Mondo arabo e lotta di classe

Problemi del nostro tempo - Settembre 1976

Premessa generale - La fase imperialista

Il conflitto libanese offre ancora una volta ai rivoluzionari l'occasione per riaffermare i propri principi, le proprie analisi, le proprie prospettive contro la ideologia variamente camuffata del capitalismo, contro le mistificazioni dominanti, contro le correnti tuttora maggioritarie in seno alla classe operaia.

I problemi che si pongono nel quadro del conflitto stesso sono tali da non poter essere elusi da chicchessia con qualche frase fatta che sollecita questo o quell'aspetto della emotività umana.

Solidarietà con un popolo oppresso e diseredato della sua terra; solidarietà con le forze progressiste contro l'imperialismo occidentale alleato del sionismo ecc.; sono slogan dietro cui in realtà si nasconde l'assenza di una precisa risposta di classe ai problemi arabi e invece un preciso orientamento che è ancor poco, come vedremo, definire opportunista.

Il primo punto da cui deve prendere le mosse l'esame del problema, secondo il metodo e la dottrina rivoluzionaria, è il riconoscimento della fase che il capitalismo vive nel mondo. Su questo problema non possiamo che riaffermare quanto risulta da cinquant'anni di elaborazione del movimento rivoluzionario marxista: siamo nella fase decadente del capitalismo imperialista in cui la politica di sopravvivenza stessa si articola in comportamenti, giochi di potere, aggressività senza precedenti. Non esistono due campi in cui si dividerebbe il mondo: l'uno imperialista l'altro socialista e antimperialista. Non esistono paesi socialisti a cui farebbero riferimento le forze progressiste del mondo, bensì esistono blocchi economici, politici e militari del medesimo imperialismo che altro non è che una fase del modo di produzione capitalistica così come nelle sue linee generali ce l'ha descritta Lenin e che oggi appare ulteriormente arricchita nei suoi modi d'essere (tendenza generalizzata al capitalismo di Stato, presenza di società multinazionali come espressione della internazionalizzazione del capitale e al contempo sua spersonalizzazione).

Già qui i rivoluzionari si distinguono in modo antitetico dalle correnti politiche che a tutt'oggi irretiscono il proletariato. Fra la posizione rivoluzionaria e l'ideologia borghese anche nelle sue espressioni di sinistra più radicali non esistono mediazioni possibili.

Da queste posizioni "di principio" così antitetiche conseguono posizioni specifiche su uno specifico problema quale quello del Medio Oriente altrettanto distanti.

I rivoluzionari non riconoscono in alcuna guerra localizzata tra quante agitano lo scacchiere mondiale uno scontro tra imperialismo e antimperialismo, bensì vedono in tali conflitti solo l'agitarsi di contrapposti interessi di blocco, il gioco delle centrali dell'imperialismo per aggiudicarsi o assicurarsi zone di diretta influenza, manovrando in mille intrecci di convenienze le forze politiche ed economiche locali.

Questo non significa affatto la individuazione fatalistica e rassegnata di una onnipotenza e invulnerabilità dell'imperialismo; significa solo la necessità di delineare una strategia, e conseguentemente una tattica, rivoluzionaria che unifichi il proletariato sul fronte complessivo dell'anticapitalismo e che a questo fronte leghi le forze potenzialmente rivoluzionarie che si muovono nelle più arretrate zone del mondo, significa operare quindi nel concreto della lotta politica per la costruzione di quel fronte.

Quanti invece vogliono riferirsi ad una supposta divisione in blocchi sociali del mondo, danno la propria solidarietà e, nella misura loro possibile, un contributo a questa o quella forza definita progressista, quando non addirittura rivoluzionaria, che si risolve nell'aiuto a questo o quel fronte dello schieramento imperialista borghese.

Il nazionalismo arabo - Suoi caratteri reali

Segnata la differenza che passa fra rivoluzionari e controrivoluzionari in generale sul cosiddetto problema delle "rivoluzioni nazionali", passiamo a vedere più da vicino la vicenda medio-orientale per dare una risposta più puntuale ai gravi problemi che incombono sulle masse arabe e in particolare sui palestinesi.

Stati arabi e nazionalismo arabo, penetrazione delle attuali potenze imperialiste, lotte intestine fra i gruppi etnici e religiosi sono i problemi da prendere in considerazione per dipanare la matassa di alleanze, schieramenti scontri e rappacificazioni che sempre hanno caratterizzato il Medio Oriente e che oggi agitano particolarmente la scena libanese.

Nel marzo del 1945 fu costituita la Lega degli Stati Arabi che in quegli anni (immediatamente dopo la seconda guerra mondiale) avevano ottenuto la formale indipendenza. A patrocinare l'iniziativa ci fu la Gran Bretagna. Fino ad allora essa era stata mandataria coloniale in Stati quale l'Egitto, la Palestina, l'Iraq. La Francia invece si era installata, in seguito al primo conflitto mondiale, in Siria e Libano; nel 1946 sgombrò le proprie truppe in base ad un accordo stipulato tra i capi di Francia Libera e le forze locali impegnate contro le truppe dell'Asse e del governo di Vichy.

L'interesse inglese era ovviamente di proseguire, allo scadere del suo mandato, le proprie mene imperialiste in queste zone.

