Una risposta internazionalista a questa crisi economica, sanitaria, sociale, ambientale e… politica

La crisi CoViD è appena iniziata, per dare adeguate risposte politiche ai problemi che solleva è opportuno fare un passo indietro e collocarla nella posizione che le compete: l’ultimo (per ora) atto di una crisi strutturale che affligge il capitale da un cinquantennio. Da quando, cioè, alla fine dei ‘60 il boom economico della ricostruzione post seconda guerra mondiale si è esaurito, aprendo la più lunga fase di crisi strutturale che la secolare storia del capitalismo abbia mai conosciuto.

Sul tema abbiamo scritto tanto, non ultimo il libro – pubblicato “un momento” prima che scoppiasse la pandemia e disponibile nel nostro catalogo – al quale rimandiamo chi volesse approfondire: “Il Capitalismo è crisi, considerazioni e verifiche sulla caduta del saggio medio del profitto”.

La crisi tra alti (pochi, sostanzialmente a cavallo tra gli ‘80 e i ‘90) e bassi si trascina da mezzo secolo. In questo lungo periodo il capitale, nel suo complesso, ha cercato di arginare la sua contraddizione più profonda ed irreversibile, quella della tendenza del saggio medio del profitto a cadere. Purtroppo, lo diciamo per inciso, non rileviamo da nessuna parte, tranne che nella nostra stampa, la capacità di analizzare coerentemente cause, manifestazioni e conseguenze di questa crisi.

La crisi sanitaria svela le debolezze profonde del sistema

2020, 21 febbraio. A fine 2019 il virus si diffonde in Cina, il 21 febbraio viene diagnosticata la positività del “paziente 1” in Italia, da lì in poi la pandemia si diffonde in tutto il pianeta, in particolare nei paesi maggiormente industrializzati come gli USA, l’Europa, ma anche nei cosiddetti “paesi emergenti” del capitalismo, come Messico, Brasile, Argentina, Sud Africa, Russia, India…

Capita che l’ambiente si ribelli alla violenza alla quale viene sottoposta dall’Uomo capitalista, e allora l’illusione e la menzogna di una crescita infinita dell’economia, oltretutto fondata sul debito, la speculazione, il parassitismo, la predazione... si sgretolano di fronte all’emergere di una natura che, comunque, in ultima istanza e sempre, è più forte di qualsiasi violenza le possa essere inferta.

Sono molte le potenziali emergenze “naturali” future di fronte a cui ci potremo trovare nei prossimi anni, se non superiamo questo maledetto modo di produzione: le problematiche legate al surriscaldamento del clima, alla scarsità dell’acqua, alla desertificazione e alle migrazioni di massa, ai nuovi virus e molte altre al momento imprevedibili – come era imprevedibile fino al febbraio 2020 la situazione pandemica nella quale siamo precipitati da qualche mese a questa parte – tutti pericoli egualmente risultanti dell’aggressione del capitalismo alla natura intesa non come un bene prezioso da conservare e proteggere, ma come una materia prima da sfruttare senza freni.

L’episodio dei visoni danesi (1) dimostra la stretta correlazione tra modo di produzione capitalista e virus: grandi numeri di animali ammassati al massimo e riempiti di farmaci e antibiotici permettono a poco personale di sovraintendere l’intero processo riproduttivo. Il virus fa più volte il salto di specie tra uomo e bestia, e viceversa, e si rafforza. È il modo di produzione capitalista a favorire la nascita, la diffusione e le mutazioni del virus.

Per arginare la pandemia, almeno dalla peste del 1348, scoprirono che bisogna chiudere tutto e isolare le città, ma in questo modo, nel 2020, la macchina del profitto si incepperebbe troppo, e quindi… si cerca di gestire l’irriducibile contraddizione tra il mantenere attiva la macchina della produzione di plusvalore e limitare la diffusione del virus: chiusure di alcune strade e negozi, coprifuoco, didattica a distanza... mentre le fabbriche continuano a produrre indisturbate.

