Siria: l'agonia continuerà

Un punto di svolta imperialistico?

Nelle ultime due settimane abbiamo assistito a dimostrazioni di debolezza da parte dei vari blocchi imperialistici. Un voto buttato nel Parlamento Inglese da parte della coalizione ConDem, un ripensamento della volontà di vendetta in favore del ritorno del Congresso, il Papa che chiede di non intervenire e persino Putin che afferma di aver tagliato i rifornimenti al regime di Assad per i pezzi di ricambio dei missili S-300; tutti dunque dimostrano come fra i padroni dell'universo regni uno strano livello di confusione. Nessuna di queste “sofferenze” è però comparabile con quella che la popolazione siriana è costretta a convivere da più di un due anni e mezzo. Più di 100.000 sono morti e più di 6 milioni sono andati a ingrassare le file dei rifugiati, dei quali 2 già ufficialmente nei campi Onu dislocati in Turchia, Giordania, Iraq e Libano. Questo dimostra quanto la “linea rossa” posta da Obama riguardo all'uso di armi chimiche sia arbitraria. Secondo le notizie circolanti in questi giorni, pare che al massimo siano morte 1400 persone (la stima più attendibile recita 400) in questo modo orrendo. E tuttavia esse sono una briciola in confronto alla crisi umanitaria che congestiona la Siria da marzo 2011.

E non lasciamoci distrarre dalle supposte “motivazioni umanitarie” portate avanti da coloro che inneggiano all'attacco contro il regime di Assad. Gli USA, essendo l'unica superpotenza oggi in grado di devastare intere città con le bombe nucleari, non lesinò l'utilizzo di armi chimiche in Vietnam (dove del napalm e dell'Agente Arancio c'è ancora traccia). Ancor più recentemente, gli USA tramarono insieme a Saddam Hussein circa l'utilizzo del gas sarin contro i militari di leva iraniani avvisandoli riguardo a un imminente attacco. Il Pentagono sapeva che stavano tramando un attacco chimico contro gli iraniani. Come riferì un militare USA: “Non c'era bisogno che ci dicesse che avrebbe usato il gas. Lo sapevamo già”. [cfr. foreignpolicy.com per tutta la vicenda].

In Inghilterra la situazione è un po' più complessa, poiché l'ombra delle menzogne proferite da Blair per ottenere il voto riguardo alla guerra in Iraq si allunga pesantemente a screditarne il sistema politico. Come risposta alla più grande protesta di massa mai vista nel Regno Unito (15 febbraio 2003), la Camera dei Comuni rispose con un falso dossier di Blair dove si sosteneva che Saddam Hussein avesse “armi di distruzione di massa” e votò per la guerra. Ora, non solo di queste armi non v'era traccia, ma le ripercussioni che si ebbero in Medio Oriente per via della guerra e l'aumento degli attacchi terroristici in Gran Bretagna hanno fatto sì che la nostra classe dominante abbia ben compreso le conseguenze che porterebbe immischiarsi nella questione siriana. Gli oppositori della guerra stanno via via prendendosi il merito per il rifiuto di Cameron riguardo alla mozione per entrare in guerra, ma in realtà i membri del Parlamento inglese hanno basato il loro voto sondando ciò che avrebbe fatto il loro corpo elettorale, scoprendo che ci sarebbe stato ancor meno supporto per un attacco in Siria rispetto alle avventure irachene o afghane. Persino l'ex generale (ora Barone) Richard Dannatt (in precedenza consigliere militare del partito conservatore) si è espresso contro la guerra, portando avanti come motivazione il fatto che non dovremmo inviare le “nostre truppe” là dove non interessa nulla alla popolazione inglese.

