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Home ›USA. Evitato il baratro fiscale, ma da chi?
Anche per questa volta, la fine del mondo è stata rimandata, ma la notizia non è una gran notizia, nel senso che era, tutto sommato, prevedibile. Infatti, il 31 dicembre 2012 gli Stati Uniti d'America sarebbero dovuti cadere nel cosiddetto precipizio fiscale (“fiscal cliff”), se democratici e repubblicani non avessero trovato un accordo per evitare il contemporaneo taglio massiccio della spesa pubblica e l'aumento delle tasse. Questi provvedimenti avrebbero avuto effetti pesanti sull'economia statunitense e, a cascata, su quella mondiale; per il momento, però, Obama sembra aver trovato la quadratura del cerchio, anche se i veri beneficiari dell'operazione non sono quelli indicati dal presidente americano; ma per inquadrare meglio la questione, è forse utile fare un passo indietro.
Nel 2010, doveva scadere la forte riduzione delle imposte varata da Bush, ma, a causa della crisi, venne prorogata fino all'anno appena trascorso. Da qui, la necessità di riproporla oppure di modificarla in tutto o in parte. Secondo copione, i repubblicani erano (e sono) per un taglio drastico ai servizi sociali, i democratici per un aumento delle tasse sui redditi più alti, al fine di non calcare troppo la mano nel ridimensionamento di quel po' di welfare ancora esistente. Alla fine, appunto, un'intesa è stata trovata, ma, come si diceva, per il proletariato – che comprende, nonostante la cortina fumogena dell'ideologia borghese, una parte considerevole della cosiddetta middle class – le ombre sono più estese delle luci. Intanto, l'aumento dell'aliquota (dal 36,5 al 39%) interessa solo i redditi da 450 mila dollari in su, quindi una soglia molto superiore a quella dei 250 mila proposta inizialmente da Obama. Oltre a questo, l'imposta sui dividendi e i “capital gains”, benché aumentata al 20%, è molto lontana da quella sui redditi più alti, il che è un regalo non da poco per azionisti, manager e via dicendo; senza parlare, poi, delle numerose agevolazioni fiscali (per lo più sotto forma di credito d'imposta) di cui godranno le imprese, in particolare le grandi corporation, le quali dovranno dimostrare di aver sviluppato ricerca, innovazione e tecnologie “verdi”: bazzecole, insomma.
È vero che, per ora, i tagli più pesati a forme varie di assistenza sociale, pretesi con la bava alla bocca dai repubblicani, sono stati rimandati, ma è altrettanto vero che “la riduzione delle tasse sulle buste paga che scadeva ugualmente il 31 dicembre” non è stata rinnovata, per cui “una famiglia media che guadagni 50.000 dollari lordi, pagherà quest'anno ben 1000 dollari in più per finanziare la Social Security” (F. Tonello, il manifesto, 3 gennaio 2013). Dunque, forse la classe operaia (intesa in senso lato) non precipiterà nel fondo del burrone – anche perché gli è già molto vicina – ma sicuramente le sue condizioni di esistenza subiranno un altro smottamento, dopo quelli subiti negli ultimi decenni. Persino da parte democratica si sono levate voci critiche nei confronti dell'accordo, tanto che alcuni parlamentari di questo schieramento hanno votato contro. In ogni caso, la faccenda non è finita lì, perché entro febbraio le Camere dovranno stabilire il nuovo tetto massimo del debito pubblico – limite che non esiste in altri paesi – in mancanza del quale il Tesoro non potrebbe più pagare gli interessi del debito, con tutto ciò che ne consegue. Quindi, di nuovo si proporrà la questione tagli alla spesa sociale-aumento delle tasse: non abbiamo la sfera di cristallo, ma ipotizzare che le imprese (i capitali) saranno meno colpite delle fasce sociali più deboli o, meglio, che non lo saranno affatto, non è un azzardo.
