Appesi al filo rosso

Documento dei GLP (Gruppi di Lotta Proletaria) sull'esperienza dei centri sociali - Febbraio 1996

Per chi come noi ha iniziato la propria militanza verso la fine degli anni 1980 o l'inizio degli anni 1990, i Centri Sociali Autogestiti (Csa) sono stati l'unico punto di riferimento.

Durante gli anni 1980 il mondo sembrava, almeno in Italia, il “migliore di quelli possibili” per tutti (proletari compresi); cancellato ogni orizzonte rivoluzionario dalle menti dei sedicenti comunisti e dalle coscienze della sempre più atomizzata e disunita classe operaia, i Csa. hanno avuto la funzione di luoghi di aggregazione, anche proletari, fuori dall'ambito istituzionale (sindacale e partitico), soprattutto nelle metropoli.

Alcuni di essi hanno senz'altro funzionato da “ultimi fortini” dell'immaginario comunista rivoluzionario. Nel 1989, lo sgombero e la resistenza degli occupati del Csa Leoncavallo, insieme a ben più importanti eventi di carattere internazionale (caduta del muro di Berlino-nuovo ordine mondiale) ha determinato una tappa importante e, al contempo forviante, per chi si affacciava in quel momento, o giù di lì, alla lotta. Ecco secondo noi perchè: - la resistenza dei leoncavallini (non solo alle forze dell'ordine) era un atto visibile di cui i media e la “gente”, bene o male, era costretta a parlare; proprio nell'anno in cui ogni cosa odorava di comunismo la si voleva far passare per vecchia e non esisteva certo un'analisi chiara e abbastanza diffusa, che condannasse realmente da sinistra (anche nell'estrema sinistra) gli oppressivi regimi del capitalismo di Stato dell'Est, senza usare gli stessi termini e dire le stesse fesserie usate dalla stampa borghese, per parlarne (male).

In questo contesto, quella del Leonka sembrava una lotta nuova, non più fuori dal tempo.

  • Dal 1989 in poi i collettivi che si sono formati, a macchia d'olio in ogni città d'Italia, per dar vita ad un Csa, si sono quasi sempre modellati su questo evento, in special modo nelle città più piccole.
  • La semplice difesa delle mura di un Csa sembrava diventare un gesto antagonista, di per sè, alla società capitalista e al potere in genere. Necessario e sufficiente.
  • Chi si è formato politicamente in uno di questi collettivi (di solito con un'ignoranza assoluta dell'ABC del marxismo) ha sempre confuso il proprio ruolo sociale con quello politico.

A questo punto siamo sicuri, che già qualcuno rivendicherà differenze, non solo politiche ma anche geografico-sociali, tra Csa e Csa, che peraltro esistono, ma che vista la discreta conoscenza di diversi Csa avuta in questi anni, non ci sembra tutto sommato intaccare di molto quanto detto finora.

Nonostante il panorama dei Csa sia, oggi più che mai, molto variegato, va detto che fondamentalmente due sono le anime politiche: una anarchica ed una “comunista” (erede di ciò che resta dell'Aut. Op.), le quali agiscono, a volte esplicitamente, altre più sottilmente e confusamente dentro e ai margini dei Csa. Spesso le posizioni sono però ulteriormente sovrapposte e diversificate, in particolare sul ruolo che va attribuito ai Csa. C'è:

  • Chi li ha sempre pensati come isole felici, piccole società collettiviste dentro la grande società capitalista, capaci di poterla influenzare, infettandole il germe dell'autogestione.
  • Chi, ridimensionandone il carattere autonomo dal resto della società, li vede strumentalmente come i luoghi da cui far partire altre battaglie sociali sul terreno del lavoro, della scuola, del territorio, ecc.
  • Chi li considera luoghi temporaneamente di contropotere (o meglio “liberati”), destinati a rimanere tali, e suggerisce, rifiutando ormai l'idea di intaccare la struttura della società, di goderseli finchè ci sono.

Quasi tutti considerano (comunque) la lotta per i Csa una battaglia sociale, nuova, visibile, importante. E antagonista già di per sè.

Questo fino a circa un anno fa, cioè quando i Csa si sono dati appuntamento, nel momento di massima espansione e di massima visibilità, riconquistando l'attenzione della cronaca, ancora grazie all'esaltante resistenza del Csa Leoncavallo che, insieme a migliaia di militanti di tutte le città italiane, nel settembre del 1994 si è scontrato con le forze dell'ordine, stavolta non da dentro le mura del centro sociale per il solo diritto di esistere, ma nelle strade del centro di Milano per le parole d'ordine dell'opposizione sociale.