Il conflitto si amplifica

No, il motivo che si cela dietro il temporeggiamento delle classi dominanti occidentali è sempre lo stesso. Come calcolare con precisione i loro vasti interessi? Circa l'Iraq e l'Afghanistan, la cosa era molto più chiara. Non si trattava solo di domare un “nido di vipere” in Afghanistan (le cui uova erano state deposte dalla CIA durante la guerra antisovietica), ma anche di riprendere il controllo del mercato del petrolio e così mantenere il dollaro come valuta globale dominante (in merito, cfr. leftcom.org, ma ce ne sono molti altri). Mentre gli USA (e il loro alleato, Israele) erano piuttosto felici nel vedere il regime di Assad ritirarsi dal Libano (dove ancora agisce come testa di ponte per gli aiuti iraniani verso Hezbollah) e persino il rovesciamento del governo di Damasco: la prospettiva di trovarsi di fronte ad altro caos e ad un altro punto di appoggio per l'emergente fondamentalismo islamico, ha lasciato spazio a una pausa di riflessione. Le guerre di Bush per il petrolio (così come l'intervento in Libia per gli stessi motivi, siccome da allora lo stato è virtualmente collassato) non hanno generato i risultati di cui l'imperialismo USA aveva bisogno, e far mettere piede ad essi in qualsiasi area è oggi considerato piuttosto pericoloso se non controproducente (per quanto le perdite USA siano sempre state relativamente piccole: meno di quelle morte per suicidio o incidente). Questo dilemma ha, in parte, infiammato il dibattito all'interno della classe dominante USA. Mentre il governo Obama da due anni porta avanti la “Posizione di Metternich” sulla Siria, ossia quella di ignorare l'escalation di violenza e “lasciarli bruciare ben al di là del comune sentire umano”, altri (incluso il vecchio Segretario di Stato Hillary Clinton, il capo della CIA Petraeus e il Segretario della Difesa Panetta) addussero che lasciare il Qatar e l'Arabia Saudita liberi di armare i gruppi islamici significherebbe che, qualunque sia il risultato dello scontro, emergerebbe una qualche forma di regime islamico anti USA. Seguendo questo consiglio, Obama ha accettato di mandare piccole armate contro le forze di opposizione più laiche ma, ancora sottolineando l'odierna paralisi, nessuna forza è mai arrivata. L'estemporanea promessa elettorale di Obama dell'anno scorso riguardo al fatto che, se Assad avesse usato armi chimiche essa sarebbe stata una “linea rossa”, era da intendersi come una maniera di azzittire le critiche interne e dare un avvertimento ad Assad. Tale promessa è poi tornata a turbargli i sonni quando il suo nuovo Segretario di Stato, John Kerry, ha annunciato che gli USA hanno informazioni attendibili riguardo all'uso di gas sarin da parte del Governo di Assad il 21 agosto scorso. Kerry, che salì agli onori delle cronache nel 1971 come il “veterano” che testimoniò di fronte al Congresso in merito agli stupri, omicidi e mutilazioni di civili in Vietnam da parte dell'Esercito USA, e richiesto il ritiro delle armate perché non c'era nulla in quel paese che minacciasse i vitali interessi statunitensi, è ora il primo fra i guerrafondai. La strategia di Obama per uscire dall'impasse è stata quella di porre la questione al Congresso, il quale non era neanche attivo al momento della richiesta. Mentre Cameron ha sbrigativamente tentato di far passare un risoluzione all'azione attraverso la Camera dei Comuni (perdendo in modo umiliante), Obama ancora una volta ha prevaricato ancora una volta ignorando molti dei suoi colleghi di partito favorevoli a un'azione. Per decenni i presidenti USA hanno portato avanti con la forza il loro diritto di dichiarare guerra senza l'approvazione del Congresso, ma ora Obama trova maggiormente utile non assumersi tale responsabilità. Le divergenze di opinioni insite nelle classi dominanti USA sono profonde. I falchi continuano a ripetere che la vera questione da porsi riguarda la “linea rossa” riguardo l'Iran e le sue possibili armi nucleari e che se non si prende nessuna decisione in merito, allora tutta l'impotenza degli USA risulterà ben chiara o, per come la pongono loro, ne minerà la “credibilità”. Con aria minacciosa, i loro discorsi terminano sempre con l'asserzione riguardo il loro appoggio incondizionato a Israele.

Israele, da parte sua, avrebbe fatto volentieri a meno della primavera araba. Dopo tutto, il risultato di tutte le guerre, dal 1948 in poi, è stato quello di circondarsi di dittatori arabi con cui, in un modo o nell'altro, fare affari. O almeno, come nel caso della Siria, non disposti ad affrontare Israele a testa alta. Ma la caduta di Mubarak e l'impegno attivo delle monarchie reazionarie della penisola arabica e del Golfo Persico a sostegno di vari gruppi islamisti anti-israeliani ha ampliato la cerchia dei nemici di Israele. Al momento sono troppo deboli e troppo divisi per costituire una vera minaccia, ma la situazione è attentamente monitorata dai servizi segreti israeliani. Israele non ha mai tardato ad agire, quando si è trattato di un intervento contro Hezbollah, e recentemente ha bombardato più volte il territorio siriano contro le forze di Hezbollah.

