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Home ›Ocalan e il PKK vittime delle manovre americane anti Saddam e della rendita petrolifera
Il caso Ocalan è ritornato di attualità, questa volta non soltanto in Italia, ma a dimensione internazionale. L’arresto e la sua deportazione in Turchia appare per essere una spy story nella quale sono intervenuti i servizi segreti di mezzo mondo, Cia e Mossad compresi, quali garanti dell’ordine anti terrorismo internazionale. Nei fatti la vicenda ha un retroscena più complesso.
Ocalan fondatore e leader del Pkk (partito del lavoro del Kurdistan) per la popolazione curda di Turchia è un eroe nazionale. Un combattente per la causa della riunificazione e dell’indipendenza del Kurdistan, territorio smembrato dalle potenze imperialistiche europee subito dopo la caduta dell’Impero Ottomano alla chiusura della prima guerra mondiale.
Per il governo turco è un terrorista, un feroce assassino responsabile della morte di molti militari del regime, un pericoloso avversario dell’integrità territoriale turca, il nemico numero uno, un personaggio politico da inseguire per tutto il pianeta, da arrestare a qualsiasi costo, da condannare esemplarmente e da uccidere se necessario.
Non ha importanza per i dirigenti di Ankara se in settanta anni di storia i Curdi abbiano subito repressioni inumane e morti a milioni, nel vecchio Kurdistan di ottomana memoria c’è il petrolio e ciò basta a giustificare ogni sorta di repressione e di nefandezze.
Nei fatti Ocalan è un nazionalista che a partire dal 1970, data di nascita del Pkk, non ha esitato a paludarsi di sovietismo in chiave stalinista pur di ricevere appoggi finanziari e militari da parte dell’Urss. Il che, se da un lato gli ha consentito di bruciare le tappe organizzative sino a diventare il più importante partito curdo in territorio turco, dall’altro lo ha esposto alle critiche e alle rappresaglie degli altri partiti filo occidentali o di allineamento anti sovietico. Anche Il suo comunismo di facciata, se per un verso gli ha consentito di aggregare notevoli frange della popolazione più diseredata su di un programma vagamente progressista, dall’altro non ha potuto nascondere le ambizioni rigidamente nazionalistiche che hanno insospettito prima, e esasperato poi, le analoghe ambizioni delle borghesie curde iraniane e irachene.
Per la stessa popolazione curda irachena Ocalan è un personaggio scomodo da non difendere e in alcuni casi addirittura da combattere.
In Iraq, i partiti omologhi del Pkk sono due. Il primo è il Pdk (partito democratico del Kurdistan) di Massud Barzani e l’altro è l’Upk (unione patriottica del Kurdistan) di Jalal Talabani. In origine anche i due partiti curdi iracheni perseguivano l’obiettivo della riunificazione di tutte le componenti dei territori curdi (Turchia, Urss Iraq, Iran e Siria), oggi, dopo la guerra del Golfo le cose sono cambiate, così come i loro rapporti con il Pkk.
L’amministrazione americana, con l’obiettivo di tenere sotto controllo la zona, di alimentare una opposizione contro il regime di Saddam Hussein, di tenere al contempo fuori dai giochi gli alleati occidentali, e soprattutto di isolare un’area petrolifera di notevole interesse anche per l’eventuale passaggio di oleodotti, ha preso accordi con Barzani e Talabani.
Convocatili il 17 settembre 1998, Clinton ha promesso una larga autonomia amministrativa nei loro territori (al di sopra del 36° parallelo nella cosiddetta no fly zone). Ha loro consentito di continuare a praticare una sorta di tassazione su tutte le merci in transito, di fare contrabbando di armi, droga e petrolio per un valore di un milione di dollari al giorno. Non poco per una economia agro pastorale, tecnologicamente arcaica, tradizionalmente povera se non misera. In compenso l’amministrazione Clinton ha preteso che i due esponenti curdi iracheni cessassero ogni forma di ostilità reciproca, rinunciassero al progetto di indipendenza del Kurdistan e isolassero il partito di Ocalan.
Detto e fatto. Talabani e Barzani sono diventati i paladini degli interessi americani nell’area, si sono resi disponibili per qualsiasi avventura politica in Iraq dopo l’eventuale caduta del regime di Saddam e hanno preso le distanze dal Pkk ritenendo il suo programma di riunificazione e di indipendenza curda vecchio, impraticabile e pericoloso al punto di tagliargli le vie di rifornimento in armi e in viveri e non solo quelle politiche e di solidarietà politica. Così Ocalan si è trovato isolato, braccato dal governo turco, in pericolo anche in quella Europa dove aveva tentato di trovare rifugio.
Come se non bastasse è stato scaricato dalla Siria di Assad preoccupata di non turbare le sue trattative internazionali per la restituzione delle alture del Golan. La Russia che proprio la settimana scorsa ha firmato con il governo turco un contratto miliardario (in dollari) per la costruzione di un gasdotto, si è ben guardata dal prendere posizione in favore di Ocalan e del suo partito.
L’Europa e l’Italia dal canto loro se ne sono liberate per non sostenere quel processo di pace cui Ocalan puntava, sul modello iracheno, e che avrebbe consentito agli Usa di rafforzare col gas-oledotto caspico, la propria egemonia sul petrolio, comprendendo quello degli stati attorno al Mar Caspio.
Con un simile scenario è stato un gioco da ragazzi per i servizi segreti turchi, con la collaborazione della Cia e del Mossad e la disponibilità del Consolato di Grecia in Kenya, catturare il leader curdo e tradurlo nelle carceri di Ankara.
Gli Usa mantengono così la propria ferma presa sulla Turchia tenendo aperte le due opzioni possibili: pacificazione politica o pacificazione con genocidio - purché si possa posare l’oledotto.
Il caso Ocalan propone un insegnamento con relativo corollario. Per i residui movimenti di liberazione nazionale, anche dopo la fine della guerra fredda, non ci sono spazi economici e politici se non quelli angusti che possono aprirsi solo a condizione di adeguarsi alle esigenze dell’imperialismo più forte dell’area e che non contemplano mai autonomia e indipendenza. Tantomeno se hanno l’ambizione di esprimersi in aree economiche di rilevante importanza come quella del Kurdistan dove la gestione del petrolio quale materia prima strategica va al di là del mero calcolo economico.
In più va detto come, in una fase storica di dominio globalizzante del capitale, dove tutto, dai mercati finanziari a quelli commerciali, dalla gestione delle materie prime al controllo dei mercati della forza lavoro, non c’è bisogno di essere comunisti e rivoluzionari per incappare nelle maglie della repressione internazionale, ma è sufficiente che il proprio essere borghese e nazionalista sia in contrasto con le inviolabili leggi del capitalismo dominante.
Se è vero che episodi come questi si sono sempre verificati e che l’imperialismo non ha mai risparmiato i nazionalismi di qualunque segno o ideologia che ostacolassero il suo cammino, è anche vero che mai come in questa fase storica si assiste ad una feroce tempestività di intervento e di repressione che è pari solo alla necessità di crearsi spazi vitali ai propri saggi di profitto eliminando ogni possibile intoppo. Dalla guerra del Golfo a Ocalan, passando per la Yugoslavia e il Kossovo, la musica è sì sempre la stessa, anche i suonatori, ma cambiano i suonati e le velocità di esecuzione.
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