Alla Lega aderirono Egitto, Siria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita, Yemen. Le forze di governo di questi paesi, di fatto collaborazioniste con i vecchi governi mandatari in quelle zone, non svolgevano altro ruolo che quello di difendere gli interessi delle vecchie famiglie terriere e commerciali legate mani e piedi agli stessi interessi imperialisti. I discorsi che tuttora sentiamo reiterati fino alla nausea sul rafforzamento dei legami culturali economici e politici dovevano quindi restare chiacchiere demagogiche nella misura in cui veniva a mancare il cemento degli interessi comuni sul piano degli schieramenti internazionali. L'Inghilterra conduceva la propria politica araba nella illusione di ripetere i fasti diplomatici e dell'intrigo che avevano caratterizzato l'epopea di Lawrence d'Arabia. Ma in realtà la sua potenza usciva dal secondo conflitto mondiale notevolmente indebolita, il suo potere di attrazione sui notabili locali in cerca di buoni padroni era nettamente declinato. L'astro sorgente anche in queste zone appariva in modo sempre più chiaro l'America del Nord della cui potenza economica anche l'Inghilterra era ormai tributaria. È così che il progetto della Grande Siria (o della Mezzaluna fertile) in funzione del quale la Gran Bretagna aveva caldeggiato la Lega, si scontrò immediatamente con l'orientamento contrario di Egitto e Arabia Saudita che agli USA guardavano come ai migliori garanti di sviluppo economico, da una parte, e di stabilità sociale dall'altra.

Le aspirazioni nazionaliste e indipendentiste che, sin dagli ultimi decenni del secolo scorso, si erano fatte anche se debolmente sentire contro la dominazione ottomana, si articolavano nella stessa misura in cui si articolava la composizione sociale di quei paesi. Alle vecchie strutture feudali, abilmente preservate dai turchi nonostante l'affermarsi in queste zone di capisaldi capitalisti, si affiancavano con più vigore e peso politico le stratificazioni poste in essere dal modo di produzione capitalista (prime avvisaglie di borghesia nazionale e di borghesia compradora, intellettualità legata agli schemi più avanzati del capitalismo, piccola borghesia legata alla amministrazione delle imprese petrolifere e del commercio), oltre naturalmente a nuclei di giovane proletariato. Ma questo, se da una parte non poteva non esprimere il suo essere nei rapporti di produzione sul piano rivendicativo, dall'altra mancava sia di esperienza diretta sia di collegamenti validi con le forze rivoluzionarie (non si dimentichi che il crollo della III Internazionale doveva pesare in modo catastrofico proprio sulle possibilità di orientamento delle forze nei paesi più arretrati e che si affacciavano per le prime volte sulla scena dei conflitti propriamente interimperialisti).

Queste varie componenti del nazionalismo arabo diventavano così facili strumenti di manovra per le forze imperialiste che le volessero utilizzare ai propri fini e contemporaneamente facevano da quadro complessivo di supporto ai delicati equilibri che di volta in volta si sono andati stabilendo e dissolvendo in ciascuno di questi paesi. Per spiegarci con un esempio: sono più sinceri i nazionalisti del Wafd egiziano, che con una blanda opposizione alla occupazione militare (non del tutto sgradita alle sue componenti più arretrate) guardano agli investimenti e prestiti degli USA, o i Liberi Ufficiali di Neguib e Nasser che ottenendo i finanziamenti per la diga di Assuan dalla Unione Sovietica, portano a termine il colpo di stato del 1952 e nazionalizzano il canale di Suez nel 1956 alleandosi allo schieramento imperialista facente capo all'URSS? È evidente per noi che non si tratta di scegliere il migliore: lo stesso generico progressismo di Nasser rispetto ai vecchi capi del Wafd è smentito dall'opera di normalizzazione che i Liberi Ufficiali compiono dal 1952 al 1956, in particolar modo contro le agitazioni operaie.

Ben più importante è ancora una volta rilevare il fatto che nell'era imperialista ogni nazionalismo, ogni velleità di rivolgimento a sfondo più o meno democraticista, ogni tentativo di creazione di mercato nazionale autonomo, deve sottostare alle leggi e agli intrighi delle centrali imperialiste che conducono il loro gioco diplomatico proprio sulla testa dei nazionalisti.

È proprio con la guerra di Suez del 1956 che la Lega Araba si mostra per la prima volta nella sua più scoperta inefficienza, non diciamo nel quadro della lotta antimperialista, ma anche nella semplice difesa del pan-arabismo a cui a parole tutti si rifanno. Nessuno osò muoversi in difesa dei "fratelli" egiziani: c'era la flotta americana nelle vicinanze a coprire l'attacco franco-inglese a significare con chiarezza da che parte stavano gli interessi di quella forza a cui gli altri "fratelli" guardavano speranzosi. Da allora la Lega Araba funziona solo come organismo di mediazione degli intricati e opposti interessi che si agitano nel Medio Oriente, fungendo nei fatti da garante del prevalere di questi su quelli delle masse di proletari e di diseredati di quella zona tormentata del mondo.

Panarabismo e sue manipolazioni imperialiste

Ma possiamo risalire al 1948, quando ancora l'Unione Sovietica iniziava i suoi tentativi di penetrazione. L'intervento arabo contro la proclamazione dello Stato d'Israele appare più come un inevitabile portato della demagogia panarabista (che aveva suscitato tanto fuoco nelle masse arabe) che una mossa coordinata e complessiva contro la penetrazione imperialista. Sono le stesse vicende della guerra con le lotte intestine fra gli stati arabi a insegnare quanto il panarabismo si stemperasse nei giochi di potere anglo-franco-americani. L'imperialismo occidentale aveva voluto dare la sua soluzione al problema ebraico, soluzione antitetica agli interessi di un popolo arabo (quello palestinese in particolare), ma è sempre l'imperialismo occidentale a fomentare sospetti e rancori all'interno dei restanti paesi arabi secondo gli stessi giochi concorrenziali fra Inghilterra Francia e America. (Ricordiamo che per l'opposizione giordana - o Inglese, come si vuole - il piano militare della Lega fu modificato nel corso del conflitto da una parte nel tentativo giordano di assicurarsi ampliamenti territoriali dall'altra nel tentativo de il Cairo di contenere gli appetiti del re Abdallah).

