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Home ›Nascita e sviluppo dell’operaismo: i Quaderni Rossi
Da Amici di Spartaco 21
Quando nasce
L’operaismo è una corrente politica che nasce e si sviluppa tra gli anni 1940 e 1950 negli Stati Uniti, ma che in Italia prende forma nei primi anni 1960 dalla collaborazione del gruppo di lavoro (teorico e pratico) dell’istituto Rodolfo Morandi con alcuni esponenti della camera del lavoro di Torino. Dall’unione di questi nascono i “Quaderni rossi”, rivista di analisi ed intervento in sei numeri più due volumi: le “Lettere” e gli “Appunti” dei Quaderni .
L’intento era quello di rimettere al centro dell’analisi la classe operaia, la sua condizione e la sua coscienza di classe - da ciò la denominazione di operaismo - nel suo stato attuale (primi anni 1960) liberandosi il più possibile dalle ingerenze dei partiti istituzionali da cui molti provenivano e in cui alcuni continuarono a militare anche durante e dopo l’esperienza dei “Quaderni rossi”. Attraverso la collaborazione con delegati sindacali raccoglievano materiale d’analisi e di inchiesta per poi tradurlo in intervento immediato nella classe. La volontà da parte dell’istituto Rodolfo Morandi di crearsi un pubblico all’interno della fabbrica, lo spinse ad una stretta collaborazione con il sindacato (soprattutto la CGIL). Questa scelta fu dovuta anche al rapporto che legava gli intellettuali di area marxista con il PCI, il quale ormai da molto tempo aveva smesso di difendere la classe operaia, delegando al più grande sindacato d’Italia questo sgradito compito. Gli operaisti, pur criticando aspramente i partiti istituzionali, accusati di limitarsi alle sole battaglie parlamentari e di non interessarsi alle condizioni della classe, non riuscirono mai - causa le loro differenti vedute - a formalizzare queste critiche, lasciando cosi insolute questioni politiche fondamentali per l’iniziativa di classe: l’organizzazione rivoluzionaria, il parlamentarismo, la socialdemocrazia, l’internazionalismo proletario.
L’idea che invece accomuna tutti gli operaisti è che si dovesse formulare una linea teorica e d’azione per la classe operaia italiana, partendo dalle condizioni in cui questa viveva all’epoca.
Questo è stato utilissimo a fotografare alcune tendenze ancora oggi presenti nel proletariato nostrano, ma ha impedito di guardare oltre, aldilà della contingenza, assolutizzando una fase (quella del capitalismo post-bellico) invece che riconoscerla come tale.
Contesto economico
Negli Stati Uniti il capitalismo ha raggiunto, nei primi anni 1960 l’apice della sua fase di accumulazione post-bellica (in Italia ciò accadrà solo alla fine del decennio), i larghi profitti e la piena occupazione facevano presagire una fase luminosissima per il capitalismo. Anche in Italia, primi anni 1960, andava affermandosi il sistema di fabbrica fordista, fondato su una progressiva automazione del lavoro operaio ed una conseguente dequalificazione dello stesso (nascita dell’“operaio massa”: operaio dequalificato addetto alla catena di montaggio) e ancora privo di molte garanzie sociali tipiche di tale sistema nei paesi anglosassoni. Tale anomalia determinava una peculiarità nella situazione italiana: la possibilità, concessa dal capitale, di ampi margini d’iniziativa operaia, purché questa fosse controllabile attraverso il sindacato e riconducibile ad un’applicazione “all’italiana” delle politiche keynesiane (massiccio intervento statale nell’economia). Tali misure erano di vario tipo: aumenti salariali, servizi sociali (scuola, sanità, pensioni), difesa dai soprusi commessi dai singoli imprenditori, lavoro garantito, e così via… Queste misure avrebbero dovuto rendere gli operai parte integrante del processo trasformativo del capitalismo e non resistenti ad esso.
La tesi di fondo del “soggettivismo”
Questa peculiarità indusse gli operaisti a credere che la classe operaia nostrana non fosse del tutto pacificata, poiché non le erano ancora state elargite le briciole del nuovo benessere. Benessere che secondo gli operaisti italiani, cosi come di quelli tedeschi e americani, non era frutto di una fase del ciclo economico capitalistico, quindi una situazione transitoria, ma bensì uno stadio definitivo raggiunto dal capitalismo. L’operaismo italiano fa sua l’analisi dei neomarxisti americani e la riadatta alla situazione italiana, in cui esiste secondo gli operaisti una spontanea resistenza all’introduzione del modello di sviluppo fordista, proprio perché il capitalismo italiano non è ancora in grado di fornire, da subito, per la classe operaia, quelle garanzie che hanno permesso altrove la sua pacificazione. È evidente che, secondo tale teoria, una volta compiuta la riorganizzazione della fabbrica la classe operaia non sarà più oggettivamente antagonista al capitale ma diverrà un ingranaggio del sistema, determinando la necessità di individuare un nuovo soggetto antagonista al capitale (là dove questa pacificazione si riteneva già avvenuta si era abbandonata la classe operaia, in particolare, e il proletariato, in generale, quale soggetto di riferimento politico: vedi Marcuse e la scuola di Francoforte che individuano questo nuovo soggetto negli studenti e nei popoli del terzo mondo; i neo marxisti americani Baran e Swezy che indicano il sottoproletariato quale nuovo soggetto antagonista). È piuttosto evidente che tale posizione sulle ragioni dell’antagonismo operaio al capitale si fondino su premesse differenti rispetto a quelle del marxismo rivoluzionario.