Per controllare e arginare il virus c’è bisogno di sistemi sanitari efficienti. Per capire quello che è successo in Italia, ma non solo, a tal proposito negli ultimi 40 anni prendiamo il “Rapporto Sanità 2018 – 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale” (2) dell’Istituto NEBO, ricerche della pubblica amministrazione:

I dati del Ministero della Sanità relativi al 1981 attestano un numero di posti letto pubblici e privati sul territorio nazionale complessivamente pari a quasi 530.000 unità, che passa a circa 365.000 nel 1992 per scendere a 245.000 nel 2010 e ridursi ulteriormente fino a 215.000 nel 2016

e fino a 191.000 nel 2017 secondo l’“Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale(3).

La sanità costa, i finanziamenti nei sistemi sanitari spesso fanno ingrassare chi vive di profitti e benefit, in ogni caso con, forse, la sola eccezione di Germania e estremo oriente, tutti i Sistemi Sanitari Nazionali, uno dopo l’altro, sono entrati in crisi e rischiano il collasso.

Nella prima ondata la borghesia ad un certo punto, con alcune eccezioni come gli USA e la Svezia, ha provato il lockdown, ma la chiusura totale costava troppo (c’è da dire che comunque, in Italia, i 2/3 degli operai hanno continuato a lavorare). Nella seconda ondata decide allora di sacrificare il fratello minore, la piccola e media borghesia con attività ristorative, palestre, bar, centri massaggi… meglio loro che la produzione industriale di plusvalore. Inoltre si chiudono le scuole, ma solo per gli alunni più grandi, quelli che possono stare a casa da soli, mentre i piccoli a scuola ci devono andare, sennò gli operai al lavoro come si recano? Quegli stessi lavoratori salariati, tutelati in apparenza (blocco dei licenziamenti, al momento, di un anno, da marzo a marzo, cassa integrazione, reddito di emergenza...) ma condannati a vivere o a morire di fame in base a ciò che il capitale riserverà loro nel suo altalenante ciclo economico. Saltiamo il discorso sul dramma in termini di dispersione ed abbandono scolastico che queste scelte significheranno per le nuove generazioni di studenti e registriamo che, come è logico che sia, nel capitalismo le scelte vengono prese a tutela di uno e un solo soggetto: il profitto, tutto il resto viene, se viene, dopo.

Insomma, il vecchio slogan “socialismo o barbarie” ci parla proprio di questo. Di un capitalismo che soffocato dalle stesse contraddizioni che lo animano corre, ora lento ora veloce, verso la sua distruzione. Il punto è se, come dice “Il Manifesto”, tale corsa si concluderà “con la comune rovina delle classi in lotta”, o con la rivoluzione proletaria.

Conseguenze sociali della crisi in atto

Crisi economica, sociale e sanitaria. L’epidemia si diffonde in Italia a fine febbraio, in Europa ai primi di marzo, raggiunge il suo picco tra fine marzo e i primi di aprile per poi calare fino a fine giugno e rianimarsi in luglio. Raggiunge quindi di nuovo la soglia psicologica dei 5.000 casi il 9 agosto in Spagna (picco, ad oggi, di 24mila casi il 25 ottobre), seguita il 28 agosto dalla Francia (picco di 87mila l’8 novembre), il 24 settembre il Regno Unito (picco di 33mila il 13 novembre), l’Italia il10 ottobre (picco di 41 mila il 13 novembre), la Germania il 14 ottobre (picco di 23mila il 13 novembre). Tutte curve molto regolari, scaglionate nel tempo, da manuale, prevedibili. Anche se moltissimo ancora non si sa, pochi mesi di studi sul virus hanno dimostrato quanto la ricerca medica sia in grado di correre nel mettere appunto le cure: in Italia il 28 marzo ci furono 971 morti a fronte di 6.000 contagi, il 1 novembre “solo” 297 morti a fronte di 31.700 contagi. Si conosce un po’ meglio il virus e si è capito un poco meglio come curarlo, ma contenere il virus vorrebbe dire bloccare tutte le produzioni non indispensabili, avviare una campagna di screening su larga scala, incrementare significativamente numero e stabilità degli operatori sanitari, potenziare esponenzialmente il trasporto pubblico, aumentare enormemente il numero di aule e insegnanti, decongestionare i grandi centri urbani etc. tutte misure che hanno un solo limite: sono incompatibili con la logica capitalista.

