Il summit tra Usa e Cina

È in atto un progetto di ricomposizione imperialistica di cui Cina e Usa tentano di tracciare le linee portanti

La vera domanda non è se il presidente Obama riuscirà a mettere in atto tutte quelle promesse di cambiamento in politica estera che ha recitato in campagna elettorale, ma quali “nuove” misure porrà concretamente in essere per consentire all’imperialismo americano di essere competitivo sugli scenari internazionali.

La vecchia e disastrosa amministrazione Bush ha lasciato in eredità un’economia devastata, un ridimensionato ruolo imperialistico degli Usa, compressi da tutte le parti dalle nuove borghesie imperialistiche legate alla rendita petrolifera. Messi con le spalle al muro dal ruolo commerciale e finanziario della Cina, dalla determinata ripresa imperialistica della Russia in centro Asia e nell’Europa dell’Est e dal progressivo deperimento del dollaro come unica divisa internazionale in grado di assicurare all’economia Usa un ruolo determinante sul terreno finanziario. A questo bisognava reagire e la “nuova” politica estera di Obama ha provveduto.

Il recente summit con la Cina è il chiaro esempio di come l’amministrazione Obama intenda muoversi nella direzione di salvaguardia degli interessi imperialistici americani nel nuovo contesto imperialistico che la crisi ha prodotto e che le cosiddette via d’uscita impongono. In quell’occasione si è discusso di tutto senza, peraltro, arrivare a delle conclusioni operative. Si è parlato di clima e ambiente, sulle decisioni già prese a Kyoto, ma mai adottate e, in prospettiva, su quelle da adottare nella prossima assise di Copenhagen. I due maggiori inquinatori della terra hanno sottoscritto un documento comune:

“Cina e Usa sono d’accordo sulla transizione verso un’economia verde a basse emissioni di carbonio, come fatto essenziale per il futuro del pianeta.”

L’accordo prevede

“una cooperazione di scienziati ed ingegneri provenienti da entrambi i paesi. Tale centro avrà una sede unica in ogni paese, con finanziamenti pubblici e privati per un importo di almeno 150 milioni di dollari nell’arco dei prossimi cinque anni, finanziamenti equamente divisi tra i due paesi.”

Se si tiene conto che, sino a poco tempo prima i due governi si erano rifiutati per anni di sottoscrivere gli accordi di Kyoto, l’accordo sembrerebbe un gran passo in avanti. In realtà è ben poca cosa. Trenta milioni di dollari all’anno per i due maggiori inquinatori del globo terracqueo sono semplicemente un’inezia, fumo negli occhi a chi si aspettava una svolta che, puntualmente e in sintonia con i chiari di luna finanziari dovuti alla crisi, non è arrivata. La preoccupazione c’è ed è grande, ma non certo per le condizioni di intossicazione del pianeta, bensì per il dopo petrolio che primo o poi arriverà. Per il momento si continua la caccia al reperimento delle fonti energetiche di idrocarburi più importanti e poi, con calma, si vedrà.

Un altro argomento che aveva creato non poche aspettative nelle coscienze dei soliti illusi è quello relativo ai diritti umani. Anche in questo caso ne è venuto fuori un piccolo aborto che ha evitato di affrontare il toro per le corna, rimandando il tutto ad un prossimo futuro dove le buone intenzioni troveranno il regno a cui, da sempre, appartengono. Nel frattempo è comparso un comunicato in cui si afferma come

“ogni paese e il suo popolo (come se la cosiddetta volontà popolare contasse qualcosa ndr) abbiano il diritto di scegliere la propria via e che entrambe le parti abbiano riconosciuto come tra Cina e Stati Uniti esistano divergenze sulla questione dei diritti umani.”

Come dire, non siamo d’accordo ma ognuno faccia i fatti suoi in termini di pena di morte, di lotta al terrorismo, di diritti del lavoro ecc. anche perché la posizione di Obama nei confronti del suo più grande creditore non gli lascia molte alternative.

Gli altri argomenti, dalla cooperazione per l’energia nucleare alle leggi antiprotezionismo, dalla riforma degli organismi finanziari internazionali (IFI) all’uso pacifico dello spazio, hanno avuto il medesimo trattamento, se non inferiore, ovvero di pronunciamenti programmatici senza scadenze precise e senza impegni finanziari di rilievo.