Oggi, cambiati gli interpreti, modificata la scena per quanto riguarda gli equilibri imperialisti si sta verificando lo stesso fenomeno solo apparentemente paradossale. L'Egitto sta giocando fra Russia e America al "chi mi dà di più" allontanandosi un poco dagli alleati di ieri e dando spago alla corte che gli fanno gli USA.

La Siria recupera, con velleità di autonomia, il vecchio progetto inglese della Grande Siria, sacrificando a questo gli interessi nazionali dei palestinesi e suscitando così le serie apprensioni dell'URSS che a questi è legata da interessi strategici e di prospettiva. Dietro Assad c'è evidente l'ombra di Kissinger e degli interessi americani che in abili giochi diplomatici alimentano l'autonomismo dell'ala moderata del Baath in funzione antisovietica e di difesa del caposaldo israeliano. E infatti Assad è volato a Mosca per far presente che intende portare avanti la politica avviata in Libano e che se l'URSS non ci sta, esiste sempre l'America a cui rivolgersi, oppure (e perché no?) la Cina.

Le destre libanesi, un tempo (v. 1958 libanese e relativo sbarco degli americani) feroci avversarie della Rau che comprendeva la Siria, oggi si alleano alle nuove forze là al governo per contenere l'ascesa delle "sinistre" e dare un sostanziale contributo allo sterminio dei palestinesi.

Le centrali imperialiste in quanto portatrici di capitali, tecnologie e armamenti dominano complessivamente la scena. Dietro alleanze e discordie, dietro singoli nazionalismi, dietro gli intrighi diplomatici si muovono sempre le centrali imperialiste. Ma d'altra parte e ancora una volta (come nel '48, come nel '56) in quanto portatrici di interessi di blocco sono costrette ad alimentare proprio ogni velleità di autonomia, ogni illusione arabista che tanto ruolo ancora gioca nel sollevare entusiasmi ed odi nelle masse arabe diseredate e nel complicare la scena sino all'inverosimile con iniziative e mosse contraddittorie a un preteso piano logico complessivo.

Ruolo del Medio Oriente negli equilibri imperialisti del 2o dopoguerra

E questi caratteri dello scacchiere medio orientale, determinati dal corso storico precedente e alimentati dalle bramosie imperialiste trovano una precisa definizione nell'attuale assetto del sistema capitalista.

Il secondo conflitto mondiale, in quanto rottura dei vecchi equilibri e ricostruzione del sistema produttivo del capitalismo su nuove basi, ha aperto l'era del capitalismo di stato nel senso della generale affermazione di questa tendenza nelle cittadelle del capitalismo.

Le "nuove" forme stataliste del capitalismo erano state sperimentate fra le due guerre nel paese che aveva visto la prima vittoria del proletariato e la sua più grave sconfitta (la Russia sovietica). Dopo la seconda guerra si è andata delineando con precisione la forma integrativa del capitalismo di Stato in quanto forma ultimale dello stesso sistema capitalista e delle sue possibilità di crescita (attenzione: crescita, non sviluppo progressivo; cioè crescita del suo dominio sul mondo dell'uomo e non crescita delle potenzialità sociali e produttive dell'uomo): la internazionalizzazione del capitale e l'integrazione economica di ogni regione del globo alle cittadelle imperialiste. Questa nuova tendenza, che ben pochi, per non dire nessuno, hanno osservato nei suoi aspetti reali e nelle sue implicazioni politiche, ha già trovato ampi motivi di realizzazione con la sempre più stretta integrazione appunto fra le centrali imperialiste e le proprie aree di influenza diretta così come uscirono da Yalta (Usa - America Latina e Oceania, Urss - Paesi del Comecon). Se osserviamo l'assetto geopolitico di queste zone integrate ci rendiamo immediatamente conto che si tratta di regioni in cui la penetrazione economica e politica della metropoli è di più lunga data. E infatti l'Europa, culla delle prime forme di capitalismo, ed esportatrice di queste nella stessa America del Nord, sfugge non poco a questa schematizzazione secondo linee di tendenza che non è qui luogo di esaminare.

Le restanti parti del mondo, una gran parte dell'Asia e dell'Africa, se da una parte hanno visto definitivamente l'affermarsi del dominio sostanziale del capitalismo, dall'altra sfuggono ancora ai processi di integrazione, sia perché in ballottaggio per quanto riguarda l'assegnazione di fronte, sia perché lo stesso scontro fra modo di produzione capitalista con le sue forme di organizzazione sociale (meglio in questi casi parlare tout-court di disintegrazione) e le antiche forme indigene rende problematico l'assoggettamento definitivo alle cittadelle da cui peraltro quei paesi dipendono in materia di rifornimenti e di sbocchi di mercato. Nel caso in cui le forze della Rivoluzione proletaria non sapranno interrompere il ciclo infernale del capitalismo di crisi-guerra-ricostruzione del ciclo di accumulazione, sarà la terza Guerra mondiale a risolvere definitivamente i problemi di integrazione completa del Medio Oriente ai centri di dominio imperialistico che usciranno vincitori.

Fino ad allora, sempre nell'ipotesi auspicata dalle forze del capitale della passività proletaria, il Medio Oriente rimarrà teatro di precise lotte interimperialiste mascherate da confuse guerre intestine tra falsi nazionalismi e tra le più disparate tendenze che, sotto la veste del tutto formale e appositamente cucita del pan-arabismo, nascondono interessi di classe, di gruppo quando non addirittura di clan familiare, (come nel caso dell'autonomismo kurdo). È in questo quadro che si deve chiarire il problema libanese e il più drammatico problema palestinese, perchè sia possibile delineare una precisa strategia rivoluzionaria che involga il definitivo riscatto di questo popolo diseredato, oppresso e vilmente dileggiato dalla mostruosa protervia e spregiudicatezza del capitalismo decadente.

