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Home ›Contratti e altre mazzate sulla classe operaia
Un detto popolare, per lo più dimenticato, parlava di una banda di ladri, che di giorno litigavano, ma di notte andavano a rubare assieme. Questa storiella da niente ci fa venire in mente i sindacati “maggiormente rappresentativi”, che litigano, si scambiano accuse, ma appena uno gira l'occhio, eccoli a concertare con la “controparte”, il padronato, gli strumenti più adatti per promuovere il cosiddetto bene del Paese o, detto in altri termini, del padronato medesimo.
Potrebbe sembrare un giudizio ingeneroso, addirittura calunnioso nei confronti della CGIL e, in particolare, della Fiom, che ha rifiutato di firmare l'ennesimo contratto peggiorativo del settore metalmeccanico, a differenza di CISL/Fim-UIL/Uilm, che non fanno più nemmeno finta di stare dalla parte degli operai, ma dicono “signorsì” prima ancora il padrone li convochi. E' vero che il più grande sindacato dei metalmeccanici non ha sottoscritto l'ultima – in ordine di tempo – farsa contrattuale, indubbio il “NO” della CGIL al patto sulla produttività di qualche settimana fa. Ma l'uno e l'altro accordo sono l'applicazione pratica della “filosofia” caratterizzante un'altra intesa tra le “parti sociali”, quella del 28 giugno del 2011, alla quale la CGIL ha aderito. Uno degli aspetti principali di quell'intesa era la possibilità di derogare al contratto nazionale, per dare all'impresa e al famigerato Paese la possibilità di affrontare al meglio la sfida della competitività. Certo, tali deroghe si dovrebbero concordare con i sindacati, ma, come i fatti dimostrano immancabilmente, si trova sempre uno “straccio” di sindacato pronto a firmare qualunque cosa. Anzi, CISL e UIL sono lì apposta. Un po' diversa la faccenda per la CGIL: non perché sia un covo di comunisti assetati di sangue confindustriale, ma perché non può, per ragioni storiche o meno, permettersi di disattendere completamente – almeno sul piano formale - le spinte che provengono dalla base, col rischio di compromettere la propria esistenza. Sia chiaro, la CGIL non può ignorare del tutto i propri iscritti, purché le loro spinte, dopo adeguato “trattamento”, siano rese compatibili con lo stato di salute, per così dire, del capitalismo, ma poiché il corpo del capitale è pieno di acciacchi tutt'altro che lievi, la funzione della CGIL, nei fatti, è quella di far passare tra il lavoro salariato in maniera la meno traumatica possibile le necessità, appunto, del “Paese”. Per far questo, per interpretare efficacemente il suo ruolo di finto baluardo antipadronale – quindi di vero argine antioperaio – non può sbracarsi come CISL e UIL, ma deve fare la faccia truce, mostrarsi ritrosa e recalcitrante alle profferte padronali, altrimenti c'è il rischio che una parte della base la possa abbandonare per ritrovarsi, dio non voglia!, a scorrazzare senza freni sul terreno della lotta di classe, con buona pace della coesione sociale. Ovviamente, non siamo complottisti, non crediamo cioè che la CGIL sia una specie di Spectre di cinematografica memoria, un'associazione che manovra i propri affiliati come se fossero pedine inanimate: se si muove così è perché molti credono nella funzione de sindacato e, anche quando si lamentano o si arrabbiano, sperano in un qualche suo ravvedimento o comunque lo ritengono il male minore rispetto ai due sindacati apertamente schierati coi padroni o all'assenza di sindacato. E' la solita vecchia storia che, nonostante tutto, funziona ancora; anzi, per quanto riguarda la Fiom, essa, agli occhi di tanti operai, politicizzati o meno, sta in un certo qual modo rivestendo il ruolo del PCI di un tempo: non solo unico difensore – per quanto non sempre coerente – degli interessi operai, ma “luogo” in cui ritrovare un'identità di classe, riconoscersi ancora parte di una comunità operaia, “fuori” calpestata, vilipesa, virtualmente cancellata, persino tigre da cavalcare in funzione rivoluzionaria. Ipotesi, quest'ultima, più che sbagliata, patetica eppure sostenuta, in buona fede, da qualcuno. Mai, però, nella più che secolare storia del movimento operaio, il sindacato si è prestato a un uso rivoluzionario, anzi, normalmente le cose stanno in maniera opposta, tanto che il sindacalismo – tranne rarissime eccezioni che confermano la regola – ha avuto un ruolo di primo piano nello stroncare momenti rivoluzionari o che si avviavano ad essere tali, ogni qual volta che se ne sia presentata l'occasione.