È del tutto fuori luogo, dunque, il trionfalismo di Federico Rampini, che, sulla Repubblica del 3 gennaio, saluta con entusiasmo il nuovo keynesismo ridistributivo di Obama, perché di ricchezza distribuita a favore del proletariato (pardon, della middle class) ce n'è ben poca. Se di keynesismo si può parlare, negli ultimi anni è andato a beneficio soprattutto (giusto per usare un eufemismo) del capitale, che è stato coperto da montagne di dollari, elargiti generosamente tanto da Obama quanto dal suo predecessore. Rampini, come i riformisti di ogni latitudine, crede – si illude – che per superare la crisi basti aumentare i consumi, nella fattispecie attraverso un'attenuazione delle inuguaglianze sociali enormi, ridistribuendo parte (solo parte, sia chiaro) della ricchezza sfacciata accumulata dal famigerato 1% da una quarantina d'anni a questa parte, sotto forma di salari più “giusti” e di maggiore stato sociale. In tal modo, dicono Rampini and Company, si innescherebbe il circolo virtuoso: più consumi, più investimenti, maggiore occupazione... e via così. Con Roosevelt, ottant'anni fa, il meccanismo aveva funzionato, dunque non si vede il motivo per cui non debba funzionare anche con Obama. Il giornalista di Repubblica dimentica però alcune cose. Per citarne qualcuna, non fu il New Deal – ossia l'intervento dello stato in economia – a tirare fuori dalla crisi il capitalismo statunitense e mondiale, ma la guerra, con la distruzione massiccia di capitale eccedente – a cominciare dal “capitale” per eccellenza, la forza lavoro – e l'aumento vertiginoso dello sfruttamento operaio, di cui il lavoro forzato nei campi della morte nazisti è l'esempio estremo. C'è da dire, però, che su questa strada, quella dello sfruttamento, la borghesia americana ha poco da imparare. Infatti, da alcuni anni a questa parte, si assiste a un “ritorno” del settore manifatturiero, grazie alla compressione spinta dei salari, dei “diritti” – il “modello Marchionne” è in vigore da tanto tempo o da sempre, per esempio negli stati meridionali – e all'applicazione di tecnologie avanzate ai processi produttivi: non è un caso che 11,5 milioni di operai statunitensi producano più o meno lo stesso valore di 100 milioni di operai cinesi (L'Expansion, 14-03-2011). L'estorsione di plusvalore reale – in un rapporto adeguato ai capitali investiti – che può avvenire solo nel circuito della produzione delle merci, è l'unica strada a disposizione del capitalismo per rilanciare un processo vero di accumulazione, ma nelle condizioni storiche attuali bisogna fare i conti con il ruolo abnorme della speculazione finanziaria, che aspira plusvalore da ogni parte del mondo e dirige l'orchestra dell'economia internazionale.
Gli Stati Uniti possono farsi beffe dei “sacri principi” che l'Unione Europea impone ai paesi membri e continuare a incrementare il deficit di bilancio (otto per cento), possono permettersi di consumare a credito (da qui, il debito privato e pubblico) per una serie di fattori che altri paesi (le rispettive borghesie) non possiedono; in breve, per il ruolo di imperialismo dominante che interpretano, nonostante le magagne da cui sono afflitti. A parte – si fa per dire – la supremazia militare, il dollaro continua a essere la moneta di riserva e di scambio internazionale, benché sia minacciata dall'euro e dalle manovre yuan-yen nell'area del Pacifico (in particolare). I titoli di stato a stelle e strisce, a dispetto dei bassi tassi di interesse, richiamano capitali da tutto il mondo e questo costituisce una massa di denaro che permette di tenere alto il consumo e di avere un indice di sviluppo del PIL positivo – sia pure di poco – e non negativo o stagnante come i paesi dell'euro. Se poi è vero che si è aperta la possibilità di sfruttare nuovi giacimenti petroliferi e gasiferi locali – benché al prezzo di una ancora più accelerata devastazione ambientale – tanto da rendere gli Stati Uniti molto meno dipendenti di un tempo dalle importazioni di idrocarburi esteri, ebbene ciò darà all'economia e, dunque, all'imperialismo americani, opportunità che imperialismi concorrenti non hanno. Naturalmente, quest'ultima è un'ipotesi tutta da verificare.
È certo, però, che nemmeno la superpotenza americana può giocare a nascondino per sempre con la legge del valore: qualcuno, quel debito, dovrà prima o poi pagarlo. Quando l'estorsione del plusvalore “indigeno” e l'appropriazione parassitaria del plusvalore planetario non basteranno a tenere in piedi il baraccone dello Zio Sam, allora gli scenari mondiali si faranno molto più cupi di quanto non lo siano già; a meno che...
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