Queste misure porterebbero infatti a una riduzione del plusvalore: non si possono più tenere tanti operai a lavorare assieme quindi andrebbe ridotto il numero di operai impiegati nella medesima unità oraria, ossia ridotta la produzione di plusvalore; inoltre si verificherebbe un aumento del capitale costante – ossia di tutte le spese in impianti necessarie a garantire un adeguato distanziamento fisico – senza che il nuovo incremento di spesa aumenti la produttività, anzi, sarebbe realizzato al fine di ridurla; a un incremento del capitale variabile dovuto all’assunzione e alla stabilizzazione di molto nuovo personale nei settori dove necessita, e questo, tra l’altro implicherebbe la necessità di maggiori investimenti in strutture anche nei settori che non producono direttamente plusvalore come sanità, scuola, trasporti… aumentando ulteriormente le “spese improduttive.” In sostanza, tranne le mascherine, tutte le altre misure di contenimento del virus deprimono la produzione del profitto e impediscono la crescita economica.

Ma c’è di più. Nel tentativo di contrastare la caduta del saggio drogando l’economia, in questo cinquantennio il debito degli stati, delle imprese e delle famiglie è cresciuto enormemente: nel secondo trimestre 2020 il debito delle imprese private europee (4) si è attestato al 115% del PIL, mentre il debito delle famiglie si è attestato al 60% del PIL, e ben il 96% del reddito disponibile, come per dire che ogni famiglia si è indebitata, privatamente, di quasi un euro per ogni euro che ha guadagnato.

Non è uno scenario fantascientifico valutare che la mancata soluzione del debito privato di famiglie e imprese (come nel caso dei subrime del 2008) potrebbe essere alla base di una prossima nuova crisi finanziaria. Mutui, fidi, crediti al consumo, credito alle imprese, crediti a breve ecc., sono tutte forme di indebitamento privato e sono le forme di indebitamento che sostengono numerosissime tra le piccole e medie attività che chiudono con i lockdown, e potrebbero non riaprire più. Un’insolvenza debitoria di massa potrebbe innescare il meccanismo dell’esplosione di una nuova bolla finanziaria. D’altro canto questo è esattamente il rischio a cui si va incontro quando, per far fronte alle contraddizioni di oggi, si sceglie – e questo è avvenuto dai ‘70 in avanti – di procrastinare le crisi facendo ricorso all’indebitamento fino al collo per gli anni a venire: poi accade l’imprevisto e tutto il castello di carta può crollare di punto in bianco e qualcuno potrà finalmente aprire gli occhi ed esclamare: il re è nudo!

In tempi non sospetti, il 14 gennaio 2020, a proposito del debito privato (famiglie e imprese) il quotidiano di Confindustria scriveva così:

Mai come oggi la società vive basandosi sul domani, ovvero sulla capacità di sostenere, giorno dopo giorno, e infine restituire i prestiti accumulati. Il debito globale aggiorna i livelli monstre in cui viaggia ormai da tempo. Siamo a 253mila miliardi di dollari, il 322% del Pil. […] Trascinato dai bassi tassi di interesse a da agevoli condizioni di accesso ai finanziamenti, stimiamo che il debito globale supererà i 257mila miliardi nel primo trimestre del 2020, spinto soprattutto dal settore non finanziario, che attualmente si attesta intorno ai 200mila miliardi… il debito dei Paesi emergenti in valuta straniera (prevalentemente in dollari) ha raggiunto il picco di 8.300 miliardi di dollari ed è praticamente più che raddoppiato in appena 10 anni, La montagna di debito su cui poggia l'attuale ciclo di espansione economica – che gli esperti definiscono Goldilocks economy, un ciclo in cui c'è crescita moderata ma costante a fronte di un'inflazione molto bassa – rende il sistema meno efficiente perché mantiene in vita tutti i debitori fragili i quali, avendo meno preoccupazioni per il rimborso dei loro debiti, possono permettersi di mantenere la loro struttura inefficiente (5).

