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Uno sguardo sul mondo - La barbarie della società borghese
Guardando alle condizioni generali in cui versa l’umanità, alle soglie del 2000, si è assaliti da un senso di disgusto. La fame attanaglia, in forme più o meno gravi, i due terzi della popolazione del globo e ogni anno provoca la morte di milioni e milioni di esseri umani, bambini soprattutto. Il divario tra paesi sviluppati e sottosviluppati si aggrava costantemente; meno di un quarto della popolazione mondiale detiene più dell’85 per cento delle ricchezze.
I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. La maggioranza degli abitanti di interi continenti, e nelle stesse megalopoli costruite dalla civiltà del Capitale, sono al limite della sussistenza: una marea di affamati tende la mano per raccogliere le briciole cadute dalle tavole imbandite dei ricchi. Queste masse disperate sono tenute a bada dalle locali classi privilegiate; da borghesie indigene che fanno da tramite alla grande finanza internazionale per la perpetuazione dello sfruttamento e dell’affamamento, in cambio di appoggi militari e politici.
È impressionante vedere come nella geografia della fame si sovrapponga rapidamente quella della militarizzazione e poi delle guerre civili e locali (in Europa come in Africa, in Asia e America), in una spirale allucinante di barbarie e crudeltà. Ma tutto questo è ancora più drammatico se si pensa che le conquiste scientifiche e tecnologiche hanno completamente slegato il problema della povertà dal caso accidentale, e lo hanno reso un fenomeno razionalmente convertibile nel suo opposto, cioè nella disponibilità dei necessari mezzi e beni per tutti. I diseredati, gli emarginati, gli affamati e i perseguitati di tutto il mondo sono, quindi, non il prodotto dell’insufficienza delle forze produttive disponibili, ma sono il risultato dell’ingabbiamento di queste stesse forze nello schema capitalistico di produzione e distribuzione. Un modo di produzione che per garantire la propria sopravvivenza ha bisogno di una ripartizione della ricchezza sempre più iniqua all’interno dei singoli Stati, e di un dissanguamento delle economie più deboli attraverso una forma di usura legalizzata internazionalmente.
La questione perciò non si riduce semplicemente alla presenza di paesi più ricchi e paesi più poveri. Così sembrerebbe che in Italia stiano tutti bene, e in Senegal tutti male, negando cioè l’esistenza delle classi in entrambi gli Stati. Ma la verità è che i popoli sono divisi in classi sociali, e che anche in Italia i poveri (al di sotto della soglia ufficiale di povertà) sono oltre sei milioni e mezzo; più di 50 milioni in Europa e altrettanti negli Usa. Questo conferma che la distribuzione delle ricchezze è iniqua fra paesi e ancor più iniqua fra le classi sociali dei medesimi paesi.
La differenza tra un povero dei ghetti Usa e un abitante di Beverly Hills è la stessa che c’è fra un proletario delle bidonvilles senegalesi e un borghese di Victoria con i capitali investiti a Parigi o a Ginevra. Non ci vengano dunque a parlare di cambiamenti di politica del mondo industrializzato verso i paesi poveri: ai capitali delle metropoli ricche partecipa pure il capitale dei paesi periferici poveri. E se la miseria invade anche le metropoli, questo significa che deve essere cambiato il modo stesso di produrre e distribuire, oggi imperante nel mondo.
Il capitalismo è il vero cancro dell’umanità, e la sta conducendo nel baratro della storia. Esso si regge sullo sfruttamento bestiale e su un intrighi politici, militari, finanziari che sono alla base della sofferenza di centinaia di milioni di esseri umani e delle loro vite mai vissute.
Non è più tempo di illusioni
Lo scopo di questo opuscolo è quello di contribuire alla conoscenza e diffusione di alcune fondamentali posizioni, teoriche e pratiche, che caratterizzano il comunismo, il socialismo scientifico. Una premessa però si impone, in riferimento agli ultimi sconvolgimenti mondiali che hanno visto il completo disfacimento dell’impero russo e dei suoi satelliti. Il suo crollo è stato spacciato - da ogni parte e attraverso una vasta strumentalizzazione ideologica - come "la fine storica del comunismo e la crisi mortale del marxismo". L’annuncio di questo pseudo "fallimento" ha gettato nella confusione milioni di proletari, ingannati da decenni di menzognera propaganda. È quindi necessario, innanzitutto, sgombrare le macerie di tante tragiche mistificazioni, coltivate e diffuse a suo tempo dagli opposti schieramenti - russo e americano - dell’imperialismo mondiale.
Accettata la tradizionale distinzione tra socialismo e comunismo - e per la quale il primo è lo stadio iniziale del secondo, ovvero il socialismo è il periodo di transizione tra capitalismo e comunismo sotto la direzione politica e sociale del proletariato - ebbene, il regime dominante in Russia e nell’Est europeo non era né socialista né comunista.
