riequilibrare i rapporti di forza all'interno dei ribelli in favore di componenti a un tempo più "presentabili" e malleabili).
Durante il dibattito, un compagno del PCL ha posto al relatore un'ipotesi di scuola, per meglio comprenderne il discorso di fondo.
Nel caso vi fossero in Siria militanti legati alla vostra corrente internazionalista e questo paese fosse veramente attaccato da Stati Uniti e alleati, quale linea di condotta dovrebbero assumere costoro?.
La risposta è stata che il loro compito sarebbe quello di organizzarsi contro l'imperialismo americano e le sue quinte colonne ma anche contro Assad e i suoi sostenitori esterni. Perché il proletariato deve trovare il modo di giocare una partita autonoma, evitando di allinearsi alla propria borghesia interna e di lasciarsi irretire in uno scontro tra potenze nel quale non potrebbe difendere i propri interessi né storici né immediati.
La risposta non ha soddisfatto il compagno del Pcl, che ha sostenuto che - rimanendo l'obiettivo di regolare al più presto i conti col regime - gli sforzi, in quella circostanza, dovrebbero essere tesi anzitutto a respingere l'aggressione imperialista.
Ora, pur non negandone in assoluto la validità, riteniamo che i dibattiti sulle "ipotesi di scuola" abbiano dei limiti.
Registriamo però due dati. Il primo è che le opzioni che in questo caso si sono confrontate, partono comunque dal presupposto della tutela dell'indipendenza di classe del proletariato, che però traducono in forme diverse.
Questo tema è largamente fuori dal dibattito odierno, nonostante in un'ottica comunista sia storicamente centrale, tanto da essersi proposto, in passato, anche nei rapporti con borghesie che avevano una funzione "progressiva".
In secondo luogo, il "senso profondo" delle affermazioni di D. al riguardo va reperito in altre sue considerazioni emerse nel corso della iniziativa.
Egli ha in particolare accennato ai nessi tra guerra e crisi economica. Per uscire dalla quale, risultando essa legata alla progressiva erosione del saggio di profitto, il modo di produzione dominante ha due strade. La prima è una sempre maggiore pressione sulla forza-lavoro ("meno la paghi, più la ricatti, più guadagni"). La seconda è la distruzione della maggior quantità di capitale possibile per far partire un nuovo ciclo di accumulazione. E non c'è strumento migliore per ottenere un simile risultato che la guerra, come testimonia quel secondo conflitto mondiale che - assai più del New Deal roosveltiano - fu la strada capitalistica per il superamento della gigantesca crisi partita nel 1929.
Dunque, al di là di eventuali stop momentanei (che non mutano un quadro di sostanziale scontro fra gli imperialismi) vi è una indiscutibile tendenza alla guerra, che avrà varie manifestazioni nei prossimi anni. Accettare la logica dello schieramento in uno dei campi contrapposti, potrebbe voler dire, per il proletariato, non solo rinunciare a difendere realmente i propri interessi, ma addirittura accettare un ruolo da vera e propria "carne da macello".
Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma, 2013-11-11Inizia da qui...
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