Non chiedeteci esattamente quali sono queste parole d'ordine, ci sarà sempre qualcuno pronto a smentirne una o due; da ciò che ci è dato sapere deduciamo più o meno questo: salario minimo garantito, lavorare meno a parità di salario, lavori socialmente utili, autorganizzazione sindacale, autogestione degli spazi sociali.

Ora dunque, il panorama politico in cui navigano un pò tutti i Csa è ulteriormente cambiato; chi, qualche anno fa (in largo anticipo), sosteneva che si stesse correndo il rischio di un'istituzionalizzazione dei Csa e che la confusione politica imperante nei centri, nel loro complesso, e nelle singole menti dei militanti, in particolare, avrebbe creato nuove divisioni e strane unioni, incomprensibili ai più, si trova superato dai fatti.

Ormai molti sono i Csa semi-legalizzati da amministrazioni più o meno illuminate, spesso in cambio di velate campagne elettorali per candidati progressisti o di elargizioni di particolari servizi sociali.

Non per niente, gli esperti del settore no-profit (meglio conosciuto come volontariato) includono di diritto quasi tutti i Csa nel nuovo settore, e una certa parte di questi (Leonka compreso) pare starci di buon grado, pur di non perdere il nuovo riconoscimento (istituzionale).

Ora, le anime politiche che hanno teorizzato la necessità dei Csa come luoghi di contropotere (temporaneo o permanente), sono venute del tutto allo scoperto lanciando parole d'ordine a cui tutti hanno, quasi senza discussione, automaticamente, aderito (senza magari nemmeno saperlo), partecipando a meeting e cortei convocati su tali parole (vedi sopra - opposizione sociale).

In questo contesto, l'area anarchica si è politicamente ridimensionata e/o appiattita sui contenuti storici e nuovi della “autonomia” che (pur divisa al suo interno) si è ricreata la sua base sociale, che sta appunto nei militanti e nei frequentatori dei Csa.

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Facciamo ora un passo indietro, rispetto alla confusione tra ruolo politico e ruolo sociale che un militante di un Csa di solito si attribuisce. Per quanto ne sappiamo la composizione sociale dei collettivi che gestiscono i Csa è, nella maggior parte dei casi, di tipo studentesca, (non sempre di origine proletaria), per noi questo non toglie affatto valore alla lotta che portano avanti, ma ne cambia necessariamente i connotati.

Se un Csa fosse occupato e gestito da un gruppo di proletari di un quartiere o di una città, la lotta di questi sarebbe, seppur marginale perchè esterna all'ambito produttivo, una lotta proletaria e antagonista alla speculazione del capitale in ambito edilizio, ricreativo e territoriale, portata avanti in prima persona dai diretti interessati.

I comunisti (proletari o no), in un Csa di questo tipo, troverebbero il luogo, pur sapendo che non necessariamente questo sarebbe gradito a tutti, dove propagandare e far conoscere il più possibile il programma rivoluzionario nel modo più naturale che i comunisti rivoluzionari conoscono, appoggiando e/o partecipando ad una lotta proletaria, esplicitamente come comunisti rivoluzionari.

Se invece, un Csa aderisse chiaramente e con la consapevolezza di tutti i suoi appartenenti (di qualsiasi classe sociale essi siano) a una precisa area o organizzazione politica, per chi è ritenuto esterno o estraneo a questa organizzazione il rapporto sarebbe più difficile, ma comunque chiaro: in tal caso si può essere accettati o respinti all'interno del Csa, ma per ragioni politiche precise, note a tutti. In tal caso infatti l'area o l'organizzazione a cui fa capo il Csa dovrebbe avere tutti gli interessi a far conoscere le proprie posizioni e le proprie finalità.

Ma nei due casi fin qui illustrati sono più unici che rari.

La realtà dei Csa è molto più confusa sia a livello sociale che, soprattutto, politico e questo non solo (come qualche furbetto starà già pensando) perchè la realtà è sempre un pò confusa, il che è anche vero, ma anche e soprattutto perchè c'è chi, pur di non perdere la una "base sociale" incosciente e indeterminata, non solo lascia che la confusione regni, ma addirittura la alimenta. Ci stiamo riferendo alla cosiddetta area della “autonomia” in cui abbiamo finora generosamente e un pò inconsciamente (come tanti compagni) militato.

