Considerazioni di classe sul movimento No Global

La prima considerazione è che il movimento No Global è sorto e si è sviluppato da Seattle a Genova nel segno della trasversalità sociale. A Genova è sceso in piazza l'intero mondo dell'opposizione politica, dell'antagonismo sociale, della rabbia giovanile, dell'eversione idealistica e di frange proletarie. Un mondo spinto e compresso dalle devastanti conseguenze di un capitalismo che, pur di perseguire i propri interessi di sopravvivenza, dimostra di essere disposto a fare scempio della natura, dei livelli di vita dei paesi arretrati, delle classi lavoratrici in un vortice di attacchi al proletariato mondiale, di guerre e di violenze.

Sia pur con diverse sensibilità politiche e livelli di tensione in "piazza" c'erano tutti. Cattolici, Verdi, Ecologisti, cittadini sdegnati, disoccupati e proletari, giovani studenti e lavoratori precari.

Come si conviene a fenomeni di massa come questo le molle che lo hanno posto in essere sono stante tante, ma una sola la matrice. Ha certamente giovato alla riuscita quantitativa della manifestazione il fattore moltiplicatore. Prima di Genova c'erano stati Seattle, Davos e Nizza. L'evento era atteso e sentito. Normale che le forze politiche antagoniste si siano mobilitate e che abbiano favorito il processo di aggregazione di settori spontanei dell'opposizione politica. Era inoltre una ghiotta occasione per tutti scendere in piazza contro il Governo Berlusconi, in una sorta di segnale d'ostilità, se non di guerra, dopo la sconfitta elettorale. Ma il motore primo è stato il malessere sociale che i precedenti Governi e l'attuale hanno creato a colpi di smantellamento dello stato sociale, di precarietà lavorativa, di disoccupazione e sotto occupazione e di false promesse che suonano come minacce di aggravare ulteriormente tutti i livelli di vita e di lavoro di milioni di proletari. Uno dunque il motivo primo che ha creato "l'episodio" Genova: trasversale l'onda della risposta sociale, molteplici e confusi gli approcci politici e le tattiche di stare sul campo dopo lo scoppio degli incidenti.

La seconda considerazione è che, fatte salve poche eccezioni, e nella più totale mancanza d'indicazioni politiche, il movimento si è espresso nel solo modo in cui oggi può spontaneamente esprimersi, rincorrendo il suono delle sirene riformiste. Ben inteso non solo del classico riformismo, che decenni di pratica sindacale e di condizionamento socialdemocratico dei vari partiti di sinistra hanno finito per installare nel Dna di milioni di lavoratori, ma anche del radical riformismo che pretende di ottenere dal capitalismo ciò che il capitalismo non può dare, senza mai mettere in discussione i suoi rapporti di produzione. La natura di questo ritorno al riformismo, sia nella versione edulcorata del sindacalismo "uno e trino" e dei chierici Ds, che in quello verboso, radicale, di Rifonda, delle Tute Bianche e della autonomia (ed ex autonomia) più o meno di classe, consiste nel fatto che queste forze, per quanto radicali siano e per quanto combattive possano essere nei confronti della repressione, ritengono di dover operare all'interno del quadro istituzionale e delle compatibilità economiche. In nessun caso prendono in considerazione il progetto politico di scontrarsi, non soltanto con le conseguenze economiche e sociali che il capitalismo produce freneticamente, ma anche contro la fonte prima di tutti questi guai che il capitalismo stesso propone con accelerazione geometrica.