La stragrande maggioranza del debito è detenuto dalle imprese non finanziarie, quelle che producono il plusvalore su cui si regge tutto il castello borghese. Poi è arrivato il CoViD, uno dei tanti modi, per quanto inaspettato ed in parte imprevisto, in cui la massa di debito su cui si è fondata la stabilità capitalista degli ultimi decenni avrebbe potuto entrare in crisi. E crisi è stata.

Gli stati e le Banche Centrali potevano fare una cosa sola: produrre nuovo debito per sostenere il rischio di insolvenza di quello vecchio, e il generale rischio di crollo del sistema dovuto all’emergenza sanitaria e alla catena di fallimenti che le chiusure preannunciavano. L’intervento economico attuato dalle banche centrali in questo 2020 è stato impressionante: il FMI ha calcolato (6) che, a fronte di un PIL mondiale 2019 di 87.700mld (tanto per darci un’unità di misura), in questo 2020 verrà attivata una pompa finanziaria pari a 12.000 mld, la maggior parte del quale sarà, appunto, nuovo debito. Nel 2008 la crisi si è originata nel settore bancario, il Quantitative Easing aveva l’obiettivo di non far fallire le banche, ma il risvolto fu che ben poca parte di quel fiume di miliardi è tornato alla produzione (a causa dei bassi saggi del profitto), preferendo piuttosto le più agevoli vie della speculazione e del parassitismo. Senza considerare la crisi dei debiti sovrani del 2012 (in particolare Italia e Grecia) che venne innescata da quel processo.

Nel 2020 la crisi è scoppiata attraverso la pandemia: ad un certo punto le persone non potevano più consumare come prima e moltissime piccole e medie imprese – costituite in larghissima parte con capitali non propri, ma con mutui, finanziamenti, prestiti, fidi… – sono entrate in crisi.

I grandi capitali hanno visto contrarsi i propri utili da principio, ma poi sono stati in grado di resistere nel medio termine (vedi il rimbalzo del settore automobilistico nel secondo trimestre), proprio grazie alla loro forza semi monopolistica sui mercati globali. Alcune grandi aziende, come quelle del settore farmaceutico e hig-tech hanno addirittura visto lievitare i loro utili, ma tutti gli altri, specie i medio-piccoli, se la passano male e le nuove politiche di intervento centrale cercheranno ora di rivolgersi direttamente a loro, di iniettare direttamente soldi nel sistema produttivo, per evitare fallimenti a catena. Come insegna l’Indonesia, la prima a varare una riforma del lavoro post-covid, il proletariato sarà il prossimo a pagare, quando, passata l’emergenza, la borghesia si appresterà a scaricare sui salariati i costi della crisi.

Polarizzazione sociale. Nel 2017 il patrimonio totale dei miliardari di tutto il mondo aveva toccato la cifra record di 8.900 miliardi, a fine luglio 2020 questa cifra era già lievitata a 10.200 mld, con 31 nuovi miliardari, per un numero complessivo di 2.189 paperoni. Josef Stadler, a capo dei family office di Ubs, ha dichiarato al Guardian che “la concentrazione di ricchezza è [tornata] ai livelli del 1905” quando imperversavano i Rockefellers & Co, con punte nei settori tecnologici e della salute, mentre la produzione industriale e di beni di consumo arranca. Ma il dato più significativo è che, ancora secondo Stadler, tale ricchezza è frutto del cumulo di interessi su interessi, “che rendono le ricchezze sempre più grandi” (7). Insomma, l’appropriazione di ricchezza fondata su speculazione, prestiti e parassitismo la fa da padrona. A proposito della polarizzazione sociale, ha senso citare il coefficente di Gini che misura la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e della ricchezza in un paese; tale indice era cresciuto (8) tra il 1980 e il 2016 del 28% in Italia, del 30% negli USA, del 54% in Cina, la crisi CoViD inasprisce questa situazione.