Se dunque l'attuale fase del sistema di produzione capitalista e i relativi equilibri fra i fronti dell'imperialismo non consentono una precisa e "definitiva" sistemazione di quest'area e se, conseguentemente, il nazionalismo arabo continuerà a fungere da supporto alle intricate sì, ma precise manovre degli avversi schieramenti imperialisti, non è possibile attendersi alcuna soluzione definitiva agli attuali conflitti che insanguinano la terra araba.

Le tre ipotesi più facili relativamente ad una temporanea chiusura del conflitto libanese sono quindi sottoposte a quella, difficilissima, di una stabilità della situazione negli altri paesi. Difficilissima perché è facile presupporre, nel quadro precedentemente tracciato, che improvvisi rivolgimenti politici in questo o quel paese con conseguenti correzioni di rotta alla politica nazionalista, turbino lo sfondo su cui la pubblicistica borghese costruisce le proprie ipotesi.

Attualmente tali ipotesi sono:

  1. Le varie parti in causa addivengono ad un accordo sui due stati (palestinese ed israeliano), e allora la Siria che a questo mira, stringe i legami con il Libano (cristianizzato) e con la Giordania mollando definitivamente l'URSS per porsi sotto l'ombrello americano.
  2. Si giunge in maniera complessa ai due Stati, ma la Siria inverte la rotta e si collega al mini-stato palestinese rinsaldando i legami con la Unione Sovietica; il che sarebbe un'altra versione del medesimo nazionalismo siriano con caratteri più accentuatamente pan-arabisti.
  3. Tutto resta come ora per quanto riguarda la questione palestinese, ma la Siria ingloba il Libano e magari la Giordania in cambio delle alture del Golan a Israele.

È sufficiente meditare un attimo sulle tre ipotesi per rendersi conto che nessuna di esse può costituire motivo di assestamento e di stabilità in questa zona del mondo. In ognuna di esse infatti entrano in gioco sia il nazionalismo arabo, nelle sue diverse manifestazioni appunto nazionali, sia gli interessi delle potenze imperialiste, che in questo periodo sono indaffaratissime a tessere fitte reti diplomatiche di complicità attorno o contro i vari governi arabi. Possiamo dare per scontato che l'URSS, mentre tenta il recupero in extremis del generale Assad, si stia dando da fare in campo siriano per trovare più sicuri alleati che sbattano fuori dai piedi il medesimo. Su cosa far leva? Su una diversa varietà di nazionalismo e di pan-arabismo. A confermarlo, ci sono le voci provenienti da Damasco circa un malcontento crescente fra le stesse Forze armate, che notoriamente sono la forza determinante degli schieramenti politici in tutti questi paesi.

La questione palestinese ci appare ora come un problema nel problema. Sullo sfondo sta, come visto, la complessa battaglia per l'assetto definitivo del Medio Oriente negli schieramenti imperialisti. Su questo sfondo e traendo da questo la sua ragion d'essere si presenta il problema di "una terra ai palestinesi".

Una terra ai palestinesi?

Fin dai tempi della amministrazione turca di questo territorio iniziò la immigrazione di ebrei in Palestina dal 1882 al 1914 da 60 a 80 mila persone. Dalla dichiarazione Balfour (1917) in poi la immigrazione continua a tassi crescenti (dal 1932 al 1938 arrivano 217 mila persone). La dichiarazione Balfour diceva:

il governo di Sua Maestà britannica vede con favore la creazione in Palestina di una patria per la nazione ebraica e farà ogni sforzo per facilitare il conseguimento di tale obbiettivo.

Con essa il governo di Sua Maestà britannica dava l'assenso alla spogliazione sistematica dei palestinesi di tutto ciò su cui poggiava la loro stessa esistenza fisica. Il "beninteso" inglese ("Beninteso - proseguiva la dichiarazione Balfour - a patto che non venga fatto nulla che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebree residenti in Palestina") doveva servire soltanto a tranquillizzare le coscienze, facili all'imbonimento, di chi temeva per la sorte dei palestinesi. La rapina ai danni della comunità araba, complice l'imperialismo occidentale, fu da parte delle forze economiche sioniste totale e senza remissione. Il forte afflusso di capitali da tutti i paesi dell'Europa e dagli USA, da cui provenivano i ricchi ebrei, garantì l'esproprio legale (risarcito col suono frusciante della carta moneta destinata ad esaurirsi presto in assenza di autonome opportunità di investimento) di tutte le terre; rese possibile inoltre l'impianto di porti, industrie, servizi destinati ad assorbire solo una quota irrisoria di mano d'opera locale. Gli ebrei che immigravano erano o capitalisti in cerca di nuove imprese nella terra vergine o proletari destinati a lavorare dietro salario per quei medesimi capitalisti. La colonizzazione della terra palestinese si è andata completando proprio attraverso la immigrazione di elementi ebrei di entrambe le classi. Ai palestinesi non restava che l'esilio (volontario o coatto, ma sempre forzato) nella condizione di veri e propri diseredati.

Strappati dalle condizioni naturali della produzione, la loro terra, e dal minimo impianto economico maturato sotto il colonialismo britannico, i palestinesi si sono dati al piccolo e piccolissimo commercio nei paesi ospiti, al bracciantato più sottopagato e, i pochi che hanno potuto godere di una formazione all'estero, ad impieghi tecnici.

Quando si parla dei profughi dunque si parla in massima parte di sottoproletariato diseredato e di una percentuale di piccola borghesia, tutti disseminati in Libano, Giordania e Siria. L'unico fattore unificante resta di fatto la aspirazione ideale a un ritorno alla propria terra nella speranza di trovare là le condizioni per un inserimento nella vita economica attiva che viene loro quotidianamente negato dalla condizione di profughi medesima.