Le due facce del riformismo, quella moderata e succube delle Istituzioni, come quella antagonista, più vitale sino al punto di accettare le provocazioni degli organismi di polizia, trovano un concreto terreno di accordo su temi classici quali: la Tobin Tax come momento finanziario di risanamento delle economie dei paesi del terzo e quarto mondo; la cancellazione dei debiti esteri di questi paesi; lo stanziamento di fondi per combattere le malattie; il sostegno ai commerci equi e solidali; la possibilità di uno sviluppo compatibile ecc. Tutte proposte buone ma, vecchio vezzo del riformismo, si cerca di agire sugli effetti lasciando in piedi le cause. Si combatte, magari con forza e determinazione degne delle migliori intenzioni, contro le nefaste conseguenze di un sistema economico e sociale arrogante, iniquo, sfruttatore e criminale, ma all'interno del quadro economico che le genera senza porre il problema del suo superamento.

Il riformismo è endemico al capitalismo e alla stessa lotta di classe. Sino a quando i rapporti di produzione capitalistici saranno in grado di esprimersi sul terreno della creazione e delle distribuzione della ricchezza sociale, finché il proletariato non avrà imboccato la strada della rivoluzione politica, la necessità e l'obiettivo di migliorare o difendere le proprie condizioni economiche e sociali all'interno delle società borghese, saranno la costante dell'esprimersi del conflitto di classe. Nulla di nuovo ma con alcune precisazioni.

La prima è che ad ogni tappa dello sviluppo delle contraddizioni del capitalismo corrisponde un tipo di riformismo, sia sul terreno meramente rivendicativo sia strategico. La seconda è che il riformismo attuale, figlio della scomparsa delle "ideologie", ferito dal crollo dei falsi paesi del socialismo reale, non persegue più una alternativa al capitalismo, ma ne accetta l'esistenza limitandosi ad invocare condizioni di vita più umane. Ieri il riformismo aveva l'illusione di arrivare ad una società comunista attraverso l'impossibile strada delle riforme politiche ed economiche, rinunciando all'unico percorso possibile, quello della rivoluzione proletaria. Oggi il riformismo, anche nella sua versione più radicale e violenta, non si pone l'obiettivo dell'alternativa sociale, agisce all'interno del quadro economico politico borghese, e anche quando produce conati di progettualità alternativa, rimane invischiato al programma minimo delle riforme e delle rivendicazioni, lasciando nella più totale indeterminatezza l'obiettivo di fondo.

La terza considerazione riguarda la scarsa comprensione dell'attuale fase del capitalismo internazionale, quindi della stessa globalizzazione che si vorrebbe combattere. Gli scarsi saggi del profitto, le difficoltà del capitale a valorizzarsi, l'acuirsi della concorrenza su tutti i mercati internazionali, hanno enormemente ristretto i margini di contrattazione tra capitale e forza lavoro, tra paesi ricchi e paesi poveri, rendendo più difficili, in alcuni casi addirittura impossibili, le vecchie pratiche riformistiche.

Detto in parole semplici, il capitalismo dei decenni passati, se pressato dalla lotta di classe, poteva concedere qualcosa in termini di salario e di stato sociale, quello attuale non è in grado di farlo, nemmeno se lo volesse, tant'è che non solo non concede ma attacca su tutti i fronti il mondo della forza lavoro. Ciò non significa che la ripresa della lotta di classe e le istanze politiche dei movimenti sociali non debbano richiedere e rivendicare, ma semplicemente che il riformismo ha meno spazi di manovra, che è infinitamente meno praticabile e più inconsistente sul terreno della capacità di ottenere degli obiettivi, seppur minimi.

L'ultima attiene alla questione di fondo, che il riformismo cioè, in tutte le epoche, in qualsiasi situazione e a qualunque fase del capitalismo si riferisca, è la pratica politica controrivoluzionaria che deve essere estirpata dal seno del proletariato se si vuole che la ripresa della lotta di classe possa incamminarsi verso soluzioni rivoluzionarie che ne sono politicamente l'antitesi.

