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Home ›Il destino segnato dei pesci piccoli, e la loro miopia
I primi a sparire, durante le crisi cicliche strutturali del capitalismo (come questa che stiamo vivendo, per certi versi paragonabile a quella degli anni '30) sono i pesci piccoli. I grandi cartelli, le grande aziende e imprese, rischiano molto meno. Svendono, si fondono tra loro, delocalizzano, sfruttano una capacità produttiva maggiore e una tecnologia più avanzata per sopperire alla carenza di profitti (un cane che si morde la coda, comunque), ecc... Mentre i piccoli imprenditori, che formano una parte del tessuto produttivo italiano, sono al contrario destinati a perire, e ad andare a ingrassare le fila delle classi alla base della piramide, a far aumentare i salariati, i precari, i disoccupati (quello che si può chiamare per semplicità "proletariato").
Ma se parliamo con uno di questi piccoli imprenditori sotto scacco, non notiamo una comprensione reale del funzionamento di questo sistema economico, ma solo un guardare al proprio giardinetto. Il piccolo imprenditore italiano, in genere, non vede al di là del proprio naso, e al massimo si lamenta perché lo Stato è troppo presente, perché è troppo tassato, c'è troppa burocrazia, e via dicendo. Ciò è vero, ma è solo una minima parte del problema, il nocciolo duro della questione è altrove, e lo troviamo anzitutto iniziando a vedere la forza-lavoro come una merce come qualsiasi altra: chi la acquista a meno, e riesce a spremerla di più, vince. Inoltre la tendenza stessa di questo sistema volge verso una polarizzazione della società: da una parte chi ha tutto, dall'altra chi ha poco e niente (il ceto medio tende a svanire).
Il piccolo imprenditore dunque al massimo si lamenta della pesante mano statale. Invoca la libertà per la propria azienda. Ma cos'è questa libertà? E' la libertà di fare profitti a scapito di altre aziende, perché la panzana dell'equilibrio della concorrenza è appunto una panzana, non può esistere equilibrio in un sistema anarchico come il capitalismo. È la libertà di poter spremere come dei limoni i lavoratori.
Inoltre, e questa è spesso un'arma sfoderata da chi non vuole che questo sistema venga toccato, il capitalismo poggia le proprie fondamenta sul fomento dell'egoismo. Chi invoca la libertà di fare profitti non tiene in considerazione questo: le spinte oggettive di questo sistema verso la polarizzazione (descritte perfettamente da Marx, in primis) vengono accompagnate da una tensione verso l'egoismo. Ma attenzione: l'essere umano non nasce egoista, è questo sistema che fomenta tale aspetto.
Così come il piccolo e il grande imprenditore/azionista vogliono sempre maggiori dividendi per la propria azienda, così pure il lavoratore stipendiato o a partita iva vuole uno stipendio sempre più corposo, magari di poco, ma in costante tensione verso l'alto, per una tranquillità personale? Tutti e due, lo sfruttatore e lo sfruttato non capiscono che il fine ultimo di questo sistema è il profitto. Quindi, così come il piccolo imprenditore quando viene schiacciato dalla concorrenza invoca meno Stato, la chiusura delle frontiere per le merci estere (specie quelle cinesi) salvo poi però voler esportare le proprie, o magari un ritorno "ai bei tempi" come se si potesse far girare indietro la ruota del tempo... Così pure il lavoratore, quando perde il lavoro (per le cause di cui sopra), si mette – intimorito e sotto le spinte dei sindacati – ad elemosinare una cassa integrazione, un contratto di solidarietà, qualcosa insomma pur di non stare a casa. Cambia paese, al massimo.
Uno insomma non sa perdere mentre gioca al grande gioco capitalistico della corsa al profitto, e si lamenta perché il gioco è "truccato" (il pesce grosso e più “furbo” mangia quello piccolo e “sprovveduto”, e non si può chiedere al capitalismo, di suo anarchico e fondato sui "trucchi", di essere giusto), l'altro non riesce a rompere le proprie catene e con l’acqua alla gola “chiede”, paradossalmente, di continuare ad essere sfruttato.
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