Impoverimento. In estate la Banca Mondiale prevedeva 100mln di nuovi poveri assoluti rispetto all’anno prima, il dato sarà molto peggiore e, soprattutto, potrebbe innescare un trend inverso rispetto alla riduzione della povertà assoluta (chi vive con meno di 1,90$ al giorno) che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Secondo l’ILO (9) i redditi da lavoro nel primo trimestre del 2020 sono calati del 10,7%, con le Americhe che hanno visto un calo del 12,1%, un risparmio complessivo per i padroni di circa 3.500mld in salari, rispetto allo stesso periodo del 2019. Tale dinamica, visto l’aggravamento della crisi CoViD, dubitiamo che possa invertire la marcia.

La pancia della piazza

La piazza, in Italia, tra fine ottobre e i primi di novembre ha dato qualche confusa e, per ora, breve risposta alle chiusure anticipate prima, alle minacce di lockdown dopo. Ogni piazza con dinamiche diverse: gli imprenditori “per bene”, i ristoratori, i bottegai, gli ambulanti, i taxisti come i lavoratori dello spettacolo, gli educatori, ma anche gli ultrà, la teppaglia fascista, gli anarchici e i ragazzi di strada, le prime e seconde generazioni di immigrati, persone comuni, ognuno con le proprie rivendicazioni e richieste, ognuno incapace di unificare le proteste in un unico fronte che vada al di là del singolo interesse privato. Ognuno si lamenta ma si lamenta per sé, incapace, e forse disinteressato, a porre il problema da un punto di vista collettivo. Abbiamo invece registrato la sostanziale assenza dei lavoratori dalla scena. A marzo ci avevano fatto ben sperare gli scioperi spontanei condotti dietro la parola d’ordine “Noi non siamo carne da macello”, scioperi che mettevano bene in evidenza la contraddizione di base tra salute da un lato e profitto dall’altro. Ma quel movimento è fondamentalmente rientrato nella frammentazione e dispersione che fin dall’origine lo aveva caratterizzato. Oggi i lavoratori appaiono succubi sul luogo di lavoro e totalmente soggiogati alla politica ricattatoria del padronato: questa è la situazione, la crisi è crisi, o vieni, rischi e lavori o perdi il posto e ciao, insomma: lavora e crepa. Così il ricatto agisce sui moltissimi lavoratori della ristorazione, botteghe, piccole imprese, ma anche medie. I lavoratori dei trasporti sono riusciti a fare qualche sciopero ma, ancora, la loro risposta è stata isolata e non all’altezza anche solo del pericolo di viaggiare in pullman stracolmi, i lavoratori della scuola hanno accettato passivamente che le scuole non disponessero di nuovi spazi, che non venisse aumentato il personale e che, sostanzialmente, poco o nulla fosse stato fatto in estate per garantire loro e i loro alunni. I lavoratori della sanità, probabilmente il settore di classe lavoratrice più centrale in tutta questa crisi, sono anch’essi in balìa della situazione tra ricatti, mancate assunzioni, pericolo quotidiano di contrarre il CoViD, come già capitato a centinaia di loro (oltre 57mila sanitari contagiati da inizio pandemia). (10)

Le risposte della sinistra

Questo è, per sommi capi, lo scenario economico, sanitario e sociale in cui si sta diffondendo tanto la pandemia quanto la crisi economica. Vediamo quindi, prima di passare a sviluppare le nostre di conclusioni, quali sono state le risposte delle principali strutture politiche e sindacali che si definiscono “anticapitaliste” nel nostro paese.