Comunismo da sempre significa un tipo di società in cui è assente lo Stato in quanto amministrazione forzata degli uomini; una società dove sopravvive soltanto una semplice amministrazione delle cose, gestibile da chiunque (anche da una cuoca, diceva Lenin). Non erano certamente comunisti quei regimi in cui veniva indicato come compito primario il rafforzamento dello Stato, dei suoi apparati burocratici, polizieschi e militari. (Dalla Russia alla Cina, ai rispettivi satelliti, Cuba compresa).
Socialismo - in termini rivoluzionari e marxisti - ha sempre significato una società nella quale la produzione è finalizzata ai bisogni della collettività, ovvero a soddisfare i bisogni e i consumi dell’insieme di donne e uomini reali. Non è certamente socialista un regime dove i produttori sono costretti a vivere di magrissimi salari ricevuti in cambio di un lavoro rivolto alla valorizzazione del capitale, al rafforzamento della economia statale e della potenza militare; in una logica, dunque, del tutto estranea agli interessi sociali e immediati dell’uomo.
Il socialismo è sempre stato considerato nelle coscienze proletarie come la libera associazione dei lavoratori produttori per il governo della società. Non c’è socialismo là dove i produttori reali sono espropriati di ogni forma di potere, concentrato invece nelle mani di una classe riunita e che si riconosce in un partito unico, che si erge come padrone e avversario dei lavoratori.
Nessun socialismo è finito all’Est (o in Cina) perché non è neppure storicamente iniziato. È finito invece un modo di gestire l’economia e la società, che non era più adeguato ad amministrare la situazione di profonda crisi economica in cui sono rovinosamente precipitati anche i paesi dell’Est, Urss compresa, dopo la "ricca" recessione del capitalismo occidentale. Lo stalinismo è stato una parentesi - temporanea e necessaria allo stesso Capitale - per l’affermarsi, nell’Europa orientale, di quell’economia capitalista che ora ritorna ad avere la sua direzione politica normale: liberista e democratico borghese.
Nessuna rivoluzione, dunque, si è oggi compiuta contro il... comunismo, a meno che non si voglia chiamare rivoluzione anche il cambio di regime avvenuto, per esempio, in Cile, dove le masse operaie sono passate dal monopartitismo dittatoriale di un Pinochet al "paradiso democratico" e non sembra che abbiano cambiato molto la loro situazione di miseria, anzi. Esattamente come, altro esempio, in Polonia, dove la cattolicissima Solidarnosc, passata al governo, non ha saputo far altro che chiedere agli operai di sopportare altri sacrifici. Per il bene del Paese, e della sua economia: il capitalismo.
Non di meno, c’è chi inneggia - spacciandosi addirittura per una sinistra...rivoluzionaria - alle "rivoluzioni democratiche" dei paesi dell’Est, alle "masse popolari che fanno la storia dischiudendo una Nuova Epoca"...
In questa palude interclassista affondano tutti coloro i quali non riescono a liberarsi dai meccanismi perversi dell’eredità stalinista o del suo rovescio democraticistico (l’antistalinismo).
Quale socialismo è crollato?
Quello che alla fine degli anni Ottanta è andato in crisi nell’Urss non è - lo ripetiamo - il programma comunista, la cui realizzazione è stata bloccata nella seconda metà degli anni Venti dall’isolamento internazionale, prima, e dalla controrivoluzione stalinista, poi. (Fra l’altro, con la eliminazione fisica dell’intero gruppo comunista bolscevico, dirigenti e militanti). Nell’Urss è crollato, quindi e in seguito, un sistema economico capitalistico gestito ossessivamente da una classe borghese burocratico statale, che ha tradito ogni principio comunista e contrabbandato il rafforzamento delle categorie economiche capitalistiche (merce, salario, profitto) come conquiste socialiste. La crisi dell’impero sovietico è stata la crisi dei meccanismi di valorizzazione del capitalismo di Stato, non altro.
La mistificazione della costruzione del comunismo in Russia è stata la linfa politica sulla quale i controrivoluzionari e gli opportunisti di ogni risma hanno basato il consenso e il potere. E oggi che tutto è crollato, e che rimanere fedeli alla menzogna non paga, gli stessi controrivoluzionari e opportunisti di ieri si sono immediatamente riciclati in elementi politici democratici, pluralisti ma, soprattutto, anticomunisti. Piaccia o no, lo stalinismo, che tante vittime ha fatto da vivo, riesce a produrre dissesti e disorientamenti anche da morto. Così come ieri si è frapposto tra le masse proletarie e le sue avanguardie distruggendole politicamente e fisicamente, oggi nel momento del suo storico tracollo si ripropone come barriera alla ripresa della coscienza di classe.
La sorte subita dalla Rivoluzione russa del 1917
Quando il potere borghese riuscì a schiacciare la dittatura proletaria della gloriosa Comune di Parigi nel 1871 (da questa data ha storicamente inizio la lotta rivoluzionaria del proletariato contro la borghesia) tutti capirono che il grande rivolgimento sociale, che sembrava dovesse verificarsi in Francia, non si era avuto. Tutti capirono che in Francia veniva ristabilito, nella sua interezza e in tutto il territorio, il potere borghese minacciato dal proletariato parigino. Fu chiaro che a quel primo fallito tentativo rivoluzionario seguiva la controrivoluzione. Mezzo secolo più tardi, soltanto pochi militanti hanno potuto capire immediatamente, giovandosi non certamente di doti personali ma del metodo critico marxista, che l’avvento dello stalinismo in Russia rappresentava ciò che l’entrata dell’esercito versagliese a Parigi aveva significato per il movimento comunista ai suoi inizi.