Ma questo era soltanto il contorno, le questioni reali - che verranno affrontate dalla diplomazia effettiva, non quella ufficiale, le cui pseudo conclusioni vengono date in pasto all’opinione pubblica mondiale come si dà un leccalecca ad un bambino - riguardano il vero senso di questo summit, ovvero l’immediato e futuro rapporto imperialistico delle due potenze in chiave anti Europa e, Cina permettendo, anti Russia in termini di controllo e sfruttamento delle risorse energetiche in Asia centrale ma non solo, del ruolo del dollaro in rapporto all’euro e allo yuan cinese, i destini del debito pubblico americano rispetto alle quote di buoni del tesoro nelle mani del governo cinese. In altri termini come le due maggiori potenze imperialistiche mondiali, l’una, gli Usa, in pesantissima crisi economico-finanziaria e l’altra, la Cina, in fase di ridimensionamento del suo apparato produttivo, possano sostenersi a vicenda. Gli Usa pretenderebbero una consistente rivalutazione della divisa cinese per rendere più sostenibile il baratro della propria bilancia dei pagamenti con l’estero. Vogliono assicurazione che il governo di Pechino continui a sottoscrivere i bond emessi dal Ministero del Tesoro per continuare a finanziare i suoi deficit e le sue guerre e pretendono assicurazione affinché le scorte monetarie in dollari della Banca Centrale cinese non vengano diversificate in altre divise, meno che meno in Euro, altrimenti sarebbe la bancarotta della Federal Reserve che andrebbe a sommarsi alle altre bancarotte del settore finanziario e di quello dell’economia reale. La disoccupazione negli Stati Uniti è salita al 10,2%. Il debito pubblico, dopo i salvataggi delle banche e delle finanziarie, delle assicurazioni e della case automobilistiche, è schizzato al 169% del Pil, mentre l’indebitamento complessivo ha superato quota 400%.

Dal canto suo la Cina, che detiene 900 miliardi di dollari in sottoscrizione del debito pubblico americano, che diventano 2000 se si sommano le scorte monetarie in dollari, pretende che il regime finanziario dell’Amministrazione Obama non svaluti ulteriormente il dollaro, operi con manovre finanziarie in modo da rendere sottoscrivibili le emissioni in bond del debito pubblico per non penalizzare le sottoscrizioni cinesi che, nel solo 2008 sono aumentate del 43%. E a proposito delle riserve in dollari, Hu Jintao ha auspicato che gli Usa

“dovranno adottare misure per aumentare il risparmio nazionale e promuovere la crescita sostenibile e non inflazionistica.”

Altra richiesta di Pechino riguarda il protezionismo praticato nei confronti di alcune esportazioni sul mercato Usa come quelle dei tubi di acciaio che hanno aperto l’ennesimo contenzioso tra le due Amministrazioni.

In sintesi, il summit che, a parole, doveva servire alle due potenze per delineare i rispettivi approcci alla varie questioni trattate in funzione del prossimo G20, in realtà si è risolto per essere, come nelle intenzioni, una sorta di G2 che fosse “l’entente cordiale” in grado di gettare le fondamenta di quel processo di ricomposizione imperialistico che la crisi sta rendendo pressante, sulla base di una serie di accordi strategici sulle questioni economiche, commerciali e finanziarie di vitale importanza per entrambi i sottoscrittori.

In questo senso vanno lette le dichiarazioni rilasciate dal presidente cinese:

“la Cina accoglie con favore gli Stati Uniti come una nazione dell’area Asia-Pacifico che contribuisce alla pace, alla stabilità e prosperità della regione.”

E così pure quelle di Obama che lisciano il paese asiatico:

“una Cina forte e prospera è un vantaggio per tutti.”

Poi si sono messi d’accordo anche sul ritorno di Taiwan alla Cina, sulla non ingerenza di Pechino in Iraq e Afghanistan, dove Washington è in procinto di inviare altri quarantamila soldati. Si è trattato delle sanzioni all’Iran, sulle rappresaglie nei confronti della Corea del nord. Il tutto, certamente, fa i conti senza l’oste russo, senza le interconnessioni tra Pechino e Mosca, ma proprio per questo è quanto la “nuova” politica di Obama tenta di fare in una situazione di debolezza che non ha risconti nella recente storia dell’imperialismo americano. Al di là delle frasi retoriche e delle belle parole, l’imperialismo può perdere qualche pelo, ma il vizio rimane sempre lo stesso. Alla domanda, ma quali “nuove” misure porrà concretamente in essere Obama per consentire all’imperialismo americano di essere competitivo sugli scenari internazionali, questo summit è una prima e indicativa risposta.

FD