Partiamo con il prendere in considerazione la posizione espressa dal raggruppamento “Patto d’azione per il Fronte Unico Anticapitalista”. Questo raggruppamento vede, come anime politiche, al centro il sindacato di base SiCobas e, attorno, differenti strutture politiche tra le quali il Pungolo Rosso, i trozkisti della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, gli stalinisti del Fronte della Gioventù Comunista e altri.

Patrimoniale. Il discorso del Fronte si articola a partire da un concetto semplice: “La crisi la paghino i ricchi” e scende a sviscerare come i padroni dovrebbero pagare la crisi: visto che l’intervento economico dell’UE attraverso il debito rappresenta “un macigno dal terribile peso di 750 miliardi di nuovo debito di stato che dovremo ripagare per decenni, con gli interessi” (11). Il ragionamento si articola come segue:

I capitalisti di tutti i paesi non possono affrontare questa ... crisi in altro modo che non sia quello di rafforzare le cause che l’hanno generata … Trasformare il debito privato delle banche e delle imprese in debito pubblico e accollarlo per decenni al proletariato.

E ci siamo, questo è esattamente, come abbiamo visto, ciò che il capitale fa da un cinquantennio, la via maestra attraverso cui è riuscito a procrastinare le sue contraddizioni senza annegare in esse. Ma vediamo quale dovrebbe essere la risposta di classe di noi rivoluzionari:

A tale linea dobbiamo opporre una lotta politica di classe centrata sull’aggressione aperta e rivendicata alla ricchezza capitalistica.

Ossia, la patrimoniale. Nello specifico la proposta del fronte è una patrimoniale del 10% sul 10% della popolazione (europea?) più ricca.

insieme ... al rilancio della lotta per il salario diretto e indiretto, o meglio sociale, e per la riduzione drastica, generale e incondizionata degli orari di lavoro a parità di salario.

Olè!

Quindi: il capitalismo è in crisi, una crisi profonda, strutturale e storica, irreversibile, dovuta all’inadeguatezza dei profitti realizzati in base agli investimenti e noi… suggeriamo al capitale quali sono le giuste politiche da adottare per contrastarla, e come. Sia chiaro, questo schemino può essere esteso e sviluppato in molti modi, ma ciò che ci interessa è la logica di base: cercare di costruire consensi attorno al proprio progetto politico cercando vie NEL capitale che, facendo perno sui bisogni proletari, sviluppino una strategia APPARENTEMENTE realizzabile. I più intelligenti tra questi compagni sanno che il capitalismo non farà mai la patrimoniale, non concederà mai diffusi aumenti salariali etc… ma non importa, l’importante è… illudere settori di classe su di un progetto apparentemente realizzabile e intorno a questo cercare di costruire organizzazione.

Tale approccio, agitando una serie di parole d’ordine utopiche, e mutuando il ragionamento del peggior Trotsky, quello del “Programma di Transizione”, pretende di essere realistico e cerca di coagulare le forze di classe intorno a tali posizioni. C’è un solo problema: i differenti settori di classe si possono anche mobilitare per i loro interessi immediati – lo speriamo e li appoggiamo affinché lo facciano! – ma se ne fregheranno bellamente delle illusioni intermedie che questo riformismo propone loro… anche un ragazzino capisce che, fermo restando il capitalismo, non ci sarà mai nessuna patrimoniale del 10% sul 10% dei più ricchi, che i padroni ridurranno il tempo di lavoro solo se questo implicherà un risparmio salariale, etc. E allora, invece di raccontare fiabe irrealizzabili (oltretutto sempre le stesse dagli anni ‘70) perché non sviscerare chiaramente un coerente programma anticapitalista? Questo il grande interrogativo.

Naturalmente il capitale potrebbe in parte autotassarsi (ne discutono in Spagna, ne ha parlato Christine Lagarde), ma a che scopo? Solo ed esclusivamente per autotutelarsi, attivando più efficaci ammortizzatori sociali, perché in effetti, la patrimoniale dovrebbe, anche per gli “anticapitalisti” svolgere la funzione di finanziatore degli ammortizzatori sociali. Quindi, in pratica, la strategia politica del Fronte si fonda sul… rivendicare ammortizzatori sociali che, una volta conquistati, inizierebbero a svolgere il loro ruolo, ossia quello di ammortizzare il conflitto di classe. Una strana strategia rivoluzionaria davvero.