Anche nella ipotesi di un ritrovato suolo nazionale, chi darebbe loro i capitali, gli impianti, la tecnologia per avviare uno stato palestinese? Ripetiamo non si tratterebbe qui di una immigrazione del tipo di quella ebraica (uomini che portavano o capitali o una forza lavoro già precedentemente qualificata) bensì di un rientro in patria di gente priva sia del capitale che della qualificazione necessaria ad avviare una qualsivoglia costruzione industriale. Poiché, parimenti, non è certo ipotizzabile la costruzione di uno stato paleo-agricolo (agricoltura senza meccanizzazione e senza le necessarie infrastrutture a carattere industriale) non resterebbe che una soluzione: il ricorso alla tecnologia e ai capitali stranieri e specificatamente dell'una o dell'altra cittadella del capitalismo avanzato; il ricorso quindi all'uno o all'altro fronte dell'imperialismo. La soluzione del problema nazionale si realizzerebbe, ancora una volta fra i tanti esempi avuti nella fase dell'imperialismo, in assoggettamento del nuovo Stato alle ferree leggi della dominazione imperialista, ai soffocanti lacci del capitalismo decadente. D'altra parte, già oggi, ancora ben lungi da questa stessa "soluzione nazionale" il movimento "di liberazione" della Palestina appare legato mani e piedi allo stesso intreccio di interessi imperialisti a cui dobbiamo fare riferimento per esaminare i particolari di ogni vicenda mediorientale.

Non è privo di significato, come certi "sinistri" vorrebbero far credere, il fatto che i successi diplomatici dell'OLP siano dovuti alle trattative fra questa e le grandi potenze che dominano all'ONU e fra queste e le parti localmente interessate ai travagli mediorientali. Né è privo di significato il costante riferimento da parte del movimento dei fedayn alle cosiddette grandi vittorie riscosse ultimamente dai paesi per mille fili legati all'URSS.

In questo senso l'invocazione a un "compromesso nazionale" fatta dalla nostra sinistra "ultraparlamentare", estremo baluardo dell'opportunismo socialdemocratico, appare come la più grossa scemenza e al contempo la più bieca mistificazione riguardo i problemi della Palestina e del Medio Oriente.