Ma per tornare ai contratti, forse che quelli dei ferrovieri o dei chimici non concedono, grosso modo, più potere discrezionale al padrone, come quello dei metalmeccanici? Eppure, sono stati firmati “unitariamente” anche dalla CGIL, che di giorno litiga, ma di notte...
Tanti anni fa, qualcuno, nelle sue illusioni – o deliro – operaiste, parlava del salario come variabile indipendente, intendendo con questo che la classe operaia o, per meglio dire, l'operaio-massa era in grado di imporre al padronato il proprio “contropotere”, cioè, tradotto, di annullare dentro la fabbrica (ossia, dentro i rapporti sociali lì imperanti) le leggi capitalistiche del salario, le quali, sul piano del modo di produzione capitalistico, non sono meno costrittive di quanto lo siano le leggi fisiche relative all'ambiente naturale. Ebbene, una cosa, tra le tante, che la crisi ha dimostrato (ma non c'era bisogno della crisi...) è che quelle teorie erano, al più, “vane speranze” di chi, riformisticamente, pensava di sbrigare la pratica anticapitalista unicamente dentro i quattro muri di un capannone, come se quest'ultimo non fosse solo un nodo (per quanto fondamentale) della più complessa rete capitalistico-borghese. Sono decenni che il salario arretra, il che è “normale”, visto che la svalorizzazione della forza lavoro (l'abbassamento del salario) è una delle strade principali percorse dalla borghesia per tentare di rialzare saggi del profitto in calo o comunque insoddisfacenti rispetto alle esigenze di una vera ripresa dell'accumulazione del capitale, non legata ai giochi di prestigio finanziari. Oggi, la borghesia taglia la massa salariale, comprime i “diritti”, cioè i lacci all'intensificazione dello sfruttamento, per guadagnare quote di mercato sulla scena internazionale, ma il plusvalore addizionale così estorto non basta e allora giù con altri tagli, con la precarietà, coi licenziamenti, che restringono inevitabilmente i consumi in un circolo vizioso senza uscita.
Per rimanere all'Italia, i dati ufficiali di novembre registrano un aumento della disoccupazione oltre l'11%, ma il ministro (tra poco, ex) Passera, in una riunione tra riccastri, ha detto che se agli oltre due milioni di disoccupati ufficiali
aggiungiamo gli inoccupati, gli scoraggiati, i sottoccupati e i cassintegrati, il numero delle persone in difficoltà con il lavoro probabilmente supera i 7 milioni.
Huffingtonpost, 23-11-2012
Per quanto riguarda i cassintegrati, a fine novembre è stato raggiunto e superato il miliardo di ore (richieste) di cassa integrazione; in tal modo, ci si è avvicinati al picco del 2010, quando le ore furono un miliardo e cento milioni. Una cifra imponente, che se da una parte fotografa la drammaticità della condizione operaia (intesa in senso lato), dall'altra indica nella presenza degli ammortizzatori sociali una delle cause – non secondarie – della sostanziale passività della classe all'offensiva pluridecennale della borghesia. E' vero che con 800-900 euro al mese (o anche meno) si va poco lontano, si sopravvive con un cappio al collo, ma senza quelli sarebbe la fame pura e semplice per centinaia di migliaia di lavoratori. Senza la cassa integrazione, senza gli altri ammortizzatori sociali, per altro in via di riduzione, “grazie” alla ministra Fornero, probabilmente la rabbia di classe si esprimerebbe a ben altri livelli di quelli attuali. Vogliamo allora dire che siamo per il “tanto peggio, tanto meglio”? Non siamo così rozzi, sappiamo bene che la rabbia sociale può prendere direzioni diverse, anche di estrema destra, ma che è comunque destinata a implodere, ad essere riassorbita dal sistema se non c'è un organismo rivoluzionario (il partito) che la sappia convogliare in un percorso coerentemente anticapitalistico.
Intanto, vediamo che il mondo del lavoro salariato è obbligato a pagare due volte, con la rapina del salario differito che è costretto a subire. L'allontanamento dell'età pensionabile – fino a che morte non ci separi dal posto di lavoro? - il taglio drastico dei rendimenti pensionistici (della pensione) irrobustiscono i conti dell'Inps, l'ente erogatore della cassa integrazione medesima. Così, la classe operaia paga, sì, gli ammortizzatori sociali, l'attenuazione della miseria proletaria, ma, allo stesso tempo, finanzia gli estintori della lotta di classe: almeno fino a quando l'andamento della crisi e la rapacità della speculazione finanziaria non prosciugheranno anche quella fonte, passando la mano unicamente al bastone. Benché il governo che sta per lasciarci - con pochissimo rimpianto, da parte nostra - si sforzi di diffondere ottimismo su imminenti riprese, il quadro più fosco è anche quello più probabile: anche per questo, è più che mai impellente la necessità di irrobustire l'esile corpo del partito rivoluzionario.
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