La politica controrivoluzionaria dello stalinismo, applicata contro la vittoria proletaria dell’Ottobre Rosso, fu mascherata e resa indecifrabile dalla messa in moto della rivoluzione di tipo antifeudale. La Russia, che il potere sovietico ereditò dallo zarismo, era ancora arretrata nel suo sviluppo capitalistico: un oceano di agricoltura di tipo semifeudale che circondava da tutti i lati sparsi lembi di industrialismo. Bisognava, e Lenin lo ripeté innumerevoli volte, operare una doppia rivoluzione: eliminare il semi-feudalesimo e saltare la fase capitalistica, procedendo verso il socialismo. Ma, perché si potesse attuare questo immenso programma, bisognava allargare l’area dei movimenti rivoluzionari fino a comprendere i maggiori paesi capitalisti europei. L’alleanza borghese socialdemocratica in Europa lo impedì. Né la diffusione della falsa teoria stalinista sulla possibilità della "edificazione del socialismo in un solo paese" (una vera e propria bestemmia teorica), permise che i piani quinquennali elaborati dallo Stato superassero la fase capitalistica in cui l’economia russa era entrata. Infatti l’Urss rimase ferma allo stadio del capitalismo di Stato.
Il fallimento dell’Est non può coprire quello dell’Ovest
A Berlino o a Londra, a Parigi o a Roma, le vetrine luccicano di ogni bene (per chi ha il portafoglio pieno); ma che questo sia il migliore dei mondi possibili lo può dire e pensare solo chi ne gode, chiudendo gli occhi davanti alle miseria generalizzata nel mondo e nella stessa "società del benessere" in cui vive.
Le condizioni dei paesi industrialmente sottosviluppati non hanno bisogno di commenti: sono il risultato del dominio di quello stesso capitalismo - sia in aperta forma di dittatura statale e sia in mascherata forma democratica e liberista - il quale, in base alle sue leggi economiche, condanna alla miseria centinaia di milioni di esseri umani come condizione della valorizzazione del capitale internazionale, ovvero dell’affannoso arricchimento dei borghesi di tutto il mondo.
Democrazia o stalinismo, liberismo o statalismo, in realtà siamo nuovamente sbattuti di fronte al fallimento del capitalismo, che considera l’uomo stesso una merce e regola secondo le necessità del mercato ogni forma e ogni contenuto della vita associata.
Il mercato è una entità astratta, fondata sulla feticizzazione della merce, ma dietro la quale agiscono gli interessi ben concreti di una minoranza di individui (che costituiscono una classe della società) possessori in forma diretta o indiretta dei mezzi di produzione, e impegnati nella valorizzazione del capitale quale unico mezzo e condizione del proprio arricchimento e privilegio.
Non diversamente avviene nel capitalismo di Stato, dove la proprietà sostanziale dei mezzi di produzione non si identifica con il loro possesso formale, ma con il possesso effettivo delle leve finanziarie e amministrative della produzione e della distribuzione.
Il capitalismo è nato liberale perché, necessariamente, esso ha liberato, dai vincoli antichi della casta e dell’ordine medioevale, il primato dell’individuo sulla collettività. Ed è sulle basi di questo primato che milioni di esseri umani muoiono di fame mentre pochi altri accumulano migliaia di miliardi r ricchezze di ogni genere, cullandosi nel lusso materiale, nello spreco egoistico e nelle raffinatezze spirituali della loro "cultura".
Poi, nella realtà attuale, il capitalismo nega di fatto la "libera" piccola iniziativa, sottomessa alle condizioni e agli arbitri delle grandi concentrazioni monopolistiche e finanziarie; così come impone la sparizione di ogni autonomia delle imprese individuali, sino alla assimilazione e subordinazione di intere società per azioni a holding nazionali o multinazionali. Ebbene, anche questo fa parte delle contraddizioni proprie del capitalismo che in nome della libera impresa individuale giunge a negarla di fatto proprio là dove più ideologicamente e demagogicamente la esalta (Usa, Europa Occidentale, Giappone). Il pensiero borghese, in ogni sua forma, dice che l’interesse sociale si ricompone nell’armonia degli interessi individuali. Lo constatiamo ogni giorno!
Nella "armonizzazione degli interessi individuali" la produzione capitalistica sta avvelenando il mondo sino a rischiare l’irreparabile anche per una umanità finalmente liberatasi nel comunismo.
Non possiamo costruire una nuova società sui sassi. No, è sempre più l’ora di affermare il prevalere del sociale sul personale, della solidarietà collettiva sull’egoismo individuale.
Quale società costruiremo?
Innanzitutto, una società che produca per la soddisfazione dei bisogni reali dei suoi membri, e non per il mercato e il profitto.
