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Home ›Le “nuove” frontiere del lavoro
I servi del capitale si interrogano sulla possibilità di “creare” nuovi posti di lavoro. Qualcuno non può fare a meno di constatare come “il quadro produttivo del passato” non sia più proponibile, poiché in molti settori il numero degli addetti diminuisce di anno in anno. Il giornalista e saggista statunitense, Chris Anderson, ex direttore di Wired, si vede costretto ad ammettere che
già oggi viviamo in una società robotizzata... solo che quando un robot funziona davvero non lo chiamiamo più robot… la lavatrice è un robot... anche il navigatore, che ci indica la strada in auto... è un robot.
E con Internet, anche un gran numero di impiegati “ha perso il lavoro”. Preso dal filo più che logico del discorso, l’Anderson ammette che negli scenari futuri
il lavoro a tempo indeterminato, nel settore manifatturiero ma non solo, è destinato a sparire.
Lo stesso nell’agricoltura dove avanzano soluzioni tecnologiche mai prima concepite.
Nel capitalismo, i paesi senza un’alta capacità produttiva e competitiva, tale da reggere la concorrenza, non possono assicurare ricchezza e benessere per i loro “cittadini”. Questo e uno dei punti essenziali del credo economico borghese, che nelle condizioni attuali di crisi (con l’incubo del saldo di bilancio pari a zero e degli accantonamenti per la riduzione del debito) pone l’imperativo della “ripresa della domanda”. Altrimenti – la parola passa al presidente di Confindustria, Squinzi – si cammina “sull’orlo del baratro”. Dunque, si spremono i cervelli sul come “stimolare” la ripresa, purtroppo convincendo buona parte del proletariato che questa, solo questa, sia la strada giusta da percorrere.
Le proposte che circolano all’ora del te nei salotti frequentati da finanzieri illuminati, sindacati, economisti liberal filo americani, ambientalisti e verdi: vanno da un consolidamento fiscale all’uso di risorse aggiuntive. Da dove prenderle, non si sa: magari attingendo ai fondi della Cassa Depositi e Prestiti (sono in molti quelli che le girano attorno…) o attraverso accordi con la Svizzera riguardanti i capitali italiani esportati illegalmente (150 mld di euro) o quelli “scudati” da Tremonti, oppure una tassa sui patrimoni, ma sempre senza esagerare. Ci vorrebbe però un Governo che le mettesse in atto queste proposte, con una maggioranza di onorevoli parlamentari applaudenti e a condizione – prioritaria – che migliorino efficienza, risparmio, produttività, competitività e innovazione del sistema. Lunga vita al capitalismo, imprenditoriale…
Più addentro nelle questioni (?), è sempre in auge quella relativa alla flessibilità del mercato assieme alle innovazioni interne nelle aziende. Ma la flessibilizzazione e deregolamentazione di un mercato, quello del lavoro, avviate a metà anni ’90, sono proprio ciò che hanno accompagnato tutta la fase del declino della produttività del lavoro (a sentire gli “esperti”) e dei salari in particolare. Si potrebbe anche osservare che hanno avuto non solo degli effetti fallimentari ma sono state una delle concause di questo declino. Tant’è che si versano lacrime sulla scarsa crescita della produttività del lavoro per ora lavorata; se ne dà poi colpa alla mancata innovazione dei luoghi di lavoro e dell’organizzazione della produzione nell’impresa. Meno male – aggiungiamo noi – poiché ne sarebbe conseguito un maggiore esubero di manodopera, ma su questo il silenzio è d’oro. Nel frattempo cresce il numero dei lavoratori atipici che l’ultimo Rapporto Istat 2013, stima in 5 milioni circa, pari al 20% degli occupati, e in maggior parte giovani.
Concertare contrattualmente la definizione di obiettivi di produttività, predicano i Sindacati, sarebbe la soluzione migliore per il capitale e (vera e propria bestemmia!) per i lavoratori. II Consiglio europeo stanzia intanto 6 miliardi di euro per contrastare la disoccupazione giovanile nel continente. Accettando la cifra di 6 milioni di giovani disoccupati con meno di 25 anni nell'Ue (3,6 milioni nella zona euro), a ciascuno di loro spetterebbero circa 130 euro all'anno per sette anni, poco più di un totale di 900 euro... Questo dopo aver imposto solo nell’anno in corso tagli per 100 miliardi in favore dell’austerità, lacrime e sangue.
Quanto alla Germania, da molti guardata con occhi invidiosi, resta un modello molto relativo: c’è una popolazione che invecchia, i giovani sono pochi (il record delle nascite in Europa appartiene alla Francia) e in qualche settore si cerca di attirare forze vive da fuori confine. Dal 2005 a oggi, il numero dei giovani tedeschi tra i 15 e i 24 anni è diminuito di 600mila persone, e questo spiega in parte il minore tasso di disoccupazione. Morale: anche se parla lingue diverse, il capitalismo è lo stesso in ogni paese.
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Comments
La popolazione tedesca è molto variegata al suo interno, c'è anche da dire. Nei vari "land" c'è molta disparità: a Berlino per esempio la popolazione è giovanissima.