Quello che ci sfugge di più però è il fine di tutto ciò, spesso molto più confuso della pratica.

Forse andando alle radici teoriche di questa area, si possono trovare alcune spiegazioni in più. Il pensiero che oggi alimenta le tante anime della “autonomia” è soprattutto quello del signor Negri, che ha le sue origine nelle tesi degli operaisti italiani degli anni 1960, i quali sostenevano che il capitale (dall'ultima guerra mondiale) non ha più nessuna crisi strutturale, per cui ha risolto le proprie contraddizioni sul piano produttivo, di conseguenza le crisi che ricorrono ogni poco d'anni sono, per Negri e gli “operaisti”, delle crisi dovute alle grandi lotte di classe che mettono in crisi il capitale, perchè la contraddizione rimarrebbe solo sul piano distributivo e gerarchico (distribuzione delle ricchezze e del potere). Ma mentre gli operaisti valutavano l'operaio di fabbrica l'artefice delle crisi capitalistiche, il signor Negri riscontrando negli anni 1970 in Italia la scarsa combattività (dovuta all'applicazione in quegli anni dello stato sociale) dell'operaio di fabbrica, “premiato” in quel periodo dalla politica degli alti salari, ha iniziato a cercare altrove, e pare lo stia ancora cercando, il nuovo soggetto “rivoluzionario”.

In un primo momento Negri aveva trovato il suo nuovo soggetto nell' “operaio sociale”, cioè chiunque entri a far parte, da subalterno, nel processo produttivo, riproduttivo e di consumo, cioè quasi tutti in un particolare momento della vita, anche la moglie dell'industriale quando va a fare la spesa.

Chiaramente l'individuazione di questo soggetto è fatta in base a canoni sociologici, non marxisti, tant'è che Negri e suoi epigoni hanno potuto indicare dal 1977 ad oggi un numero sconsiderato di possibili avanguardie sociali e politiche della nuova figura cardine della società, che farebbero scoppiare le crisi capitalistiche per poi pagarle: dallo studente universitario fuori sede alle donne in quanto tali, dal disoccupato al bancario, dal programmatore di computer al cameraman omosex.

Entro tali elucubrazioni scompare il problema per i proletari, che non si sa più bene chi sono, del potere e della rivoluzione, così sorge il mito del contropotere, che lentamente logorerà il potere del capitale ed ogni forza residua rimastagli. Ulteriore ovvia negazione, quella della necessità di un partito-guida per un processo rivoluzionario che ormai avverrebbe quasi da solo, se è ancora possibile chiamarlo tale. Autorganizzazione e autogestione sociale e politica le parole di chi, magari senza saperlo, è un giovane discepolo di Negri confondendo tranquillamente questi quattro termini, perchè ormai la produzione non è più centro di niente, la fabbrica è ovunque, ogni soggetto politico è un soggetto sociale ecc.

Questo non ha messo però al riparo i Csa da una veloce istituzionalizzazione, da autoritarismi interni e ostracismi stalinisti, da alleanze molto larghe contro la nuova destra (fino a toccare le palle della Quercia), dalla formazioni di sindacatini pseudo-radicali e prestazioni di volontariato. Tutta l'area d'influenza dell'autonomia che ora si divide su tutti questi temi priva di un metodo di lettura dei fatti razionale, non verrà a capo dei propri litigi.

Noi che, come Marx, non siamo degli economisti, ma che comunque crediamo che sia la struttura economica a dettare legge in questa società, riteniamo che nonostante il fatto che la produzione si sia spostata e atomizzata, il proletariato produttivo, sia sempre al di là del suo grado di coscienza, attualmente bassissimo, il cardine della società. Tenendo però conto del fatto che la facile sostituibilità, la precarizzazione, l'intercambiabilità da settore a settore, sono caratteristiche comuni non solo al proletariato produttivo ma anche a quello improduttivo, bisogna puntare oggi ad un'unità proletaria più che a “privilegiare” (a livello di intervento politico) l'operaio produttivo.