Le mistificazioni più pericolose della ideologia borghese

  1. La crisi energetica se da una parte appare come un duro colpo all'egemonia americana nel settore, dall'altra si rivelò presto come un ulteriore strumento di ricatto in mano alle multinazionali del blocco occidentale.
    L'aumento del prezzo del greggio, sventolato come misura di guerra nel quadro del conflitto arabo-israeliano si inseriva in realtà come misura necessaria nel quadro dell'adeguamento del mercato arabo ai prezzi imposti dalla crisi che stava investendo il capitalismo. Tanto è vero che le prime misure sul mercato del petrolio arabo saranno prese ben prima dell'Ottobre 1973, e cioè della riapertura delle ostilità con Istraele. Nel dicembre del 1971 la Libia nazionalizza tutte le attività della B.P. Nel gennaio del 1972 i rappresentanti dell'OPEC agganciano il prezzo del greggio alla fluttuazione monetaria.
    Mistificare questa realtà nei termini usati dall'ultrasinistrismo borghese significa soltanto nascondere anche ai propri occhi i dati di un problema che non si sa e non si vuole affrontare, significa cioè porsi alla retroguardia degli stessi economisti borghesi che sino a certe evidenze han ben saputo arrivare e non hanno affatto creduto alla favoletta della misura antiamericana. Tanto più che è la stessa stampa quotidiana che allora ci fornì i dati per capire che anche la cosiddetta "arma del petrolio" era tale soprattutto per gli Stati Uniti che poterono usarla per scaricare ulteriormente sulle spalle dei loro partners europei e giapponese gran parte del peso della crisi strutturale che aveva investito in modo particolare la loro avanzatissima economia. Gli USA dipendevano allora (e oggi la quota è ancor più ridotta) per il solo 10 per cento del fabbisogno interno dal petrolio arabo.
    Gli Stati Uniti erano e sono praticamente i monopolisti del trasporto di greggio sul mare e sono quindi in grado di giocare questa potentissima arma di ricatto sia sui paesi che volessero trattare in proprio con gli arabi per gli approvvigionamenti sia nei confronti degli stessi paesi esportatori. Infine le riserve petrolifere dell'Alaska, sino ad allora tenute di riserva, hanno trovato, con l'aumento del prezzo di mercato del greggio, un'ottima occasione di essere sfruttate: gli enormi investimenti necessari per avviare l'estrazione nell'estremo Nord apparivano ora appetibilmente remunerativi.
    A chi sappia guardare globalmente ai fatti economici e politici del mondo capitalista tutto ciò appare inequivocabile. Non così per coloro che, volendo difendere a tutti i costi visioni distorte dell'attuale fase storica e volendo in ogni caso propinare al proletariato linee perdenti in coerenza con gli interessi di un fronte imperialista erettosi a tanto sulla scorta della più grave sconfitta proletaria (la Rivoluzione di Ottobre), si ingegnano a trovare spiegazioni di comodo per ogni evento della dinamica interimperialista.
  2. I tentativi, tanto velleitari quanto ingenui, di autonomizzazione dalle centrali imperialiste da parte dei paesi dell'OPEC, rientrano ordinatamente nel quadro dei fermenti che agitano l'insieme dei paesi "non allineati" e costituiscono una tipica contraddizione interna al modo di produzione capitalista nella fase attuale del suo ciclo storico. Le stesse dichiarazioni che accompagnarono nell'ottobre del 1973 la decisione di ridurre l'estrazione del greggio e aumentarne il prezzo, si inseriscono perfettamente nel quadro, spesso contradditorio e multiforme, della politica di tutti quei paesi che oppongono resistenza al processo di progressiva integrazione alle metropoli imperialiste e che verosimilmente saranno oggetto di contesa fra i blocchi che giungeranno ad affrontarsi in un terzo conflitto mondiale qualora il proletariato non scrivesse con la punta delle armi la parola fine sulla società di classe. Questo per quanto riguarda il vero ruolo svolto dall'OPEC nel proprio insieme. Se poi valutiamo la composizione di questo organismo, ogni velleità di definirlo "antimperialista" cade immediatamente agli occhi di qualunque ...onest'uomo. (Si pensi che ne fanno parte paesi come l'Iran e la Arabia Saudita). Infine non è possibile a mente raziocinante presentare un organismo economico a carattere di "cartello fra Stati" e raggruppante paesi a varia conduzione di governo come strumenti di una lotta politica che sfugga l'ambito delle contraddizioni e degli scontri di interesse fra gli Stati capitalisti. Altrimenti potremmo sforzarci di individuare una componente rivoluzionaria nei più accesi europeisti che operano nelle varie strutture comunitarie (dall'OCSE all'EURATOM) nelle cui dichiarazioni ricorre spesso una nota "antiamericana".
  3. Non esiste all'interno dell'OLP alcuna differenziazione riconducibile a motivi e contrapposizioni di classe. Si tratta invece di diversi orientamenti tattici finalizzati tutti e sempre a soluzioni nazionalistiche. Nell'area "gauchiste" si è soliti vedere differenze sostanziali in ordine ai contenuti di classe fra i palestinesi che sostenevano la necessità della lotta ai governi reazionari dei paesi ospiti e gli altri palestinesi che, come Arafat, erano per la non ingerenza. (Non ci riferiamo qui al Movimento Studentesco che ha sempre appoggiato Al Fatah senza andare tanto per il sottile). Se tali differenze fossero reali, non sarebbe stata sufficiente la sconfitta del Settembre Nero di Amman per farle rientrare. Coloro, se ce ne furono, che si fossero battuti in qualità di sfruttati e oppressi dal capitalismo a fianco dei compagni sfruttati del paese ospite, pur decimati dalle armi del nemico di classe, non si sarebbero mai rappacificati con questo. E il fatto che in Italia come altrove organizzazioni politiche giustifichino e concordino con la svolta... tattica è significativo precisamente della loro estraneità al movimento comunista di classe.
    I comunisti restano innanzitutto comunisti e rivoluzionari ovunque si trovino e qualunque sia la situazione specificamente nazionale in cui si trovano. Altrimenti torna in modo peggiorato il tradimento socialdemocratico della Seconda Internazionale a fronte della prima guerra mondiale.
    Il principio di "non ingerenza" proclamato da Arafat e il suo trionfo a seguito del settembre nero mostrano il vero volto nazionalista piccolo borghese di ogni componente dell'OLP, nessuna delle quali può vantare una genuina politica di classe: non il fronte facente capo ad Arafat, nè il cosiddetto "fronte del rifiuto".
    L'uno svende, per una soluzione purchessia, sia gli interessi di classe del proletariato internazionale e del diseredato popolo palestinese, sia gli interessi nazionali nella accezione integrale (Palestina unita in un nuovo Stato che integri arabi ed ebrei) per puntare al meschino ma possibile compromesso sui "due Stati" che spartirebbe equamente gli interessi USA e URSS.
    L'altro capitanato da Habbash e utilitaristicamente sostenuto dalla Cina, persegue l'obbiettivo nazionalista massimale che nessuna delle potenze imperialiste è in grado di imporre o di accettare; frustra quindi ogni energia dei suoi combattenti al di fuori di ogni collegamento di classe su scala internazionale (come visto, è accettato il principio di "non ingerenza" negli stessi paesi ospiti dei profughi palestinesi). L'attuale problema è invece ben altro che quello di dare l'appoggio, foss'anche solo morale, a questa o quella soluzione nazionalista.

Autodeterminazione dei popoli o autodeterminazione del proletariato alla propria emancipazione dal salario?

In prima conclusione, anche per la Palestina vale il principio che non è possibile oggi da parte dei rivoluzionari sostenere il diritto alla autodeterminazione dei popoli (affermato dalla conferenza di Baku del 1920) perché non è possibile alcuna autodeterminazione. In assenza di un polo di aggregazione rivoluzionaria, in assenza di un preciso riferimento socialista - condizione esistente invece nel 1920 quando Lenin scriveva le proprie tesi coloniali - ogni liberazione nazionale si inserisce ineluttabilmente nella dinamica imperialista come momento della lotta fra le metropoli per la spartizione e la integrazione di ogni regione del globo.

La pratica nazionalista non è integrabile alla pratica rivoluzionaria, bensì la contraddice. Al movimento nazionalista dell'OLP e dei suoi sostenitori occidentali va opposta una strategia ed una tattica che mirino al cuore della dominazione imperialista, cioè al modo di produzione capitalista.

Problemi rivoluzionari dunque sono:

  1. Quali sono le linee portanti di questa strategia nei paesi attualmente teatro di guerre e massacri come momento della dinamica imperialista?
  2. In che misura e in che modo innestare queste linee dorsali della strategia comunista nelle lotte politiche di quei paesi?

Non è possibile affrontare questi problemi altrettanto schematicamente di come li abbiamo posti, dal momento che essi sono strettamente intrecciati al punto che la risposta all'uno richiede la presa in considerazione dell'altro.