Ma seguiamo ancora un momento il discorso del Fronte:

Il nostro programma storico consiste nel rovesciamento del capitalismo ... All’oggi non esiste la forza per attuare questo rovesciamento ... Possiamo però cominciare … rivendicando una patrimoniale che tagli le unghie alla rapacità del capitale, gli strappi un po’ del potere e della ricchezza accumulata.

Fermiamoci, è abbastanza: la patrimoniale, per come viene qui intesa, non si realizzerà mai, siamo sinceri, auentici, non prendiamo in giro i lavoratori! Il tagliaunghie di cui qua si parla qua è un costrutto totalmente ideale, irreale, immaginifico, niente di più che un parto della fervida immaginazione di questi compagni. Il problema è che su tale immaginazione fondano la loro strategia, il tagliaunghie diventa infatti il

presupposto di una forte ripresa delle lotte e di una altrettanto forte modifica dei rapporti di forza tra le classi.

Siamo lontani anni luce dalla realtà!

ma sarebbe anche un modo per porre su basi concrete il passaggio alla necessaria controffensiva, per porre all’ordine del giorno la necessità inderogabile di una battaglia contro il capitale nel suo complesso, mettendo sotto accusa non questa o quella misura anti-operaia, ma il capitale in tutte le sue forme, l’apparato statale e di governo, le istituzioni.

Ci dispiace compagni, voi non state mettendo in discussione un bel nulla, state solamente proponendo nuovi, oltretutto irrealizzabili, ammortizzatori sociali e invitate le, sinceramente, poche energie disponibili a spendersi per tale illusoria riforma. Più coerente sarebbe affermare la verità ossia: siamo contro il capitalismo, per un’alternativa di sistema.

Nelle piazze di questi mesi abbiamo intercettato altre posizioni che ci sentiamo di dover mettere in evidenza per la loro inadeguatezza e limitatezza rispetto alla fase.

La crisi la paghino i ricchi/i padroni. Questo è un altro slogan deleterio, molto diffuso, che parte dal presupposto illogico che la crisi sia un fatto naturale e che qualcuno la debba pagare; il problema quindi non è “come superare il sistema che genera periodicamente crisi”, ma diventa “chi deve pagare questa crisi?” Partiamo dallo svelare un segreto: da quando esiste il capitalismo, le crisi le hanno sempre pagate sempre e solo i proletari, e fino a che il capitalismo esisterà i proletari continueranno a pagare le crisi in termini di peggioramento salariale, precarietà, licenziamenti, tagli di servizi, pensioni, etc. Solo una volta che abbiamo compreso e digerito questo aspetto politico di base possiamo cercare di articolare una controstrategia di classe.

Porre il discorso in termini di “la crisi la paghino i padroni” è politicamente sbagliato perché implica che la crisi debba essere pagata da qualcuno. In realtà i ricchi non la pagheranno mai la crisi, perché la crisi è crisi del sistema del profitto, superare la crisi – fermo restando il capitalismo – vuol dire far tornare a crescere i profitti… Come si può vedere, lo slogan in oggetto è un puro non sense che disorienta e confonde le migliaia di proletari che scendono in piazza, magari trovando istintivamente valida quella posizione deviante. Perché non dire invece: combattiamo il sistema che produce crisi?

