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Home ›Paul Mattick: Note sulla questione della guerra
Il problema della guerra, oggetto di una lunga ed accesa discussione teorica, è ormai diventato, in seguito ai recenti avvenimenti in Etiopia, una concreta questione di scottante attualità. L’enorme significato di questa guerra sta nel fatto che essa mette a nudo le generali rivalità imperialistiche spogliandole di qualsiasi velo ideologico, ed indica così l’inevitabilità di un nuovo macello mondiale. Nessun cervello pensante può più oggi essere seriamente convinto della possibilità di differire la guerra per la redistribuzione delle quote di profitto, e le varie nazioni si stanno coscientemente preparando a questo conflitto. Ciò che la borghesia ed i vari gruppi capitalistici hanno da rivelare o da nascondere riguardo alla questione della guerra, lo apprendiamo dalla loro stampa, mentre ciò che stanno facendo per farsi trovare ben preparati dalla guerra ce lo indicano le loro manovre militari e la loro “diplomazia”.
La sola cosa che qui ci interessa è la posizione che devono assumere nei confronti della guerra gli operai rivoluzionari. In primo luogo, nel caso che la guerra africana rimanga localizzata, o venga raggiunta un’intesa tra le potenze imperialistiche che le ponga fine prima dello scoppio della seconda guerra mondiale; e, in secondo luogo, quale debba essere la loro posizione nel caso che la guerra africana vada a sfociare senza soluzione di continuità in un nuovo conflitto mondiale. I criteri su cui si basa la posizione da noi assunta sono i reali interessi internazionali di classe del proletariato. Noi non abbiamo alcun desiderio né di difendere il regime feudale dell’Abissinia, né di giustificare l’Italia fascista, né di identificarci con gli interessi imperialistici dell’Inghilterra. Non abbiamo neanche intenzione di limitarci, come se non avessimo altro da dire, ai problemi della lotta di classe negli Stati Uniti, né tanto meno di propugnare il “mantenimento della pace mondiale” al fine di preservare il capitalismo di stato russo da sommovimenti sociali; l’unica questione che ci sembra giusto porci è: che cosa deve, può e vuole fare la classe operaia?
La guerra - sia quella d’Africa che l’imminente guerra mondiale - non ha per gli operai altro significato immediato che l’uccisione di un gran numero di essi nella maniera più rivoltante e il loro incommensurabile impoverimento - quando non addirittura la loro strage - come classe. In quanto apportatrice di morte e di miseria, la guerra non può certo, da un punto di vista di classe, essere salutata come benvenuta; ma le grandi masse operaie non hanno, oggi, alcun punto di vista di classe riguardo ai propri interessi e, schiave dell’ideologia borghese, seguono i movimenti dei loro padroni, pronte - volenti o nolenti - a soffrire e a morire per loro.
Il nostro punto di vista non è quello delle masse operaie, bensì quello di un gruppo appartenente a quelle frange operaie in cui è ancora più o meno viva la coscienza di classe. Ma noi non condanniamo la classe operaia per il fatto che essa si sta nuovamente preparando su scala internazionale a servire in massa il Capitale, perché siamo coscienti della dipendenza delle idee storicamente prevalenti dalla ideologia della classe dominante, e conosciamo i fattori oggettivi e soggettivi che per il momento frenano la natura rivoluzionaria del proletariato spingendolo a continuare sia a lavorare che a combattere per il Capitale.
Non ci occuperemo però in questa sede delle cause dell’immaturità rivoluzionaria del proletariato; le osservazioni fin qui fatte hanno soltanto lo scopo di introdurre e motivare la conclusione da noi tratta, di non aspettarci nel prossimo futuro che la classe operaia metta fine col rovesciamento rivoluzionario al capitalismo e alle sue guerre. Ed è ciò che ci spiega perché al proletariato non rimanga altro da fare che fiancheggiare la politica capitalistica, decidendosi per questo o quel gruppo capitalistico e lottando per esso.