Ciò è possibile, e sarà realizzabile, solo sulla base del censimento dei bisogni sociali e la riorganizzazione della produzione in questo senso. La condizione di un nuovo orientamento dei mezzi e dei fini della produzione è dunque la loro socializzazione.
Socializzazione non significa nazionalizzazione o statizzazione, dove restano dominanti le leggi del mercato e il rispetto delle categorie economiche del capitalismo. Significa invece l’accentramento dei mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori associati che li impiegheranno a produrre quanto essi stessi, dalla loro base territoriale, avranno deciso essere necessario per soddisfare i bisogni di tutti.
È solo in queste condizioni che potrà essere realmente e completamente ripensato e razionalizzato il rapporto fra produzione, progresso della produzione e ambiente, o fra ricerca scientifica e scuola e reali bisogni della collettività (fuori dalle ideologiche astrazioni sulla autonomia della cultura, e nelle quali rischia di inciampare oggi anche una più che legittima opposizione all’ingresso istituzionale dell’impresa nell’università).
L’organizzazione statale non deve più essere dedicata a garantire lo sfruttamento di una classe sull’altra (questa è stata ed è la funzione storica di ogni Stato) ma solo a condurre in porto il programma di distruzione del capitalismo sin dalle sue fondamenta, e di socializzazione di tutti i rapporti di produzione e distribuzione.
I lavoratori sono l’ultima classe sfruttata; non hanno nessuno da sfruttare e dunque, una volta annientato il nemico capitalista e la reazione borghese, non avranno più necessità di una amministrazione degli uomini, divisi in classi contrapposte, ma unicamente di una amministrazione delle cose. È chiaro - ma lo ricordiamo ai ricercatori di nuovi "soggetti" rivoluzionari - che sono soltanto i produttori reali, i proletari, a possedere la chiave di apertura di una nuova storia e di una nuova società. La classe operaia, i salariati sfruttati dal capitale, rimane l’unico vero soggetto rivoluzionario, ed è ai suoi movimenti e interessi che va riferita ogni possibilità di lotta realmente antagonista al capitale. Lo stato-Comune sarà perciò e in realtà un semistato destinato alla estinzione, e come tale dovrà insediarsi nella prima fase rivoluzionaria del socialismo.
Può sparire immediatamente il burocratismo, la tendenza dell’uomo borghese (tali siamo tutti noi, figli di questa maledetta società) a perpetuare il suo potere o prestigio, se non altro politico, sugli altri? Sicuramente no. Ma sono le circostanze che formano le generazioni, e una organizzazione statale fondata sul potere incontrastato dei consigli operai, che eleggono e possono revocare in qualsiasi momento i loro delegati, ed una marcia decisa verso il socialismo internazionale, tolgono l’erba sotto i piedi agli aspiranti burocrati e facilitano il controllo esercitato dalla collettività intera sulla sua amministrazione.
L’importante è che sia scritta, a chiare e indelebili lettere nel programma rivoluzionario, la separazione di funzioni e di organizzazione fra partito e stato.
Il partito della classe operaia è e rimarrà lo strumento indispensabile per la elaborazione, la difesa e la propaganda del programma rivoluzionario del comunismo e per la lotta politica contro i suoi molteplici nemici, palesi o nascosti all’interno dello stesso proletariato.
Esattamente l’opposto di quanto si è verificato con lo stalinismo in Russia; esattamente ciò che la controrivoluzione ha con ogni mezzo impedito che potesse accadere in ogni altra parte del mondo. A cominciare dalla costituzione di quel partito di classe che ancora non c’è, nel senso proprio del termine: vale a dire, di un radicamento nella classe e nel suo movimento dei criteri e delle linee programmatiche che divideranno la società nei due campi contrapposti della rivoluzione comunista e della conservazione capitalista.
Il capitalismo è in crisi
Da Ovest a Est. ovunque la crisi è tutta del capitalismo e nel capitalismo. È la crisi dei suoi rapporti sociali e delle sue strutture politiche, dei suoi infernali meccanismi di accumulazione, dei suoi cicli di espansione e di contrazione produttiva, determinati da una impossibile difesa dei tassi di profitto. E il profitto, la produzione per la produzione, è l’unico motivo di vita per il capitale.
La crisi è in tutto il mondo. Ovunque si manifestano i sintomi di contraddizioni gigantesche che potrebbero esplodere negli anelli più deboli della catena imperialistica, stretta attorno all’umanità. Chi pagherà la montagna di debiti che gli Stati, anche nei paesi avanzati, hanno contratto per finanziare i processi di ristrutturazione industriale di questi ultimi anni? Quanto potrà resistere la corda tesa del deficit degli stessi Usa, che è già una voragine senza fondo? E quanto potranno resistere tutti quegli Stati il cui intero prodotto lordo serve a pagare solo gli interessi sui debiti contratti con le grandi banche dei paesi predominanti?
Miliardi di uomini affamati e disperati, centinaia di milioni di disoccupati, un futuro che annuncia altre violente recessioni economiche e nuova miseria: questo è ciò che viene additato come il paradiso terrestre e quale unica forma possibile di organizzazione della società.
