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Home ›Niger: il secondo atto dell'imperialismo francese nell'Africa occidentale
Non è ancora terminata la “campagna del Mali” che la Francia ha aperto un altro fronte di guerra in Niger.
Che il famelico imperialismo francese abbia intenzione di ricolonizzare tutta l’area del Sahel è sotto gli occhi di tutti. Come per il Mali la scusa è quella di liberare il campo dalla presenza del terrorismo jihadista, di dare stabilità ai paesi amici, di ergersi a paladino della democrazia contro il totalitarismo della sharia. In realtà l’obiettivo non dichiarato, ma perseguito con tutta la forza e la determinazione di cui dispone oggi il governo di Hollande, è lo sfruttamento delle risorse energetiche e delle materie prime strategiche presenti nel territorio. Dietro le solite strumentali menzogne c’è un fattore che ha accelerato i movimenti militari e le mosse politiche di Parigi: la presenza cinese. In Mali, ad esempio, l’imperialismo di Pechino discreto quanto invasivo, ha usato il suo “soft power” per allungare le mani sull’attività edilizia, sulle infrastrutture logistiche, dando vita a una serie di imprese operanti nel settore della produzione leggera di manufatti e utensili. Ha inoltre impiantato fabbriche tessili, usando la mano d’opera locale, pagata ben al di sotto di quella domestica, si è inserito nella produzione e raffinazione dello zucchero e nel settore farmaceutico.La sua presenza si è ormai attestata anche nel Ciad, Sudan sino ad estendere la sua influenza in molti dei paesi del Sahel. Per il Niger la situazione è esattamente la stessa, con l’unica differenza che nel suo sottosuolo, oltre ad una significativa presenza di petrolio, ci sono i terzi giacimenti mondiali di uranio, da sempre appannaggio della multinazionale francese Areva.
A Niamey, capitale del Niger, il 4 gennaio del 2012 è stato ricevuto con tutti gli onori del caso, il ministro degli esteri cinese Yang Jiechi, che ha avuto un lungo e proficuo incontro con il suo omologo Mohamed Bazoum e lo stesso presidente della repubblica nigeriana Issoufou Mahamadou. La visita ufficiale si è conclusa con la firma di due importanti accordi sulla cooperazione economica e tecnica e sugli aiuti alimentari di cui il paese ha fortemente bisogno per prevenire disordini e sommosse popolari che, con i quarti di luna che la crisi economica internazionale dispensa soprattutto a queste latitudini, sono all’ordine del giorno.
Già dal 2001 la Cina si è economicamente impegnata a realizzare una serie di strategiche infrastrutture. Prima fra tutte il potenziamento delle vie di allacciamento al secondo ponte sul fiume Niger nella capitale a Niamey, denominato il Pont de l'Amitié Chine-Niger. Ha costruito il più importante e moderno ospedale di tutto il paese e alcune strade che collegano la capitale ai centri periferici più importanti. Ha costruito scuole, impostato un progetto pilota di illuminazione sfruttando l’energia solare e rifornito il paese di tonnellate di medicinali, attrezzature cliniche e materiale informatico per gli uffici governativi. Il che ha consentito alla Cina, non solo di stabilire un significativo presidio anche nel Niger, ma anche di avere delle entrature diplomatiche per il rilascio di ben 70 licenze di trivellazione per altrettanti pozzi nigeriani. Ma il senso principale di questa cooperazione è rappresentato dall'entrata in funzione, il 28 novembre 2011, del progetto petrolifero integrato di Agadem : lo sfruttamento dei campi petroliferi di Agadem, nell'estremo nord-est nigerino, da parte della China national petroleum corporation (Cnpc) e della relativa raffineria di Zinder (Soraz), società di jont venture a capitale misto sino-nigerino.
Con ciò il Niger farebbe un “salto di qualità” nel panorama petrolifero internazionale sotto il cappello dell’imperialismo cinese. Attualmente la produzione di petrolio è di 20.000 barili al giorno, dei quali solo 7.000 restano in Niger e i restanti 13.000 sono destinati all'esportazione. Le ambizioni del presidente Issoufou, grazie alla presenza tecnica e tecnologica cinese, sono di portare la produzione a 80.000 barili il giorno già nei primi mesi del 2014, dei quali ben 60.000 per l'esportazione. Non solo, le mosse successive dell’imperialismo cinese avrebbero minacciato il semi monopolio francese nello sfruttamento delle miniere d’oro e dei giacimenti petroliferi, piccoli per dimensioni e per riserve accertate, ma comunque interessanti data la fame internazionale di fonti energetiche causa, in un recentissimo passato, di guerre non ancora completamente chiuse
A seguire, ma mon da ultimo, la “carità pelosa” di Pechino è riuscita ad avere anche delle concessioni per lo sfruttamento di alcuni giacimenti di uranio che hanno messo in allarme il governo di Parigi.