Ciò che davvero corrisponderebbe agli interessi del proletariato - la prevenzione, cioè, della guerra - è attuabile solo a prezzo dell’eliminazione rivoluzionaria del sistema capitalistico; perciò, l’improbabilità di una rivoluzione prima dell’imminente guerra rende quest’ultima ormai inevitabile, e ad essa il proletariato sarà costretto a prendere parte con l’unica ideologia che oggi possiede, l’ideologia borghese. In tali circostanze, la gran massa degli operai si allineerà senza alcun dubbio dalla parte della borghesia contro i rivoluzionari, ai quali non rimarrà, per un certo tempo, altra possibilità d’azione che quella esistente sotto l’attuale fascismo tedesco: l’addestramento e l’accurata selezione di quadri, il cauto incremento del loro numero e lo sforzo di far loro superare i “tempi morti” (dal punto di vista rivoluzionario), in attesa che la guerra stessa crei la maturità soggettiva per la rivoluzione. Anche la fase distruttiva del capitalismo possiede, infatti, lo stesso carattere rivoluzionario della produzione capitalistica; e come nel corso del suo sviluppo il capitale crea la più grande forza produttiva, il proletariato, che è costretto per realizzarsi a rompere í rapporti capitalistici, così in guerra esso crea, nelle circostanze attuali, una situazione che non può che sfociare, da ogni punto di vista, nella rivoluzione proletaria.
Così, mentre l’ultima guerra ha praticamente portato alle porte della rivoluzione mondiale, toccherà alla prossima guerra mondiale di compiere l’opera spalancando al proletariato la possibilità di conquistare il mondo: allo stesso modo in cui è incapace di controllare la produzione, che gli si rivolta contro, il Capitale è pure incapace di mantenere la distruzione in forme e modelli che lascino aperta la possibilità di ritornare nei modi voluti alla “normalità”. Le dimensioni e la violenza della guerra imminente precludono infatti al capitalismo la possibilità di mantenerla sotto il suo controllo, il che costituisce una prova ulteriore del suo anacronismo.
Dal punto di vista rivoluzionario, la guerra accelera l’avvento della situazione veramente rivoluzionaria; ed è questo il fattore principale di cui dovranno tenere conto tutte le forze interessate a sfruttare le condizioni oggettive per l’avanzamento della classe operaia. In tempi non rivoluzionari occorre evitare ad ogni costo di sprecare le proprie forze inseguendo stupide fantasie idealistiche, e concentrare invece tutta la propria volontà e i propri disegni tattici sulla lotta finale che nascerà sul terreno preparato dalla guerra.
Il Capitale non persegue scopi sociali, né esprime una “volontà sociale”; esso nasce e si sviluppa proprio dal conflitto tra le aspirazioni e gli interessi di gruppi particolari, il cui antagonismo cresce col diminuire del loro numero in seguito all’accelerarsi del processo di concentrazione. Così, quanto più maturano, da un punto di vista tecnico ed organizzativo, le condizioni per l’instaurazione di una direzione sociale sistematica dell’economia, tanto più questa possibilità viene preclusa dal persistere dei rapporti economici della società attuale. Se è impossibile organizzare la pianificazione dell’economia, ed introdurre una regolamentazione pacifica della distribuzione delle quote di profitto persino nell’ambito di un solo paese, a maggior ragione lo è a livello internazionale, dove le riorganizzazioni resesi necessarie in seguito all’inasprirsi della contraddizione tra le accresciute forze produttive e l’obsoleto ordinamento del profitto (o meglio, la persistenza stessa di quest’ultimo) non possono venire portate a termine se non tramite la violenza, che, nella società produttrice di merci, si manifesta come processo di concentrazione, come crisi e, appunto, come guerra. Ma una guerra capitalistica non è sempre la stessa guerra capitalistica. Se il problema del capitale è quello di creare plusvalore addizionale, una guerra che accresca le capacità di realizzo del capitale può significare una via d’uscita dalla crisi ed una potente spinta in avanti; in questo caso la guerra rappresenterebbe un mezzo per accelerare l’accumulazione e sarebbe quindi seguita non dal sollevamento rivoluzionario, ma eventualmente da un periodo di generale alta congiuntura. (Il fatto che la guerra arricchisca sempre soltanto poche persone, impoverendo le grandi masse, non è una caratteristica esclusiva della guerra, bensì la tendenza generale dello sviluppo capitalistico). In sé, la guerra non crea bensì distrugge il profitto; ma essa può creare nuove fonti di profitto in grado non soltanto di compensare, ma addirittura di sopravanzare quelle già esistenti. Ciò vale però soltanto ad un certo livello di accumulazione, al di là del quale - come accade, ad esempio, nei periodi di stagnazione - la guerra è destinata a rendere ancora più difficile la rimessa in moto del processo di accumulazione, e in questo caso essa non ha più lo scopo di rendere accessibili nuove fonti di profitto, bensì soltanto di riorganizzare la distribuzione del profitto realizzato e determinato a livello internazionale. A questo punto non si tratta più, quindi, di una lotta condotta per incrementare il profitto e superare così la crisi, ma di una prova di forza riguardante la redistribuzione del profitto, la cui massa - dalla quale vanno ora sottratte anche le spese belliche - subisce un ulteriore decremento che accresce le difficoltà del capitale.