E poi c'è la Turchia. Erdogan continua a criticare l'Occidente sia per l'incapacità di agire contro Assad, che per l'acquiescenza alla rimozione dell'islamista Morsi, uscito vincitore dalle elezioni in Egitto [Cfr. leftcom.org]. In un primo momento la sua retorica è stata molto utile per distogliere l'attenzione dal problema interno delle manifestazioni contro la strisciante islamizzazione del Paese perseguita dal partito AK. Tuttavia ci sono anche problemi molto concreti per l'economia turca, il cui Pil è caduto in piena recessione nel 2009. Anche se ora il Pil pare aver recuperato, ciò è dovuto solo al finanziamento in deficit dell'economia. Ciò ha comportato, secondo l'Economist [economist.com], che “il deficit della Turchia espresso in dollari è secondo solo a quello americano”. Con la lira in caduta del 10% e i capitali esteri in fuga dal paese, la Turchia deve affrontare condizioni più difficili per ottenere quei prestiti che il partito AK ha usato per finanziare il boom edilizio degli scorsi anni. In aggiunta a questo, il crescente numero di profughi siriani e il fatto che i camion turchi non possono più attraversare il confine a sud con la Siria, che ora è chiuso, infliggono un altro duro colpo all'economica turca. Infatti, ora centinaia di camion sono costretti a deviare verso Israele, via nave. Non meraviglia il fatto che la Turchia chieda che la guerra sia chiusa il più presto possibile. E un po' di voce dura, del tutto retorica e impotente, sarà ben digerita dagli elettori, in vista delle prossime elezioni.

Gli imperialisti più coerenti in tutta questa vicenda sono stati la Russia, la Cina e l'Iran. Sebbene siano sempre più preoccupati per come Assad sta gestendo la situazione, non hanno deviato dal sostegno al suo regime. L'Iran ha inviato consiglieri (e si dice anche truppe) che sembrano aver dato un po' di spina dorsale alle forze del regime, che precedentemente erano in ritirata. La Cina ha rifiutato di ratificare ogni intervento in Siria, in linea con la sua politica internazionale di non ingerenza e di non dare giudizi sulle azioni di altri regimi (attualmente, uno dei punti di vantaggio della Cina, per la penetrazione negli stati africani). Per la Russia la posta in gioco è più alta, in quanto la Siria rappresenta l'ultimo stato sovrano in Medio Oriente che può contare come suo chiaro alleato. La Russia ha ancora lì delle basi militari, compresa la sua più grande base navale al di fuori delle sue coste. Il crollo totale del regime di Assad sarebbe un enorme colpo, sia dal punto di vista strategico che materiale.

La Russia ha imparato la lezione della Libia, dove non è riuscita ad impedire l'imposizione di una no-fly-zone, suggellando così il destino di Gheddafi. Se gli Stati Uniti danno il via agli attacchi aerei, c'è da aspettarsi che la Russia intensifichi le forniture di missili S.300. Putin ha offerto di interrompere l'invio ad Assad di pezzi di ricambio per queste armi, usando la proposta come un grimaldello per ottenere qualche tipo di soluzione politica negoziale. Ma gli Stati Uniti hanno rifiutato la proposta, valutata come un calice avvelenato, e quindi possiamo aspettarci che il sostegno russo per Assad rimanga forte. Infine, il colpo da maestro sullo scacchiere internazionale è stato quello di accettare la sfida di Kerry, mal congegnata, per la consegna di tutte le armi chimiche della Siria. Questa proposta potrebbe ritardare l'azione degli Stati Uniti per mesi o addirittura portare allo stallo completo. La questione non è scontata, dato che colpisce anche le relazioni della Russia con la Siria. La Siria ha accettato la proposta russa, a patto che gli Stati Uniti ritirino la minaccia di effettuare attacchi aerei (che Putin è stato felice di accettare). Il regime siriano non ha mai ammesso di possedere armi chimiche (che detiene nell'eventualità di dover rispondere alle armi nucleari di Israele, ugualmente non dichiarate). Assad continua a ripetere la sua minaccia: in caso di attacco degli Stati Uniti sulla questione dei gas tossici, i suoi “alleati” si vendicherebbero contro un obiettivo statunitense non specificato, in qualche parte nel mondo. In questo contesto, ottenere una risoluzione delle Nazioni Unite che includa sia un divieto delle armi chimiche che la minaccia di attacchi aerei è improbabile e, alla fine, è possibile che si torni di nuovo al punto di partenza.

