Due stati non faranno una liberazione

Deportazioni, distruzioni, massacri di civili inermi e innocenti: la sanguinosa catena, ricominciata oltre un anno fa con la provocazione del nazistoide Sharon, ha subito una tragica accelerazione.

Ma il mini-imperialismo israeliano ha sempre avuto mano libera. Israele si è potuta permettere il lusso di invadere territori che nessun diritto internazionale poteva consentirgli, grazie al veto degli USA, e di infierire sulla popolazione palestinese in termini di repressione e di pulizia etnica a suo piacimento. Tutto questo rientrava - e rientra - nella logica dell'imperialismo americano; difatti, Israele rimane la preziosa testa di ponte degli interessi USA nell'area Mediorentale, nonostante i passeggeri e superficiali screzi. Un ruolo, questo, più che mai indispensabile oggi, quando i contrastanti interessi imperialistici si esasperano sotto la sferza della crisi mondiale del capitale. Ma, per ora, le borghesie arabe, la Russia e, soprattutto, l'Unione Europea all'arroganza statunitense e del suo sbirro israeliano non possono opporre altro che ipocriti quanto impotenti appelli alla pace.

Oltre alle vittime quotidiane dell'aggressione militare, la situazione nei territori occupati e in quelli sotto gestione dell'OLP è sempre stata disastrosa: disoccupazione, sottoccupazione, sottosalario, condizioni di lavoro bestiali, emigrazione massiccia sono la norma. Occupati e disoccupati vivono in baraccopoli e nei campi profughi, senza servizi e acqua potabile; le fogne, quando esistono, sono a cielo aperto e le malattie all'ordine del giorno.

In simili condizioni il reclutamento di proletari e sottoproletari da parte del nazionalismo integralista è quasi automatico e, in mancanza di un'alternativa politica di classe, l'illusione di combattere per una vita migliore sotto una borghesia indigena è forte e inevitabile. Per lo stesso motivo, è inevitabile che buona parte del proletariato israeliano alle prese - sia pure in termini meno drammatici - con licenziamenti, taglio dei salari e dello "stato sociale", si faccia accecare dal nazionalismo guerrafondaio e razzista della propria borghesia.

Ma l'ipotetico stato palestinese, sia nella versione dell'OLP che in quella di Hamas, genererebbe solo un rafforzamento delle borghesie di riferimento, mentre per il proletariato palestinese rimarrebbe la solita disoccupazione e la necessità di emigrare in Israele o in qualche stato dell'area, per rimediare nient'altro che super-sfruttamento e miseri salari. Oggi, nessuno stato sfugge alla "globalizzazione" dei mercati, e non sarà certo la borghesia palestinese a invertire il corso del capitalismo.

Il problema, drammaticamente urgente, è dunque quello di sottrarre i proletariato palestinese - ma anche quello israeliano - alle forche caudine della feroce repressione dello stato di Israele, da un lato, e al richiamo nazionalistico/religioso della propria borghesia, dall'altro, non per un'immediata quanto improbabile soluzione rivoluzionaria - troppo sono gli elementi mancanti, dal partito a un minimo di coscienza di classe - ma perché l'anelito di liberazione che soffia in Palestina, le sofferenze, la rabbia per i soprusi subiti e il sangue versato quotidianamente non si esauriscano in uno dei tanti, tragici episodi di nazionalismo, senza nemmeno gettare il seme di una ripresa della lotta di classe in senso rivoluzionario.

Partito Comunista Internazionalista - Battaglia Comunista