L'attuale movimento No Global è a pieno titolo all'interno di questa impostazione riformistica con l'aggravante di aver capito poco del fenomeno della globalizzazione e delle armi politiche per combatterlo. La globalizzazione, così continuiamo a chiamarla per facilità di discorso, è nell'essenza figlia della crisi di accumulazione che sta da anni colpendo, in tempi e velocità diverse, tutto lo scenario capitalistico mondiale. I saggi del profitto progressivamente più bassi hanno reso il capitalismo sempre più aggressivo sia nei rapporti domestici con la sua forza lavoro, sia in termini di esasperata competizione sullo scenario mondiale. Per il grande capitale, globalizzazione significa l'abbattimento di tutti gli ostacoli al suo processo di valorizzazione, di sfruttamento e controllo delle risorse naturali ed energetiche e della forza lavoro su qualsiasi mercato si trovino.

Sul mercato finanziario la globalizzazione ha espresso la nascita di tutti gli strumenti più sofisticati per richiamare il risparmio e la speculazione internazionali. Ha imposto il crollo delle borse più deboli nel tentativo, peraltro vano, di contenere al proprio interno le crisi finanziarie. Su quello monetario la lotta tra l'area del dollaro, quella dello yen e quella ancora in creazione dell'Euro, ha toccato vertici mai visti. Sui mercati commerciali si richiede a gran voce l'abbattimento di tutte la barriere doganali per consentire al grande capitale produttivo e commerciale di poter invadere ogni area, senza avere ostacoli di sorta, devastando le economie dei paesi più deboli. Sul mercato delle materie prime, petrolio innanzitutto, si sono combattute due guerre (Golfo e Kosovo), mentre va delineandosi un terzo scenario di crisi in Afganistan e Pakistan per il controllo all'origine del petrolio caucasico. Ormai da anni anche il rapporto tra capitale e forza lavoro ha subito, e sta ancora subendo, profonde modificazioni. L'attacco del capitale consiste nel contenere i costi del lavoro a colpi di smantellamento dello stato sociale (cioè, la rapina del salario indiretto e differito), di diminuzione del potere d'acquisto dei salari, nel creare normative che gli consentano di sfruttare la forza lavoro solo nei momenti economicamente produttivi e di liberarsene quando gli fa comodo. Flessibilità in entrata, flessibilità in uscita, precarietà del posto di lavoro, contratti a tempo determinato sono il bagaglio normativo di cui si è dotato per contenere la sua crisi di valorizzazione. In più la globalizzazione ha reso necessario il decentramento produttivo in quei paesi della periferia dove il costo della forza lavoro è anche di cinquanta volte più basso. Intensificazione dello sfruttamento, disoccupazione e sotto occupazione sono il risultato di questo feroce attacco. La spiegazione non è nella scelta politica di questo o quel capitale, delle politiche economiche inique, o d'atteggiamenti più o meno liberali di questa o quella borghesia. Quando i saggi del profitto sono talmente bassi da rendere difficoltoso il processo di valorizzazione, il capitale deve diventare più aggressivo sia nei confronti dei capitali più piccoli, sia contro il proletariato interno che internazionale. La globalizzazione non è figlia soltanto del capitalismo, ma di un capitalismo malato che con fatica sopravvive alle sue contraddizioni cercando di spostare una parte della sua crisi sui paesi più deboli, sul proletariato mondiale, senza rinunciare ad episodi di guerra, incurante delle devastanti conseguenze che non sono un'opzione ma una necessaria appendice.

Se questa è la struttura portante su cui si innesca il fenomeno della globalizzazione con il carico di conseguenze che sono chiare e riconoscibili sino all'evidenza, il movimento anti global o è anti capitalistico o non è. Pretendere di ottenere, magari con la forza, un comportamento da parte del capitale che sia contro se stesso, fermi restando i rapporti di produzione capitalistici, è come tuffarsi nel mare pensando di non bagnarsi. Il riformismo è impotente e la sua impotenza, spacciata per l'unica via percorribile contro i guasti del neo liberismo, finisce per essere un ostacolo alla crescita rivoluzionaria del movimento stesso che oggi è nato, e alla ripresa della lotta di classe che potrebbe partire domani. Ciò non significa eludere i problemi contingenti per proiettarli in una dimensione teorica ed astratta, al contrario significa imboccare l'unica strada percorribile, quella di legare gli effetti alle cause, combattere le seconde per eliminare i primi. Ogni altra soluzione non soltanto è destinata al fallimento, ma finisce per ingenerare false aspettative all'interno degli attuali e futuri accenni di ripresa della lotta di classe allontanandoli dai suoi veri obiettivi.