Dal punto di vista capitalistico, la concentrazione del capitale è progressiva solo quando è accompagnata da una contemporanea crescita di capitale; la concentrazione senza crescita rappresenta soltanto un rapido incremento delle contraddizioni e delle difficoltà capitalistiche. Il carattere dell’attuale crisi [...] non è tale da far pensare che la prossima guerra mondiale possa costituire un mezzo di superamento della crisi; anzi, nella situazione odierna, la guerra può soltanto approfondire la crisi al punto da rendere inevitabile la rivoluzione proletaria. Ciononostante, il capitalismo non ha nessuna possibilità di evitarla, perché quando l’incremento del profitto non corrisponde più ai crescenti bisogni dell’accumulazione, al capitale non resta altra scelta che l’inasprimento della lotta concorrenziale per l’accaparramento del profitto stagnante o addirittura in diminuzione. [...] La natura paradossale di questa situazione trova la sua spiegazione nella contraddizione capitalistica tra valore di scambio e valore d’uso, cioè nel fatto che il capitale deve, per esistere, produrre e distruggere nello stesso tempo.
Abbiamo detto che il proletariato non è attualmente in grado di condurre una politica autonoma ed è, perciò, costretto a procedere come un’appendice della borghesia, difendendo gli interessi e l’ideologia di quest’ultima. Di ciò il conflitto africano rappresenta un esempio illuminante, mostrandoci la persistente fedeltà delle masse operaie italiane a Mussolini, così come la passiva accettazione (che equivale ad un tacito appoggio) da parte delle masse operaie tedesche dell’ideologia di Hitler, e l’identificazione della gran massa degli operai inglesi con gli interessi della loro borghesia. Persino la politica del “movimento operaio ufficiale” è un mero riflesso delle necessità capitalistiche: le Seconda Internazionale si è identificata coi provvedimenti ed i piani imperialistici dell’Inghilterra contro l’Italia, come si vede dalla coincidenza della sua politica di “sanzioni”, di appoggio della Società delle Nazioni, perfino dello sciopero dei trasporti (rimasto una vuota frase), o della richiesta di chiusura del canale di Suez, con gli interessi dell’imperialismo inglese. Sia la Seconda Internazionale che l’imperialismo inglese vogliono naturalmente la pace - una pace che mantenga i privilegi dell’imperialismo inglese - ma i programmi scelti a questo scopo sono praticamente dichiarazioni di guerra; la Seconda Internazionale è per la “pace” inglese e quindi per la guerra inglese. In questo senso la sua posizione è una ripetizione fedele di quella già assunta in occasione della precedente guerra: essa sta mandando le masse al macello nell’interesse della borghesia.
La posizione della Terza Internazionale, coincidente con l’atteggiamento tenuto dalla Russia nei confronti della guerra, non va - per quanto essa dà a vedere - al di là di un insulso appello alla pace, e sulla situazione africana essa non ha quasi osato prendere posizione. In proposito Radek scrive nella “Rundschau”:
In tutto il mondo i lavoratori stanno seguendo questa guerra, ed augurano alle masse abissine non solo di non cadere sotto alcun giogo coloniale, ma anche di riuscire a spezzare, in questa grande prova storica, le catene del feudalesimo e della schiavitù in patria.
Ma perfino questo “pio desiderio” della Terza Internazionale nell’interesse dell’indipendenza abissina è arrivato piuttosto tardi, dal momento che la Russia non ha, come la Francia, nessuna voglia di irritare l’Italia finché può evitarlo. E soltanto dopo che i suoi alleati francesi hanno optato, non sentendosi ancora pronti alla guerra, per una politica di mezze concessioni all’Inghilterra, anche la Russia ha giudicato opportuno emettere dei flebili lamenti contro l’aggressione dell’Italia senza però, con questo, porre alcuna restrizione alle forniture di materie prime di cui l’Italia ha bisogno per la conduzione della guerra.
