C’è ancora chi ha fiducia nelle “istituzioni”?

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Volantino per la manifestazione contro la repressione del 17/11/2007 a Genova

Ma quale democrazia

Venticinque imputati per devastazione e saccheggio, una pena base di 8 anni e un cumulo di 225 anni di reclusione. L’omicidio di Carlo Giuliani concluso con un’archiviazione e tutte le altre violenze poliziesche - dai pestaggi della scuola Diaz alle torture di Bolzaneto - rimaste impunite.

C’è forse chi si aspettava qualcosa di diverso dai tribunali di questo stato? C’è forse chi ritiene che le istituzioni siano o possano essere al di sopra delle parti di fronte ai conflitti sociali? C’è forse chi si aspetta ancora qualcosa da un’eventuale quanto ormai improbabile commissione d’inchiesta?

Forse chi è ingranaggio di queste istituzioni sì, chi oggi è al governo e rappresenta l’argine sinistro del sistema sì, chi è fuori dal parlamento ma con queste forze mantiene un rapporto più o meno organico sì. Noi, invece, che alle presunte istituzioni democratiche della società borghese non ci abbiamo mai creduto, riteniamo che sia un problema di rapporti di forza e di lotta di classe, ed è sotto questa luce che bisogna analizzare i fatti di Genova per trarne utili insegnamenti.

Violenza e lotta di classe

A Genova c’è stata la feroce violenza di polizia e carabinieri che una studiata menzogna ha tentato di far passare come risposta a quella dei manifestanti. Altra è stata quella dei provocatori voluta e gestita dalle stesse forze dell’ordine, altra ancora quella di tutti quei gruppi che hanno creduto, e credono, di potere innescare una ripresa della lotta di classe con atti esemplari, mentre essa ha sempre avuto genesi e percorsi diversi da quelli della sterile “battaglia simbolica” contro i celerini.

Ma c’è stata anche la rabbia e la violenza di quelle decine di migliaia di giovani e meno giovani che, una volta scattata la trappola, hanno dato sfogo a tutte le tensioni sociali e personali che da anni andavano covando. Per chi è disoccupato, sottoccupato, con contratti a termine e salari da fame, cui è stato tolto molto dello stato sociale e che nel futuro vede solo incertezza e maggiore sfruttamento, le cariche della polizia sono sembrate, e in effetti erano, il segno che tutto ciò non deve cambiare, e che la brutalità repressiva ha come unico obiettivo quello di mantenere lo stato attuale delle cose.

Per capire il perché di tanta violenza durante e dopo le manifestazioni occorre uscire dagli episodi che l’hanno caratterizzata. Lo scopo non dichiarato era quello di mandare un segnale forte e chiaro a chi vorrebbe opporsi alla mondializzazione capitalistica, in particolare alle frange più radicali del mondo del lavoro, e cioè che lo stato (sia nelle vesti del centro-destra che in quelle del centro-sinistra: i fatti di Napoli 2001 insegnano) avrà nei confronti della piazza tolleranza zero e che ogni manifestazione che si pone, anche se in modo confuso e contraddittorio, contro i meccanismi di questa società dovrà fare conti salatissimi con gli strumenti della repressione.

E domani?

La possibilità che nel breve periodo la sopita lotta di classe riesploda virulenta sia nei posti di lavoro che nelle piazze, prendendo a pretesto avvenimenti di respiro internazionale, scioperi di categoria o altro ancora, non è certo così remota, visto che le condizioni di vita dei lavoratori, sotto i colpi di una crisi economica strutturale che attacca pensioni e salari, aumenta i ritmi e diffonde precariato, vanno sempre più peggiorando. Si aggiunga a ciò che lo scenario politico internazionale è sempre più inquietante: aumentano le frizioni fra i diversi poli imperialistici, aumenta l’escalation militare, aumentano i focolai che potrebbero allargarsi e innescare nuove guerre.

Occorre dunque che i lavoratori “fissi”, precari e tutti coloro che in futuro vorranno cercare di opporsi concretamente a questa società imparino dagli errori del passato e prendano innanzitutto le distanze da tutte quelle forze politiche che hanno diffuso e ancora diffondono la criminale illusione che un altro mondo è possibile anche senza mettere in discussione dalle fondamenta il sistema capitalistico e tutte le istituzioni che lo rappresentano.