In queste inumane e mostruose condizioni economico sociali, dove le ragioni potenziali di un antagonismo esplosivo si vanno approfondendo, la borghesia continua ipocritamente a parlare di interessi generali, democratiche convivenze, patti sociali, civili responsabilità, solidarietà nazionali e altri simili inganni. Ma se, dunque, si guarda alla realtà, un dato emerge con assoluta chiarezza: il modo di produzione capitalistico (e i rapporti sociali che ne derivano) è marcio e incapace di garantire una qualunque seria prospettiva di benessere alle grandi masse di lavoratori e ai diseredati del mondo intero.
Non di più capitalismo, non di più mercato, non di "pacifica convivenza tra ricchi e poveri" ha bisogno la società, ma dell’effettivo superamento di questo stato di cose, della concreta instaurazione di rapporti di produzione di tipo socialista, in modo da svincolare le gigantesche forze produttive, oggi disponibili, dalla logica del profitto e ancorarle alla soddisfazione dei bisogni dell’intera umanità. E la semplice ripartizione, fra tutti gli uomini e le donne abili, del lavoro necessario renderà possibile eliminare la disoccupazione e ogni forma di parassitismo e sfruttamento dell’uomo sull’uomo, riducendo drasticamente lo stesso orario giornaliero di lavoro.
Perché questa crisi economica?
L’economia capitalista è entrata. da oltre due decenni, nel vivo della crisi storica dei suoi cicli di accumulazione, che generano una competitività esasperata tra i diversi settori della borghesia per l’appropriazione della ricchezza socialmente prodotta. Sempre più difficilmente gestibile con mezzi pacifici, la concorrenza per la conquista dei mercati diventa aggressiva, e non esclude l’opzione militare nel tentativo di arraffare le risorse economiche altrui per arginare le falle gigantesche che si sono prodotte nelle economie nazionali con l’approfondirsi della crisi generale del capitalismo.
Giunto al suo apice, il futuro del capitalismo è catastrofico; il suo processo di accumulazione e di riproduzione allargata conduce alla miseria crescente e alla disoccupazione cronica milioni di proletari. Il conflitto tra proprietà privata e interessi capitalistici da un lato, e interessi collettivi e bisogni della società dall’altro, è insanabile. Il vicolo cieco in cui si dibatte lo stesso capitalismo americano è tale che nessuna predica, nessun balzello fiscale o taglio alle spese, potranno mai ridare uno stabile lavoro ai disoccupati e migliorare le condizioni di vita delle masse salariate, dei giovani e degli anziani.
Il capitalismo in decadenza cammina verso reazionarie esplosioni di brutale violenza imperialista: una via che gli può sbarrare soltanto la ripresa della lotta di classe e la rivoluzione proletaria internazionale.
Di fronte a tante miserie e sofferenze, di fronte a un periodo che si caratterizzerà con scontri commerciali e militari sempre più aspri, in cui la vita di milioni di uomini sarà sacrificata sull’altare del profitto, l’unica conclusione per il proletariato è quella di tornare a pensare ai modi per spazzare dalla faccia della terra un sistema che storicamente è già morente.
Ogni altra conclusione sarebbe illusoria e perdente.
Il capitale divorato dalla sua stessa crisi
Nella società borghese, retta sull’economia capitalista, il consumo segue la produzione. Infatti, durante il processo produttivo delle merci, alla forza-lavoro impiegata viene corrisposto un salario, cioè l’unico mezzo attraverso il quale i proletari - la classe dei salariati - possono procurarsi, acquistandoli sul mercato, i beni di consumo necessari alla loro sopravvivenza.
La produzione è dunque divisa in mezzi di produzione (macchinari, materie prime, ecc.) e mezzi di consumo. Ma i primi dominano sui secondi, affinché si possa produrre una sempre maggiore quantità di merci, anche inutili o dannose, a costi inferiori (aumento della produttività e riduzione del costo del lavoro). È evidente, così facendo, che quanto più cresce la produzione industriale tanto più si riduce l’occupazione: la disoccupazione tecnologica, strutturale, è sotto gli occhi di tutti.
Inoltre, le forze produttive attuali sarebbero sufficienti a produrre in abbondanza beni e mezzi per tutti, ma sul mercato non si presentano compratori - sebbene mezza umanità soffra fame e miseria. Riducendo l’occupazione e il costo del lavoro, il Capitale diminuisce la massa totale dei salari e costringe i proletari a ridurre i loro consumi, persino quelli più necessari.
La molla vitale del Capitale è il Profitto, che insegue ristrutturando tecnologicamente le aziende per sfruttare meglio il Lavoro e produrre più merci con meno operai. Incontrando difficoltà nella propria valorizzazione all’interno del settore industriale, il Capitale si sposta verso la speculazione commerciale e finanziaria. Verso settori, cioè, che di per sé non producono alcun valore, ma assorbono quei valori reali, quelle quote di plusvalore che soltanto il capitale industriale può "produrre" sfruttando il vivo lavoro umano.