Va innanzitutto stabilito - riaffermato - che compito primo delle forze comuniste rivoluzionarie nei riguardi delle situazioni come quella mediorientale è portare chiarezza, sottoporre cioè alla lama tagliente della indagine marxista i termini di queste realtà: i veri rapporti fra le classi e fra queste e i giochi di potere dell'imperialismo, le prospettive di sviluppo delle guerre locali nel vasto e chiarificatore quadro dell'assetto attuale del sistema di produzione capitalista e della dinamica delle sue contraddizioni e dei suoi ineguali tassi di sviluppo. La linea di demarcazione fra rivoluzionari e agenti della conservazione riguardo al problema in esame passa proprio attraverso questa capacità, attraverso la precisa determinazione rivoluzionaria a disdegnare ogni suggestione emotiva, ogni richiamo del sentimentalismo piccolo-borghese per affondare implacabilmente il bisturi della scienza proletaria.

È evidente - a chiunque guardi con occhio critico alla scena politica medio-orientale - la impossibilità dell'enuclearsi a partire dal movimento nazionalista di gruppi politici di classe in grado di far luce piena sulla situazione e sulle sue vere prospettive. Il movimento nazionalista, come abbiamo cercato di mostrare, per la sua natura e per il suo inestricabile intrecciarsi con la rete di interessi imperialisti, non ha in sè alcuna possibilità di trascrescenza nè di autoelevazione" politica. L'esame condotto dal nostro partito dei documenti provenienti dall'area del vicino oriente e dai movimenti anche più radicali del nazionalismo arabo, sebbene mostri talvolta interessanti spunti critici e qualche isolato luccichio di esatte intuizioni o interpretazioni, fa risaltare nell'insieme l'intrinseca incapacità a emanciparsi dai condizionamenti politici che la stessa politica e diplomazia imperialista pongono in essere. Né potremmo attenderci qualcosa d'altro. Il movimento nazionalista stesso è una componente della attuale dinamica di decadenza (più esatto che di sviluppo) del sistema capitalista poiché è il dato politico del gioco di tendenze e controtendenze al processo di integrazione mondiale del capitale. In altri termini ciò che si affermava nel paragrafo 3 circa i motivi della ritardata integrazione alle cittadelle dell'imperialismo di tanti paesi dell'Asia e dell'Africa trova ora un momento di più puntuale verifica e chiarificazione. Le controtendenze in atto in questi paesi e che, come accennavamo sopra, sono mosse dalla stessa concorrenza interimperialista e dalle difficoltà di affermazione del dominio formale del capitale nei modi propri alle metropoli, non sono affatto un momento anti-imperialista. Le stesse forze politiche che si fanno interpreti di queste controtendenze non hanno dunque alcuna possibilità di situarsi come progressive, in quanto, tuttalpiù, si sforzano solo di frenare il corso storico del capitale.

D'altra parte le notizie provenienti dai paesi arabi e da Israele fanno chiaramente intendere che sotto le grigie stratificazioni degli intrallazzi imperialisti a garanzia dello "status quo" sociale cova la brace della lotta di classe. Ogni tanto qua e là scoppiano scintille che le forze di governo locali e i mantici della socialdemocrazia internazionale cercano di isolare, oscurare e spegnere. Sia in Israele che in Egitto, grossi contingenti operai si sono mostrati in significativi scontri e manifestazioni di piazza nella propria caratterizzazione di classe.

Abbiamo detto sopra (paragrafo 1) che in queste zone - come altrove nel Terzo Mondo da poco uscito dalle pastoie coloniali del capitale mercantilista - il giovane proletariato manca sia di esperienza diretta dello scontro di classe, sia di collegamenti validi con le forze rivoluzionarie nel mondo. D'altronde questa è la condizione per cui il capitalismo può impunemente sfogare in quei paesi le proprie tensioni interne attraverso quelle guerre localizzate preludio e palestra della futura conflagrazione bellica mondiale. Le attuali sebbene sporadiche manifestazioni operaie sono una possibile valida palestra nella quale acquisire velocemente l'essenziale della esperienza maturata dal movimento operaio in oltre un secolo di lotte. In quelle battaglie il proletariato del medio oriente ritrova i motivi della propria unità e della propria identità di classe. Per questo i rivoluzionari guardano a quelle battaglie come le uniche interessanti nella prospettiva della rivoluzione comunista e a quelle battaglie volgono il proprio saluto e augurio.

La parola d'ordine che noi rivoluzionari lanciamo oggi per tutti i paesi del mondo è quella che sino al 1920 valeva per le cittadelle del capitalismo: diritto della classe operaia alla emancipazione dal lavoro salariato!

Solo nella comunità socialista mondiale, o quantomeno abbracciante un insieme di paesi autosufficienti, dal punto di vista estrattivo e produttivo, i paesi "in via di sviluppo" troveranno la via per un vero sviluppo e per la soluzione dei grandi problemi sociali. Solo in una società emancipata dalle leggi economiche del capitalismo, le forme sociali precapitalistiche o addirittura arcaiche troveranno la via di un proprio organamento su scala mondiale con le forme comuniste senza i traumi e il disfacimento sociale e morale che il modo di produzione capitalista porta con sè nella integrazione di quei paesi: il loro apporto in socialità e in esempi di forme comunitarie che il capitalismo non è riuscito e non riesce ad annullare del tutto, sarà un contributo prezioso alla 'rivoluzione permanente verso la fase superiore del comunismo nell'insieme dei paesi rivoluzionari.

Condizioni della lotta di classe

Siamo ancora molto lontani, però, dal poter parlare di un crescere della coscienza di classe in questi paesi. Là (come da noi, d'altra parte) ci si muove ancora su un piano strettamente sindacale e rivendicativo in opposizione alle gravi restrizioni che il permanente stato di guerra impone alle masse lavoratrici: è sempre presente quindi il pericolo che le lotte si rinserrino in tale ambito, chiudendosi lo sbocco politico di classe. Non esiste ancora sul piano internazionale un movimento di classe organizzato che sia di esempio e di stimolo alle lotte di classe in quelle zone.

