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Home ›Cassa integrazione e tagli: la Fiat scarica la crisi sui lavoratori
Governo e sindacati rispondono a Marchionne - Le preoccupazioni del capitale e quelle della politica
Nonostante le reali o presunte enfatiche dichiarazioni sulla ripresa economica, la crisi continua a mordere. Nel settore automobilistico peggio che in altri. Le vendite sono drasticamente diminuite al pari del fatturato, i profitti sono in calo e alla Fiat si corre ai ripari. Le conseguenze sono sempre le solite, cassa integrazione, licenziamenti, minaccia di chiudere gli stabilimenti e di portare la produzione all’estero. I bilanci devono essere salvati ad ogni costo. Non ha importanza che ad andare in rosso siano i bilanci di decine di migliaia di famiglie, la legge del capitale sono ferree e non ammettono deroghe se non quelle che sono funzionali alla salvaguardia dei suoi interessi.
Marchionne lo ha detto e lo sta praticando con quella devastante determinazione che è tipica di quei condottieri capitalisti che, per salvare il proprio “stipendio” e il capitale che rappresentano, devono mettere in atto ogni soluzione possibile, anche se gronda di sangue e lacrime proletarie. Mesi fa ha annunciato la prossima chiusura dello stabilimento di Termini Imerese con la relativa messa sul lastrico di un paio di migliaia di lavoratori. La motivazione è tanto semplice quanto capitalisticamente banale: costruire auto a Termini costa mille euro in più che in altri stabilimenti. In una situazione di crisi come questa, con la prospettiva di dover competere sul mercato internazionale non solo con i soliti “competitors”, ma con in più quelli che si stanno affacciando come Cina e India, mantenere simili impianti è un suicidio economico. Meglio chiudere, meglio far pagare la crisi ai lavoratori siciliani, portare gli impianti in Polonia, Brasile, Argentina, in qualsiasi angolo del mondo dove ci siano proletari ancora più disperati, meno garantiti, disposti a vendere la loro forza lavoro a prezzi anche di dieci-quindici volte più bassi. Questa è la legge del capitale: prendere o lasciare. Oggi, il solito Marchionne ha annunciato la messa in cassa integrazioni per 30 mila dipendenti Fiat, tutti quelli degli impianti nazionali. Le ragioni sempre le stesse, con l’aggiunta della speranza che così facendo il governo, magari sottobanco, sborsi qualche euro a sostegno della tradizionale colonna vertebrale dell’economia italiana.
Alle esternazioni dell’Amministratore delegato della Fiat il governo, nelle persone fisiche di Scajola e Sacconi, e i sindacati sono insorti. Contraddizioni tra capitale e politica, tra la gestione della gravissima crisi che ha colpito uno dei settori trainanti dell’economia italiana e l’apparato politico che dovrebbe dare il suo supporto legislativo ed eventualmente finanziario? Neanche per sogno. Lo scontro, se così si vuol definire la schermaglia, è solo sulle forme ma non sui contenuti.
A governo e sindacati non sono piaciuti i modi di Marchionne, la sua inopportuna esternazione, che non sono state, evidentemente, concordate a tavolino. Non si sono messe in discussione le “legittime” necessità gestionali della Fiat, ma l’inopportunità e la crudezza con cui sono state proposte ai lavoratori e all’opinione pubblica italiana. Il timore è che simili dichiarazioni, seguite da atti conseguenti, senza un’adeguata oliatura degli ingranaggi che muovono il rapporto tra capitale e lavoro, possano portare alla rottura della pace sociale, del bene più prezioso che la borghesia custodisce gelosamente nello scrigno della conservazione economica e politica. Un po’ come dire: si fa ma non si dice, se si dice bisogna recitarlo nei dovuti modi e non mettendo governo e sindacati nella condizione di tamponare la falla. Guai a mettere in crisi la pace sociale, già ci pensa la crisi, se poi si aggiungono le forme poco accorte di uno dei maggiori manager, la frittata rischia di essere fatta, con l’aggiunta di qualche altro uovo che si rompe nella solita padella.
Questo e non altro è il battibecco tra capitale e politica. La pace sociale per il sistema capitalistico nel suo complesso significa che, quando le cose vanno bene, il mercato tira e i profitti ritornano più o meno copiosi a rimpinguare le casse del capitale, i lavoratori devono stare tranquilli affinché il gioco non s’interrompa. Quando le cose vanno male, il mercato non tira e i profitti languono, a maggior ragione, bisogna tener tranquilli i proletari. Occorre che i licenziamenti, la cassa integrazione che ne è l’anticamera, la diminuzione dei consumi da parte delle famiglie dei lavoratori, se non la miseria vera e propria, siano proposte con il dovuto tatto per ridurre al minimo il rischio degli scioperi, delle manifestazioni e di possibili ribellioni allo stato delle cose. Occorre far credere che la crisi è un evento catastrofico naturale, è un portato del mercato internazionale, è un qualcosa che non dipende dall’economia nazionale e che, quindi, va accettata e sopportata perché, poi, ci saranno tempi migliori. Occorre cioè mettere in campo tutte le diavolerie possibili perché la pace sociale duri comunque, evitando che le piazze si riempiano e che il sistema nel suo complesso non venga messo in discussione.
La preoccupazione non riguarda soltanto la borghesia italiana ma quella mondiale. Nei soli paesi Ocse si è arrivati a quasi 250 milioni di disoccupati, di cui 50 milioni solo in questi due ultimi anni, e dappertutto la pace sociale è un bene che deve essere salvaguardato a tutti i costi. L’irritazione di Scajola, Sacconi e sindacati, che, oltretutto, sono quelli deputati a spegnere gli incendi sociali quando scoppiano, non è nei contenuti delle necessità Fiat, ma nella forma in cui sono perseguiti. A prenderlo in quel posto sono sempre gli operai, ma lo devono prendere nei dovuti modi, altrimenti si potrebbero arrabbiare.
Lavoratori, è ora di alzare la testa. È ora di combattere, combattere, combattere. Non solo per difendere il posto di lavoro, il salario, il suo potere d’acquisto, non solo per avere una vita dignitosa in questa società, ma anche per combattere il sistema capitalistico stesso che si basa sullo sfruttamento, che genera crisi su crisi, che per sopravvivere deve chiudere le fabbriche, licenziare, contenere i salari, affamare milioni di lavoratori pur di continuare ad essere quella perversa macchina che per dare il paradiso a pochi deve condannarne all’inferno molti.
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