Se, secondo la Terza Internazionale, gli operai si limitano a “seguire” passivamente la guerra augurando, però, in cuor loro buona fortuna agli abissini, questa è, per i trotskisti, una ulteriore prova di quanto profondamente Stalin abbia tradito Lenin che, naturalmente, era per l’appoggio incondizionato di tutti i movimenti nazionali ed i popoli oppressi. Così i “leninisti incorrotti” scrivono ne “La nuova Internazionale” (ottobre 1935), senza accorgersi di rendersi ridicoli:
Noi respingiamo la posizione di neutralità del proletariato rivoluzionario internazionale con un gesto della mano: se è vero che il proletariato internazionale è per la sconfitta dell’Italia, esso non è neutrale, bensì è per la vittoria dell’Etiopia. E se desidera la vittoria dell’Etiopia, allora deve aiutare quest’ultima a conquistarla, con un intervento attivo - e non certo con la neutralità! - a favore dell’Etiopia.
Secondo questa analisi, per essere veri rivoluzionari occorrerebbe unirsi all’esercito di Hailè Selassiè e combattere per lui, o limitarsi - aggiungiamo noi - poiché il viaggio in Africa costa caro, a qualche frase che non fa male a nessuno. Ecco qui le richieste dei leninisti al 200%:
boicottaggio dei trasporti di contingenti di militari e di forniture belliche all’Italia; appoggio delle forniture di armi all’Etiopia; campagna di propaganda, decisa e coraggiosa, a favore della “causa” abissina [ecc.].
A questa gente non viene neppure in mente che il problema della “neutralità” del proletariato, rifiutata con tanto calore, possa essere - come di fatto è - un falso problema. Infatti, le due sole possibilità che il proletariato ha sono o di combattere a fianco della sua borghesia, o di fare la rivoluzione; l’idea che il proletariato possa assumere un atteggiamento “neutrale” è del tutto assurda. Del resto, le parole d’ordine leniniste - già rivelatesi scorrette nel corso dell’ultima guerra - sono del tutto inadeguate rispetto alla situazione attuale dell’imperialismo, che non conosce ormai alcuna forma di guerra di liberazione. Basti pensare che la stessa Etiopia era prontissima a prendere parte, in occasione della Grande guerra, alla rissa imperialistica nel proprio interesse nazionale - le condizioni feudali di un paese non gli impediscono certo di immischiarsi nella politica imperialistica - e soltanto la mancanza di coesione interna impedì la realizzazione di questo progetto. Per cui, interpretare oggi la guerra dell’Etiopia come lotta per la “liberazione nazionale” o per l’“indipendenza” è veramente antistorico e assurdo. L’Etiopia non è affatto una formazione omogenea ed unita che prende le armi per l’indipendenza nazionale, ma un paese dilaniato da lotte intestine fra gruppi aventi specifici interessi in contrasto fra di loro, e divisi sulla questione se sia meglio far causa comune con l’Italia o continuare a sfruttare i propri schiavi per gentile concessione dell’Inghilterra. All’interno dell’Etiopia stessa vi sono “nazioni oppresse” schierate contro Hailè Selassiè come quest’ultimo è schierato contro l’Italia. Perché, quindi, non fare un altro passo in avanti e rivendicare il diritto all’autodeterminazione dell’Etiopia stessa, il sabotaggio dell’esercito etiope e l’armamento delle tribù oppresse? A prescindere dallo zelo con cui ci si potrebbe schierare a favore dell’indipendenza dell’Etiopia, questo “principio leninista” coinciderebbe sempre con l’appoggio degli interessi imperialistici dell’Inghilterra. È ormai tempo che questo insensato punto del leninismo venga sconfessato, e che si impari a capire che nel campo internazionale le due sole alternative rimaste sono: o la politica imperialistica, oppure la politica della classe operaia.