Nessuna guerra, se non guerra di classe

Abbiamo già visto la guerra allargarsi al Libano, dove sono state impegnate direttamente forze iraniane. Anche la Turchia è stata coinvolta, e non solo perché viene usata come base dai combattenti anti-Assad, nascosti tra i profughi. Mentre scriviamo, delle portaerei statunitensi e una flottiglia russa si stanno dirigendo verso il Mediterraneo orientale. Nonostante il voto della Camera dei Comuni, opposto ad un intervento, caccia bombardieri inglesi sono stati spediti a Cipro. Nella vicina Giordania (dove i rifugiati siriani costituiscono quasi il 20% della popolazione) sono già dispiegati 1.000 soldati statunitensi, caccia F-16 e missili Patriot, a seguito di una recente esercitazione militare. Tutta questa interferenza esterna sottolinea il fatto che non stiamo parlando della “guerra civile” in Siria, come spesso dicono i mezzi di informazione, ma dell'ennesimo crocevia in cui gli antagonismi imperialisti si stanno scontrando, sia pure solo per procura. In un mondo con un minimo di razionalità, tutti capirebbero che in questa situazione nessuno può vincere. Ogni osservatore imparziale può vedere che, se non viene posto termine alla carneficina, altre 100.000 persone moriranno per niente e il pericolo che il conflitto siriano si allarghi diventa ogni settimana più probabile. Il fatto, però, è che non viviamo in un mondo razionale o imparziale, ma in un mondo dominato dagli interessi e dalle spinte imperialistiche del capitalismo.

In questa situazione, il proletariato siriano non ha voce in capitolo. È già stato ideologicamente e materialmente smembrato, finendo intruppato a difesa di una delle forze in campo, oppure semplicemente vittima del conflitto. Non può neanche ottenere aiuto diretto dalla classe operaia internazionale. La guerra moderna non impegna direttamente sul campo la classe operaia, come ha fatto nelle guerre precedenti, anche fino al Vietnam. Gli eserciti dei principali stati capitalistici non sono più eserciti di leva. Le armi sono accumulate con anni di anticipo. Anche le inedite e inattese manifestazioni internazionali che si sono diffuse in tutto l'Occidente nel 2003 per contrastare l'attacco all'Iraq sono state ignorate da un sistema politico che solo di facciata è rappresentativo e democratico. Le guerre moderne sono più simili a quelle descritte da Orwell nel suo “1984”. Sono combattute molto lontano e non hanno un impatto materiale sulla maggior parte delle persone nei principali stati imperialistici.

Ma i nuovi social media fanno sì che il mondo diventi sempre più piccolo. Opporsi queste guerre senza dare sostegno a regimi brutali come quello di Assad è l'inizio di una opposizione al sistema, che sopravvive grazie a loro. Quanto più i nostri governanti ignorano l'opposizione alla guerra, tanto più discreditano se stessi e il loro sistema. Gli elementi più intelligenti della classe dirigente del mondo lo sanno e questo spiega in parte le loro attuali esitazioni. Ma gli appetiti bestiali dell'imperialismo capitalista non possono essere trattenuti a lungo. Potrebbe accadere in Siria, o in Mali, o in Congo, ma di sicuro la lotta per le risorse del pianeta scoppierà di nuovo. In questa situazione, la classe operaia internazionale non ha nulla da sostenere (nemmeno la presunta “rivoluzione” che ha dato inizio alla lotta anti-Assad oltre 2 anni fa). La nostra posizione rimane la stessa di sempre. L'unica guerra che noi sosteniamo è la guerra di classe per distruggere una volta per tutte questo sistema di carneficina globale. Lottare contro l'austerità, o qualsiasi altra cosa il capitalismo cerchi di imporci, è un primo atto nel respingere questo sistema. Attualmente il proletariato mondiale è fuori dal gioco. Possiamo tornare in gioco solo ricominciando a combattere per i nostri interessi, nei nostri termini. In ultima analisi, solo quando i lavoratori negli Stati più potenti del mondo avranno paralizzato la capacità dell'imperialismo di interferire dove vuole, potremo fare un vero e proprio passo in avanti sulla strada della liberazione umana.

JD
Lunedì, September 23, 2013