Ciò che i proletari arabi ed israeliani e le masse diseredate e oppresse dei profughi palestinesi vedono nel civile e avanzato mondo del capitale imperialista (Italia compresa) è il prevalere di quelle stesse forze della socialdemocrazia che localmente giocano la carta della rabbia degli sfruttati sul piano della lotta interimperialista gettando acqua sui falò operai che qua e là si accendono. Non a queste forze potrà fare riferimento la lotta operaia perchè da essa nasca e si sviluppi l'organizzazione politica di classe, per il semplice fatto che le bande del sinistrismo borghese internazionale (dai partiti "comunisti" alle varie Avanguardia Operaia o Lutte Ouvrière) ricaccerebbero in braccio al nazionalismo di Arafat o di Habbash sia i proletari arabi che le loro lotte. Ciò che paventiamo come il maggior pericolo incombente sugli embrioni di lotta di classe in Medio Oriente è già in fase d'attuazione. Quando gli scioperanti egiziani lanciano parole d'ordine del tipo: "Hegazi, il tuo è un governo nazi!" oppure "Jehan il tuo regno è quello di Dayan" è evidente l'inquinamento nazionalistico e democraticista degno dei più folcloristici gruppettari nostrani.

Non ci soffermiamo sul tema del peso quantitativo del proletariato arabo perché affatto irrilevante in tema di strategia generale della rivoluzione.

Con questo sgombriamo il campo da qualsiasi equivoco maoisteggiante ribadendo che la contraddizione principale è sempre quella fra proletariato e capitale nella sua veste più aggiornata (imperialismo). È una caratteristica del capitale e ancor più nella sua fase imperialista, generalizzare al globo intero le sue più avanzate contraddizioni, indipendentemente dalle condizioni specifiche in cui si trova ad operare nelle diverse regioni.

Il modo di produzione capitalista è l'unico apparso nella storia fra le cui caratteristiche ci sia quella di informare completamente di sé le economie di tutte le comunità con cui entra in contatto. In ciò sta la ragione del suo generalizzare come tali le proprie contraddizioni fondamentali.

Da quanto visto sopra, dunque, neppure l'acuirsi della crisi capitalista e della ulteriormente negativa congiuntura determinata dallo stato di guerra di quei paesi, neppure cioè l'acuirsi delle condizioni oggettive per le lotte proletarie, è garanzia di per sé sufficiente per l'aprirsi della prospettiva rivoluzionaria. Come, d'altra parte, le masse palestinesi potrebbero raccordarsi, prive come sono di caratteristiche specificatamente di classe proletarie, alle lotte operaie dei paesi ospiti in assenza di una comune linea rivoluzionaria che sappia guardare oltre lo specifico del momento?

Saranno in primo luogo le lotte operaie a dover trovare un terreno comune riallacciandosi al movimento di classe internazionale che ha per fine l'abbattimento del dominio capitalista:

  1. mirando senza compromesso alcuno alle strutture vitali del capitalismo;
  2. non concedendo alcuna tregua motivata da ragioni di guerra o nazionali, bensì sviluppandosi in ampiezza e incisività proprio quando più alti si fanno gli appelli alla solidarietà nazionale da parte dei regimi locali;
  3. contrapponendo alla demagogia terzo-mondista, che vorrebbe indicare nei caratteri talvolta centrifughi di questi paesi rispetto ai processi di integrazione messi in atto dalle metropoli, la dura realtà della ribellione operaia ai meccanismi oppressivi dei regimi locali e la affermazione della unità di classe col proletariato delle metropoli.

Posto in altri termini il problema suona così: sulle lotte operaie di arabi e israeliani poggia la speranza rivoluzionaria nella misura in cui i comunisti del mondo intero sapranno coordinare prima e unificare poi gli sforzi per la delineazione di uno schieramento di classe capace di guidare le lotte proletarie nei paesi capitalisti avanzati e di ergersi così a punto di riferimento delle lotte di emancipazione degli sfruttati di tutto il mondo. Al di fuori di questo piano generale non è possibile alcuna soluzione del problema palestinese, come non è possibile alcuna soluzione per tutti i paesi del Terzo Mondo.

Viene così precisandosi il compito che spetta ai rivoluzionari di tutti i paesi, là ove sono organizzati in Partito (Italia) e là ove agiscono sul piano di piccoli gruppi in fase di orientamento o addirittura come individui isolati.

Tale compito si svolge su due linee parallele e contemporanee:

  • nei confronti della specifica situazione araba e palestinese, offrire concreta solidarietà di classe agli episodi di lotta del proletariato arabo e israeliano col denunciare tutte le manovre di soffocamento e mistificazione da qualunque parte provengano (regimi arabi reazionari, governo israeliano forze della cosiddetta "resistenza palestinese" socialdemocrazia internazionale) e propagandando i principi della dottrina e del metodo rivoluzionario nella loro applicazione alla attuale fase imperialista;
  • operare attivamente nel proprio paese per affrettare i tempi e apprestare le condizioni del Partito Mondiale del proletariato rivoluzionario, espressione compiuta dello schieramento internazionale capace di guidare le lotte della classe operaia sul suo specifico terreno.

Abbiamo detto "linee parallele e contemporanee". Non è pensabile infatti una scalarità nei tempi di affrontamento del problema perché:

  1. non si costruisce un partito rivoluzionario giocando sull'equivoco;
  2. la definizione precisa delle posizioni su problemi come quelli dei paesi in via di sviluppo e delle guerre localizzate è essenziale e improrogabile nella delineazione della piattaforma politica rivoluzionaria.
Mauro jr.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.