La tesi operaista è che la classe operaia sia antagonista perché non ha ancora ottenuto quelle garanzie sociali che il sistema fordista prevedeva.
Tale posizione non ha niente a che vedere con la tesi marxiana secondo cui la classe operaia è oggettivamente antagonista al capitalismo perché è tramite il suo sfruttamento che viene estorto il plusvalore che è la fonte del profitto e del conseguente processo di valorizzazione del capitale. Il conflitto è generato dal fatto che il capitale, per far crescere i suoi profitti, è costretto ad estorce sempre maggiori quantità di plusvalore (lavoro non pagato o sopralavoro) agli operai riducendo il tempo di lavoro necessario (che corrisponde al tempo di lavoro effettivamente pagato all’operaio) attraverso: l’intensificazione della produttività (facendo produrre di più gli operai a parità di salario) e/o l’allungamento della giornata lavorativa.
Il piano del capitale
Tutta questa attenzione al soggetto antagonista al capitale è dovuta all’idea, teoricamente fondante per la presente ideologia, perché di ciò si parla, che il capitalismo sia riuscito a superare le sue contraddizioni dovute alle sue lotte intestine, tra capitalisti contrapposti, cioè abbia superato l’anarchia che lo contraddistingue rendendosi sociale, in cui ogni capitalista non pensa a sè ma al bene del capitale complessivo, eliminando di conseguenza la causa delle sue crisi cicliche: la caduta tendenziale del saggio medio di profitto.
Tale tesi viene definita come “il piano del capitale”: secondo gli operaisti il capitalismo sarebbe riuscito a darsi una pianificazione globale eliminando così tutte quelle sue contraddizioni dovute all’anarchia di mercato. Per gli operaisti, non incorrendo più in crisi strutturali, dovute alle contraddizioni della struttura economica, quindi di carattere oggettivo, il capitale può incorrere in crisi solo per ragioni soggettive, ovvero, per la contrapposizione ad esso di quella soggettività spontaneamente anticapitalista. D’ora in poi le crisi e le trasformazioni in ambito produttivo (ristrutturazioni, delocalizzazioni ecc.) saranno conseguenza della conflittualità che la classe operaia sarà in grado di esprimere. Non più il capitale modificherà l’apparato produttivo per le sue necessità di valorizzazione e per limitare le cause interne delle sue continue crisi, ma lo farà per limitare e disgregare la classe operaia in lotta. Quindi le delocalizzazioni nel sud est asiatico non sono fatte per aumentare a dismisura la quantità di plusvalore estorta al proletariato ma per dividere il proletariato che lotta in occidente...
E dove sarebbe questo proletariato che lotta? Basterebbe guardare la situazione odierna per comprendere come tali teorie siano fallaci. Per quanto il grande capitale tenti di pianificare - e l’intenzione è sempre presente - , la pianificazione è impossibile in un sistema economico competitivo. Lo dimostrano sia la sparizione di ogni garanzia sociale - che permettendo una certa pacificazione del conflitto non sarebbero mai state tolte se non ce ne fosse stata la necessità oggettiva - sia la crisi esplosa nel 2007: una crisi strutturale che nasce dalle viscere del capitalismo, dalle sue contraddizioni interne, che mai potranno essere risolte se non superando il capitalismo stesso. Non è stato certo il proletariato, il suo moto soggettivo, a provocarla.
Insomma, nella sostanza, il punto di vista operaista è il completo rovesciamento della visione materialista della società e della storia. Non è più l’oggettività della struttura economica, nel suo movimento contraddittorio, a determinare il moto soggettivo che a sua volta, se canalizzato in una direzione rivoluzionaria, può modificare la realtà; ma è il movimento soggettivo a determinare le mosse dell’economia. Affermare - assolutizzando una fase di crescita economica - che il capitalismo abbia risolto le sue contraddizioni significa creare la premessa per un’altra strategia politica che, al posto della lotta di classe per il potere, preveda una lotta non più di classe - perché la classe oggettivamente antagonista non è più antagonista - e tanto meno per il potere, ma per rivendicare sempre maggiori garanzie sociali (diritti, servizi sociali, salario garantito, ecc..). Tutto ciò attraverso la creazione di un potere contrapposto a quello del capitale - “contropotere” - che riesca a ritagliarsi all’interno del capitalismo dei margini di potere che gli permettano di entrare nella gestione delle ricchezze - cogestione del capitalismo - al fine di ridistribuire i profitti indirizzandoli verso destinazioni socialmente utili.
Insomma al posto della teoria rivoluzionaria si propone un riformismo radicale perenne che non tiene conto nemmeno delle fasi di riflusso della lotta. Infatti la lotta rivendicativa è vincente in momenti di crescita economica quando i padroni hanno da concedere. Ma dal momento in cui i padroni - a causa della crisi dei loro profitti - non hanno più briciole da offrire la lotta rivendicativa diviene perdente e la classe rifluisce con la sconfitta del movimento.
JB (RM)Continua
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