Il conflitto abissino è fin qui rimasto localizzato perché i fronti dell’imminente guerra mondiale non si sono ancora costituiti in maniera definitiva. Riteniamo del tutto ozioso cominciare in questa sede a chiederci quando e con quale combinazione di forze scoppierà la prossima guerra mondiale, e quale di queste combinazioni avrà le migliori prospettive; non è la posizione geografica, né tanto meno il nome dei vari paesi che è importante conoscere, bensì le forze capitalistiche che in questi paesi si muovono; ed è su di esse che intendiamo concentrare tutta la nostra attenzione. Del resto, non esiste un paese con degli interessi imperialistici procedenti univocamente in una sola direzione, dal momento che, anche soltanto con lo sviluppo dell’esportazione di capitale, sul piano nazionale come su quello internazionale hanno preso corpo nuovi antagonismi d’interesse che dividono i vari paesi e il mondo intero in fazioni contrapposte: le une che guadagnano con la pace e le altre che traggono profitti dalla guerra. Il fascismo tedesco, ad esempio, si sta attualmente scagliando anche contro il Capitale, vale a dire contro quei gruppi capitalistici incapaci di identificarsi completamente con gli interessi degli imperialisti tedeschi. Il fascismo tedesco, così come quello italiano, ha anticipato il processo che doveva esser portato a compimento solo dopo lo scoppio dell’ultima guerra: l’economia di guerra coordinata, passante attraverso la subordinazione di tutti gli interessi capitalistici individuali ai più forti interessi imperialistici, che Lenin celebrava come capitalismo di stato e quindi presupposto del socialismo. Il fascismo non è quindi soltanto un’espressione della concentrazione monopolistica dell’economia politica, o della completa subordinazione degli operai agli interessi di profitto del capitale, bensì anche un provvedimento militare per i nuovi conflitti imperialistici. L’oggettiva immaturità della situazione bellica fu illustrata con estrema chiarezza dalla mancanza di opposizione, da parte delle potenze interessate alla Cina, nei confronti della politica di aggressione portata avanti, in questa zona dell’Estremo Oriente, dal Giappone; anche il riarmo della Germania e la rottura del Trattato di Versailles non fecero altro che confermare la necessità per i vari imperialismi di trovare un nuovo orientamento prima di entrarein una seconda guerra mondiale. Il mancato allargamento del conflitto africano sta dunque ad indicare che questo nuovo raggruppamento fra gli schieramenti imperialistici contrapposti non è stato ancora portato a termine; in questo modo, la guerra d’Africa ha fin qui dato nuovo impulso soltanto alla diplomazia e al processo di chiarificazione: ma proprio in questo consiste la sua importanza per la comprensione del processo che sta portando alla seconda guerra mondiale.
La moderazione dell’Inghilterra deve essere interpretata soltanto come preparazione alla guerra, così come la “neutralità” della Germania e l’ondeggiamento della Francia, determinato dall’immaturità militare tedesca. Prima che la guerra scoppi assisteremo probabilmente a cambiamenti e rivolgimenti ancor più sorprendenti, anche se è fin da ora possibile avanzare delle previsioni di linea generale. È chiaro, infatti, che le rivalità tra le grandi potenze, come quella tra Stati Uniti e Gran Bretagna, contribuiranno fortemente a determinare quelle degli altri paesi, sia in Estremo Oriente - come dimostra la politica seguita dall’imperialismo giapponese - che in Europa, ove la politica di alleanze è tutta in funzione di questo antagonismo. Dal punto di vista di classe, l’unica risposta che il proletariato può dare alla guerra è la rivoluzione, perché oggi - come sempre - per salvaguardare la propria sussistenza ed i propri interessi materiali, la classe operaia deve lottare contro il Capitale. L’inasprimento della lotta di classe è sempre, sia in pace che in guerra, la parola d’ordine più corretta. Ciò vale anche per la guerra d’Africa: anche qui il proletariato deve schierarsi a favore di se stesso - che è l’unico modo materialistico di schierarsi a favore dell’umanità - e non certo a favore dell’“indipendenza dell’Etiopia”. I popoli arretrati lottano, quando lottano, per lo sviluppo del loro capitalismo nazionale, e non può essere compito del proletariato lottare per le nuove come contro le vecchie nazioni capitalistiche: esso deve rovesciare il capitalismo mondiale. Il proletariato non ha niente da dire all’Etiopia, dal momento che l’Etiopia non ha proletariato. Ma il proletariato ha una parola da dire all’Italia e a tutte le altre nazioni capitalistiche: il rovesciamento del capitalismo mondiale e, quindi, la fine dell’imperialismo, come fine anche dell’estensione del capitalismo ai paesi arretrati. Per complicata che possa apparire la questione coloniale nell’ambito del capitalismo, la posizionedel proletariato deve continuare ad essere riassumibile nella semplice formula: la salvaguardia degli interessi di classe del proletariato, e niente altro.
Da International Council Correspondence, n. 2, gennaio 1936; ora in New Essays, vol. II, pp. 1-9
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