Siamo dunque arrivati al cuore delle contraddizioni fondamentali del capitalismo, alle cause della crisi. in un circolo vizioso che non offre soluzioni al proprio interno. Le forze produttive continuano ad aumentare e si ribellano contro un modo di produzione e distribuzione storicamente superato; contro rapporti economici e sociali (merci, denaro, salario, scambio) diventati insostenibili.
Il dominio ideologico politico della borghesia
Non è dunque una scelta ciò che spinge il capitalismo a un continuo attacco contro le condizioni di lavoro e di vita delle masse operaie, della maggioranza della popolazione di ogni paese.
Ed è un fatto, constatabile nel corso storico della società borghese, che la classe che ha il potere, economico e politico, subordina a sé anche ideologicamente la maggioranza stessa della classe assoggettata e sfruttata. Questo spiega l’inganno delle "istituzioni democratiche", delle elezioni e del parlamentarismo; la mistificazione dei reali rapporti di classe attraverso l’illusione del "protagonismo della società civile".
Attorno al proletariato deluso e confuso, e alle sue sparute avanguardie in cerca di un chiaro orientamento, i veleni dello stalinismo e della socialdemocrazia non si disperdono tanto facilmente. Le tendenze opportuniste, gradualiste, riformiste e collaborazioniste, col pretesto di una "scomparsa" della stessa classe operaia, cavalcano tuttora l’inganno dell’interesse nazionale, dell’interesse generale dei "cittadini". Nuove forme per vecchi contenuti, sempre contro un unico pericolo: la critica del marxismo rivoluzionario, e ogni concreta azione verso il superamento del capitalismo e della società borghese.
Così, oggi, Rifondazione comunista si presenta come la trappola ufficiale per convogliare "le aspirazioni e i bisogni della gente" (la classe operaia non c’è più...) sui binari del movimento istituzionale, democratico e parlamentare. Le varianti "più a sinistra" vagheggiano fronti uniti...rivoluzionari, composti da soggetti politici di ogni origine e forma purché dinamici - il movimento è tutto, e per il fine si vedrà --. Ciò che importa è la disponibilità a unire i "diversi pensieri" e a far numero "elettorale" attorno ad "alcuni punti programmatici".
A parole, questi campioni della chiacchiera si ritrovano accomunati dalla denuncia di una parte dei mali e delle ingiustizie, corruzioni e oppressioni del sistema. Ma quando poi si tratta di definire una piattaforma politica, un programma, una linea tattica e strategica, ecco riaffiorare tutto l’arrugginito armamentario collezionato in mezzo secolo di controrivoluzione. Si lucidano le medaglie del revisionismo teorico, delle varie interpretazioni deformanti del marxismo, delle deviazioni politiche di ogni tipo e contenuto, fino alla sua completa negazione. Un cocktail di iniziative "democratiche" sostenute da una addomesticata maggioranza della società civile, in una girandola di pluralismi di pensiero e di azione.
Il primo "che fare" per il superamento del capitalismo
La logica perversa e inumana che caratterizza il capitalismo non è né una legge eterna né un ordine naturale e insuperabile. Il futuro - sulla base delle possibilità reali e concrete oltre che razionali - è del comunismo: una nuova organizzazione economica dove i mezzi di produzione perdono il loro carattere di capitale (denaro che produce denaro) e assumono unicamente valori e fini sociali; dove scompaiono le condizioni per lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la divisione della umanità in classi sociali.
A questo grandioso obiettivo sono chiamati gli sfruttati e gli oppressi di tutto il mondo, ai quali spetta il compito di riprendere la propria iniziativa di classe rivoluzionaria e di ricostruire la propria unità di lotta internazionale.
La conquista del potere politico da parte della classe operaia è la necessaria premessa per il superamento del capitalismo e la realizzazione del socialismo e del comunismo. La lotta del proletariato - sia per la difesa dei suoi interessi immediati che per la realizzazione del suo programma storico - i suoi obiettivi futuri - ha di fronte a sé tutta l’organizzazione statale borghese: la conquista del potere deve significare nei fatti non la semplice "occupazione" del vecchio apparato dello Stato, ma concretamente la creazione di una nuova organizzazione controllata e diretta dalla classe operaia.
Per vincere, il proletariato deve essere quanto più possibile unito e organizzato nel suo partito comunista. Questo partito, che raccoglierà gli elementi più preparati, coraggiosi e tenaci della classe, deve capire con precisione dove porta lo sviluppo della crisi capitalistica, deve avere una visione chiara della situazione politica e degli interessi reali della classe operaia, deve far prendere coscienza al proletariato, condurlo alla lotta e dirigere lo scontro con la conservazione e la reazione borghese.
Per la realizzazione del comunismo, passando attraverso la prima fase del socialismo, il proletariato - organizzato nei Consigli operai e sotto la guida del suo Partito - deve controllare il potere e la forza del nuovo stato-Comune operaio. Senza questo potere, senza essere diventato per un certo periodo esso stesso la classe dominante, il proletariato non riuscirà in alcun altro modo a rovesciare e superare il capitalismo.