Per essere più precisi: con l'acuirsi della crisi strutturale, dovuta alla caduta tendenziale del saggio di profitto (i capitalisti in competizione sempre più feroce tra loro, causa anche la saturazione dei mercati, sono costretti ad impiegare meno manodopera possibile e a spendere sempre più soldi per i nuovi macchinari, diminuendo così complessivamente i propri profitti) in occidente e in Italia, il capitale è costretto per pagare e garantire meno la forza-lavoro, a cambiarla e licenziarla continuamente, per cui un operaio tessile assunto con contratto di formazione-lavoro può trovarsi disoccupato per un anno, commesso di un grande magazzino l'anno dopo, impiegato statale se ha qualche raccomandazione e poi ancora disoccupato se non fosse bastata...

È chiaro che la produzione mantiene la struttura della società, ma occorre rincorrere chi lavora come operaio nel settore produttivo nel suo diverso iter lavorativo che non è mai, o molto raramente, stabile.

Per fare ciò la creazione di luoghi di aggregazione proletaria a livello territoriale sarebbe più che auspicabile, ma a patto che si chiarisse che di questo si tratta e non di luoghi del fantomatico contropotere o di centri da cui lanciare le parole d'ordine utopiste e riformiste al contempo dell'opposizione sociale.

A tal proposito è necessario un altro inciso: in questo momento i padroni stanno tentando di arrestare la crisi decurtando stipendi, eliminando servizi sociali ecc. e non possono da questo punto di vista, a meno che non abbiano inaspettati istinti suicidi, fare diversamente, e perciò oltre che un buon vecchio riformismo è anche illusorio chiedere, senza che vi sia un rovesciamento dell'attuale stato delle cose, una diminuzione dell'orario di lavoro a parità di ritmi e salario, creazione di lavori improduttivi, ma socialmente utili, salario garantito per disoccupati. E anche se tali provvedimenti in alcune aziende o in alcune particolari situazioni possono essere temporaneamente adottati, va sempre ricordato che si taglierà in compenso da altre parti, o ad altri, o agli stessi proletari che pagheranno sempre la crisi dei padroni finchè un processo rivoluzionario internazionale non li porterà al potere.

Noi non crediamo che il Capitale sia un moloch, ma anzi un insieme di interessi competitivi tra loro. Ogni tentativo di pianificazione dell'economia nazionale ed internazionale, fatta dagli Stati o dallo Stato o dalle varie congreghe degli stessi capitalisti, è dovuta proprio a questa naturale anarchia del capitalismo, che incontrollato avrebbe già prodotto o la barbarie o la sua fine. In questo momento, invece, ogni Stato occidentale sta provando a regolare la propria economia nell'attuale fase avanzata del capitalismo imperialista, in modo da favorire ulteriormente i grandi monopoli e impoverire e dividere ancora i proletari ed una piccola borghesia in via di proletarizzazione. Va detto che a fronte di questa crisi strutturale ed internazionale il capitale ha sicuramente migliorato ed ingrandito attraverso l'uso dei mass-media, la cultura, la religione ritrovata e grazie al cattivo servigio che settant'anni di dominio stalinista e social-democratico nella sinistra hanno reso alla causa comunista, il suo dominio culturale su tutta la società, ciò che Marx chiamava sovrastruttura.

Anche per questo, pur essendo, dal punto di vista strettamente economico la situazione internazionale realmente pre-rivoluzionaria, si è purtroppo ben lontani dalla creazione delle avanguardie di classe necessarie a guidare una rivoluzione che ormai, se ci sarà, dev'essere internazionale ed internazionalista. Se i Csa non fossero - come quasi tutti, anche se non dichiaratamente, sono - i fortini dell'autonomia, o peggio in via di istituzionalizzazione o in mano a degli anarchici e piccolo-borghesi (come cultura) collettivi anarchici ecc., sarebbero forse i posti ideali dove fare riaggregare la sempre più atomizzata e bastonata classe operaia italiana e non, dove infondere ai giovani proletari un pò di vero internazionalismo al di là delle grandi alleanze per liberarsi delle destre o delle parole d'ordine bertinottiane pseudo compatibili con l'economia nazionale, dove rilanciare la necessità della rottura rivoluzionaria contro ogni tipo di riformismo, dove riparlare di che significa autorganizzazione di classe, senza farsi tante menate sull'autogestione quando si sa che poi qualcuno che gestisce c'è, dove ricreare le basi per un'organizzazione comunista internazionalista. Ma così non è, e ciò che adesso ci sentiamo di fare rispetto alla generosità ed alla buona fede di tanti giovani compagni dei Csa è demistificare. Eliminare la confusione che non permette una chiara coscienza di classe.