La progressione dell’avanzata cinese in termini di sfruttamento dell’uranio nigeriano, iniziata nel “lontano” 2006, con la prima concessione di Tegguida, e proseguita nel 2007 con la costituzione della società sino-nigerina Somina per lo sfruttamento di un secondo giacimento, quello di Azilik nell'Agadez, si è concretizzata nel 2008 quando Pekino è diventata il primo investitore nelle miniere di uranio del Niger, superando gli stessi cospicui stanziamenti francesi nel settore e costringendo Parigi ad una affannosa rincorsa finanziaria per non perdere troppo terreno nei confronti del rivale imperialistico asiatico.
Dopo circa un anno di rodaggio dell’esperimento pilota, lo scorso 30 ottobre, è partito il primo carico di uranio per la Cina, con il progetto di arrivare ad aumentare la propria quota di produzione sino a 5 mila tonnellate entro il 2020, pareggiando così i rivali francesi che, in base ad un accordo con il governo di Niamey, rinegoziato il 5 gennaio del 2009, hanno l’appalto per 35 anni dello sfruttamento dei giacimenti di Imourare a 5 mila tonnellate l’anno.
Sino ad allora la multinazionale francese Areva (90% capitale francese), gestiva monopolisticamente questi giacimenti soddisfacendo al 40% il fabbisogno di uranio per le sue centrali nucleari a scopo civile e per il suo armamento bellico nucleare. Attualmente però la situazione sta pericolosamente cambiando per gli interessi francesi. La presenza cinese non solo va progressivamente erodendo gli spazi e gli interessi economici e strategici di Parigi, ma rischia di mettere in discussione tutto il progetto di ricolonizzazione di tutta l’area del Sahel, tanto cara all’imperialismo francese, quanto strategica in termini economici e di controllo politico delle “sue” ex colonie. Tra gli altri, c’è l’interesse di avere a disposizione le riserve di petrolio del Ciad e della Mauritania con cui ha appena firmato degli accordi per esplorazioni ed eventuali trivellazioni. Sempre la Total, in collaborazione con la russa Gazprom, sta progettando un oleodotto di 4 mila chilometri che dalla Nigeria si colleghi a quelli algerini per arrivare in Europa via Spagna o Italia. Non deve stupire dunque la tempestività e l’arroganza con le quali la macchina bellica francese ha inscenato questi ultimi due episodi di guerra guerreggiata nella strategica fascia del Sahel, come non deve stupire l’analogo comportamento in Libia contro il governo di Gheddafi per dare spazi petroliferi alla Total Fina, battendo sul tempo i rivali mediterranei, tra cui l’Italia dell’Eni.
Se risponde alla banale verità che questi episodi rappresentano il “normale” svolgersi degli interessi imperialistici nell’area sub sahariana tra due arrembanti competitori, è anche pur vero che la devastante crisi internazionale ha rappresentato una criminale accelerazione del contendere sul terreno economico e strategico. La crisi mondiale ha ulteriormente ristretto i margini di profittabilità del capitalismo, della sua economia reale. Ha favorito la speculazione, la creazione di masse enormi di capitale fittizio che poi sono esplose ricadendo sulla stessa economia che li aveva generati, con il risultato di schiacciare il proletariato mondiale sotto il peso di una macelleria sociale di cui non si vede ancora la fine. Ha inoltre messo in fibrillazione le centrali imperialistiche che, pur di perseguire ad ogni costo l’obiettivo della sopravvivenza delle proprie economie, non rinunciano alla violenza della guerra, comunque giustificata, producendo disastri umani e ambientali in qualsiasi parte del globo, perché ci sia un minimo di vantaggio economico da raggiungere.
Questa è la tragica rappresentazione che il capitalismo è in grado di mandare quotidianamente in scena. La crisi ha messo sul lastrico milioni di proletari, il capitalismo li ha chiamati a pagare le spese della sua sopravvivenza. L’imperialismo ha ripreso linfa e criminale aggressività. Ieri abbiamo avuto gli episodi dell’Iraq e dell’Afghanistan, oggi Mali e Niger, per domani c’è da aspettarsi l’apertura di qualsiasi fronte bellico se interessante da un punto di vista economico, strategico o “soltanto” per una qualche valenza geo-politica. Che poi gli “effetti collaterali” siano la fame e la miseria per intere popolazioni, l’iper sfruttamento per i proletariati coinvolti, una disoccupazione galoppante al pari di un processo di pauperizzazione incontrollabile,questi non fanno parte degli interessi né immediati né futuri dell’imperialismo. Semmai un interesse ci fosse, sarebbe quello di captare le rabbia e la disperazione dei diseredati che il capitalismo ha prodotto, per ricollocarli sul terreno dei suoi interessi in nome della democrazia, sotto la bandiera del nazionalismo, sia in versione laica che in quella confessionale, per una “giusta” guerra al terrorismo e per la libertà dei popoli.
Così facendo, non solo l’imperialismo avrebbe a disposizione la solita carne da macello, quella stessa che, in tempi normali, funge da strumento di valorizzazione del suo capitale, ma otterrebbe anche il non secondario risultato di rendere più difficile qualsiasi risposta di classe a se stesso e al capitalismo che continuamente lo ha generato.
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