Sarebbe da ingenui "pensare" che la borghesia si arrenda senza una dura lotta, abbandonando pacificamente le sue posizioni di dominio e privilegio, i suoi interessi e diritti "legalmente" imposti e difesi dai suoi apparati statali. Gli sfruttatori resisteranno accanitamente e il potere operaio ha il compito di distruggere questa loro resistenza usando mezzi politici necessariamente dittatoriali. Alla democrazia borghese (dittatura mascherata del Capitale per meglio conservare l’attuale stato di cose) subentrerà la aperta e dichiarata dittatura del proletariato, che proprio per eliminare la classe degli sfruttatori e dei parassiti non dovrà avere verso di loro alcun rispetto particolare, sia esso economico che politico.
Chi nasconde o mistifica questa realtà, inganna la classe operaia e tradisce gli obiettivi, anche se affermati a parole, della rivoluzione comunista e della emancipazione storica del proletariato.
I comunisti internazionalisti: chi sono, da dove vengono, che cosa vogliono
L’imperialismo rappresenta la fase storica decadente, parassitaria e devastante, del capitalismo. Di fronte ad esso, il comunismo internazionalista costituisce l’unica speranza di riscossa delle masse sfruttate e di vittoria della classe operaia.
Dopo la sconfitta subita dal bolscevismo ad opera dello stalinismo controrivoluzionario, i comunisti internazionalisti hanno dovuto combattere duramente contro il disorientamento provocato dal nemico di classe nel campo rivoluzionario. Le persecuzioni subite e la lunga lotta per la sopravvivenza hanno rafforzato questa piccola avanguardia di classe, facendone un raggruppamento politico in grado di resistere a tutti i terremoti, ideologici e politici, che hanno investito il movimento operaio durante gli ultimi 75 anni di storia.
Unica valida risposta proletaria alla degenerazione stalinista subita dai partiti comunisti della Terza Internazionale, fin dal 1925, e alla seconda guerra mondiale nel suo quadro imperialistico, i comunisti internazionalisti si caratterizzano su alcuni punti fondamentali:
- Il materialismo storico e dialettico come metodo di interpretazione degli accadimenti; la critica marxista dell’economia politica - il socialismo scientifico - come base della analisi della crisi del capitalismo e dell’antagonismo inconciliabile tra borghesia e proletariato. Il programma strategico del comunismo come obiettivo della lotta di classe.
- Il capitalismo di Stato, e la pretesa "costruzione del socialismo in un solo paese", fanno parte dell’esperienza storica del Capitale. Il crollo dell’impero sovietico, conseguente alla crisi internazionale del capitalismo, ne è la conferma.
- Alle necessità e alle logiche del dominio imperialista sono state vincolate - come da noi previsto - tutte le "guerre di Liberazione nazionale". Per la classe operaia dei paesi arretrati esiste un solo sbocco: l’aggancio alla lotta del proletariato mondiale.
- La denuncia del partecipazionismo parlamentare e del gradualismo riformista quale trappola per legare il proletariato agli interessi dello Stato nazionale e dell’economia in crisi. La pace sociale e i sacrifici - oggi - preparano la guerra imperialista - domani.
- L’integrazione dei Sindacati nello Stato capitalista, con funzioni di controllo sui lavoratori per la conservazione e il rafforzamento del capitalismo, impongono il superamento degli organismi contrattualistici attuali, verso strutture e forme di lotta radicalmente diverse.
- Il Partito di classe, proiettato verso una aggregazione organizzativa mondiale, è l’organo permanente della lotta rivoluzionaria per il comunismo, con compiti di elaborazione teorica e azione politica, di programma strategico e di guida tattica. Il rapporto costante fra classe e partito, e viceversa, è fondamentale per la realizzazione della rivoluzione socialista e per l’organizzazione del proletariato come classe dominante.
- La trasformazione della proprietà, privata o statale, dei mezzi di produzione e distribuzione in proprietà sociale, avverrà dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato, organizzato nei Soviet, e durante la prima fase della costruzione del semistato operaio. In esso, e per tutta la sua durata quale passerella tra il capitalismo e il socialismo, sarà imposta la eleggibilità assoluta, la revocabilità in qualsiasi momento di tutti i funzionari senza alcuna eccezione, e la riduzione dei loro stipendi al livello del salario di un operaio.
Il marxismo, la scienza del comunismo, si riconferma come l’unico strumento teorico e pratico per la emancipazione proletaria e la liberazione dell’intera società.
I proletari del mondo intero devono ora riarmarsi della propria scienza, ricostruire la propria unità di lotta internazionale contro il capitale, riprendere la propria iniziativa di lotta rivoluzionaria.
Per la ricostruzione del partito internazionale dei lavoratori.
Per spezzare le catene del lavoro salariato.
Per il comunismo internazionale.