In questa dimensione degli accadimenti due sono le direttive su cui devono lavorare i rivoluzionari.

  • La prima è che la prassi degli appuntamenti di lotta non deve essere scadenzata solo dalle manifestazioni contro la globalizzazione (G8 - Fao - Nato) come se, espletata la pratica con relativo scontro con le forze di polizia, si sia esaurito il problema. O c'è continuità nella lotta oppure la tensione finisce per scemare nel nulla.
  • La seconda riguarda la necessità di spostare nei luoghi di produzione, dove opera il rapporto tra capitale e forza lavoro, i termini dello scontro. Lì e solo lì nascono le contraddizioni del capitalismo: lo sfruttamento, le difficoltà di valorizzazione del capitale, le necessità di superare la concorrenza, gli imperativi della competitività, le decisioni di conquistare i mercati ecc. Lì deve iniziare a crescere la coscienza di classe che vede nel capitale il motore primo dello sfruttamento e di ogni dissesto della società borghese nazionale e internazionale, e da lì devono partire le prime lotte di opposizione che successivamente, con una maturazione politica superiore, ritornano alla piazza.

È pur vero che in un progetto politico di questo genere occorre tenere presente una delle caratteristiche salienti del proletariato moderno, soprattutto quello giovanile, che si è andato formando in un contesto lavorativo completamente nuovo. Oggi le grandi concentrazioni operaie sono finite. Il proletariato è stato diviso al suo interno tra una componente "garantita", un vasto esercito di riserva costituito da disoccupati di breve e lungo periodo, e lavoratori a part time o interinali che sono soprattutto giovani. Questi giovani proletari, che sopravvivono grazie all'ammortizzatore sociale "famiglia", hanno una vita lavorativa, e quindi di fabbrica, saltuaria e spezzettata. Più difficilmente possono trovare nel luogo di lavoro un momento di aggregazione politica come era nel passato. Non si sentono garantiti né dal sindacato né dai partiti della sinistra, sono in concorrenza con gli anziani, avvertono il peso dello sfruttamento e trovano più facile esprimere la loro rabbia in appuntamenti generali come i movimenti anti globalizzazione. Proprio per questo occorre dare a queste frange di giovani proletari, che, a titolo quasi individuale, si sono ritrovati a Genova a manifestare a fianco di giovani studenti di provenienza proletaria un riferimento di classe.

L'anticapitalismo come natura dell'anti globalizzazione, oltre ad essere uno slogan, deve proporsi come pratica quotidiana sul posto di lavoro. Occorre favorire la crescita di un denominatore politico comune tra i vari spezzoni del proletariato.

Occupati e disoccupati, giovani e anziani proletari, "garantiti" e precari sono tutti figli dello sfruttamento capitalistico. Si deve allora partire lottando in fabbrica, e nei luoghi di lavoro in genere, contro i contratti a termine, contro il lavoro interinale, contro la riforma delle pensioni, contro le leggi inique del capitale e le sue compatibilità,

Questo significa marciare verso una ricomposizione politica di classe per combattere la globalizzazione in quanto espressione del capitalismo partendo dai suoi rapporti di produzione. Solo così può nascere una coscienza di classe antagonista nei confronti del capitalismo, e quindi della globalizzazione.

Noi internazionalisti ci muoviamo verso quella ricomposizione di classe e verso le prospettive rivoluzionarie, che sole possono fermare la corsa imperialista all'imbarbarimento e alla guerra.

PCInt, GLP