Continuità storica e coerenza teorico-politica
Formatosi in Italia nel 1943, nel pieno della seconda guerra mondiale, con lo scopo di riprendere la via del comunismo rivoluzionario, il Partito Comunista Internazionalista si trovò fin dagli inizi in mezzo a due fuochi: da una parte la polizia fascista, dall’altra il piombo socialdemocratico del partito di Togliatti, già fedele servitore dello Stato russo di Stalin. Due fra i migliori militanti internazionalisti, Mario Acquaviva e Fausto Atti, pagarono con la vita la loro fiera opposizione al nazionalcomunismo del Pci. Altri furono perseguitati e incarcerati.
Mezzo secolo di demagogia riformista e di politiche opportuniste, durante il quale la controrivoluzione ha esteso il suo dominio materiale e ideologico sulla classe operaia, non è bastato a piegare e disperdere i comunisti internazionalisti. Pur con forze limitate e senza mezzi, abbiamo continuato ininterrottamente (Battaglia comunista non ha mai sospeso la sua pubblicazione, quindicinale o mensile) a denunciare e contrastare il tradimento degli interessi proletari, a diffondere la critica marxista, a preparare e riorganizzare pazientemente i quadri politici del futuro partito di classe.
Accanto a noi, sprofondando nelle paludi del social-opportunismo e dell’interclassismo, sono passati tutti gli arroganti gerarchi dello stalinismo, del titoismo e del maoismo; gli spavaldi "sinistri" delle varie Autonomie, Avanguardie operaie, Democrazie proletarie, ecc. I resti delle disperse bande politiche cuociono ora nel calderone di Rifondazione.
Il Partito comunista internazionalista è, invece, ancora in piedi, sempre vitale e, in una società stremata dalla decadenza, prosegue nella lotta per il potere della classe operaia e l’avvento del socialismo.
L’impostazione teorico-programmatica e la linea storica di azione che contraddistinguono gli internazionalisti, continuatori della Sinistra comunista italiana e internazionale, sono le seguenti:
- il "Manifesto del partito comunista" (1847-48) quale fondamento del programma storico, teorico e pratico della rivoluzione proletaria;
- i testi, le analisi e le elaborazioni critiche di K. Marx e F. Engels, un tutto unitario (teoria e metodo, economia e politica, strategia e tattica) che conferma la indissolubilità del legame fra teoria e pratica;
- la riconferma del marxismo rivoluzionario in tutte le sue parti, contro ogni forma di revisionismo e ogni tentativo di snaturamento con false interpretazioni naturalistiche, positivistiche, neo-idealiste, storiciste, pragmatiste, ecc.;
- i testi fondamentali del leninismo, con la loro piena rivalutazione dei caratteri, dei contenuti e valori scientifici del marxismo, e le Tesi costitutive della Terza Internazionale comunista (I e II Congresso);
- le analisi e le posizioni, conseguenti ai punti precedenti, della Sinistra comunista dal 1922 in poi.
I comunisti internazionalisti si collegano:
- alla corrente di sinistra del Partito Socialista Italiano nelle sue prime manifestazioni durante la guerra imperialista del 1914-18;
- alla costituzione del Partito Comunista d’Italia (Livorno, gennaio 1921);
- al suo Secondo Congresso di Roma (1922);
- al Comitato d’Intesa (1925), primo campanello d’allarme contro il tentativo, poi riuscito, di snaturare la originaria struttura di classe del Partito;
- alla opposizione (Tesi della Sinistra) nel Congresso di Lione del P.C.d’Italia (1926) e nei Congressi e Riunioni allargate della Internazionale fino al 1926, contro le involuzioni tattiche e teoriche della "costruzione del socialismo in un solo paese";
- alla costituzione della Frazione da parte della Sinistra all’estero (1928).
Lungo questo filo rosso, che ha accompagnato l’interpretazione, l’applicazione e la difesa del marxismo rivoluzionario contro i vari rinnegamenti e tradimenti, la Sinistra comunista italiana - dal 1943 costituitasi in Partito Comunista Internazionalista - ha potuto smascherare l’antifascismo, inteso dai liberal-democratici e dai nazionalcomunisti non come lotta al capitalismo ma come alleanza con le forze "progressive" della nazione e della borghesia. Ha quindi respinto la politica interclassista delle alleanze popolari e dei fronti unici, sostenuta dai partiti della conservazione capitalista, stalinisti in testa; ha rifiutato ogni appoggio alle forze della guerra e dell’imperialismo, sia di Washington che di Mosca; ha combattuto lo stalinismo e le vie nazionali al socialismo, conseguenti alla vittoria del capitalismo di Stato in Russia.
Oggi, quando una incontrollabile crisi economica scuote le fondamenta dei centri imperialistici d’Occidente e d’Oriente, e la guerra si annuncia come l’unica soluzione borghese; oggi, il comunismo è all’ordine del giorno e chiama alla organizzazione e alla lotta di classe i proletari del mondo intero per la conquista della loro totale e definitiva liberazione dalle catene del Capitale. E ciò potrà avvenire soltanto attraverso la distruzione del sistema capitalistico e il superamento dell’attuale regime borghese, fondato sullo sfruttamento, l’oppressione, la miseria e la barbarie.
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- 1926: Lyons Congress of PCd’I
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