Tu chi chiudi tu ci paghi. Variante della posizione di cui sopra, questa è ancora peggiore perché mutua in tutto e per tutto, anche sul piano metaforico, il punto di vista dei bottegai. Gli stessi bottegai, tra l’altro, che non pagano le tasse e tengono i lavoratori in nero pagandoli poco e male. Per “essere chiusi” vuol dire che abbiamo una proprietà privata da chiudere, è ovvio che il lavoratore non possiede nulla del genere, è un dipendente. Se, per ragioni sanitarie è meglio stia a casa, deve avere un sostegno al reddito… in ogni caso nulla a che vedere con questa parola d’ordine bottegaia che ha fatto abbondantemente breccia nelle piazze. Sarebbe più opportuno parlare di difesa del salario, del posto di lavoro, di estensione dei sussidi di disoccupazione, se di condizione immediata del proletariato dobbiamo parlare, collegando poi il discorso ad una prospettiva anticapitalista.

Un’altra parola d’ordine che vogliamo analizzare è quella che sta circolando in chi si occupa di uno dei settori cruciali di questa crisi economico/sanitaria: la sanità.

Per una sanità pubblica, gratuita e umanizzata. Questa posizione, espressa dal “Coordinamento cittadino sanità” (12) parte da un concetto fondamentale: è necessario mobilitarsi per garantire a tutte e tutti l’accesso alle prestazioni sanitarie. E questo lo condividiamo. Solo che, ancora, nello sviluppare il tema si vanno ad avanzare una serie di rivendicazioni che ci allontanano da un punto di vista di classe come:

ridefinizione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) non basato sui principi dell'aziendalizzazione; – ricostruzione di una rete sanitaria territoriale capillare, integrata ma non dipendente dagli ospedali; – rendere il SSN interamente pubblico, a partire dal superamento della convenzione con i medici di famiglia

e altri quattro punti dello stesso tenore.

Il punto forte di questo coordinamento è il tentativo di porre vertenze concrete oltre i limiti sindacali e di gruppo, poi però fallisce nel saldare le istanze “territoriali” con quelle lavorative. Ci sembra che parlando di sanità sia centrale appoggiare, sostenere, sviluppare le lotte e le istanze dei lavoratori della sanità e che, più di ogni altra cosa, questo sia il cuore del problema. Noi comunisti, in realtà, non siamo per la sanità pubblica, siamo proprio per un’altra dimensione sanitaria che potrà affermarsi solo in una società differente. Ma adesso che si fa nel qui e ora? Si cerca di collegare le istanze immediate non a un fantomatico e più ideale che concreto concetto di “sanità pubblica” – ormai pubblico e privato sono sempre più indistinguibili – ma alla necessità che, pubblico o privato, le prestazioni sanitarie vengano garantite, gratuitamente e questo si può sviluppare solamente saldando le istanze “sociali” con quelle dei lavoratori dei differenti servizi interessati.

Da questa breve rassegna emerge come, nei fatti, l’anticapitalismo proclamato a parole sia fondamentalmente assente nelle proposte pratiche delle differenti realtà che, per altri versi, pure stanno facendo un più che meritorio lavoro. Cerchiamo allora di articolare come, dal nostro punto di vista, un discorso di intervento va invece articolato.

Quale intervento internazionalista rispetto a questi temi?

Abbiamo ora sufficienti dati politici per cercare di sintetizzare in un decalogo la nostra proposta al fine di un intervento nelle contraddizioni di questa crisi, per come esse si presentano, per difendere i nostri interessi di classe, per il superamento del modo di produzione capitalista, per non morire di esso.

1. Il punto di partenza da cui si sviluppa l’intervento internazionalista è che non solo il capitalismo è in crisi, ma che l’unico modo di gestirla che conosce è di scaricarla sulle differenti categorie di lavoratori. Sono i lavoratori, sempre, a pagare i costi delle crisi capitalistie: questo è il capitalismo, un modo di produzione che non si è mai comportato, né potrà mai comportarsi, diversamente da così. Il dato di realtà su cui dobbiamo fondare la nostra strategia è che la presente crisi capitalista continuerà a peggiorare, imponendo a noi proletari crescenti sacrifici. In parallelo il capitale, come continua a fare dagli esordi di questa crisi, nei primi ‘70, continuerà ad accumulare debiti pubblici e privati nel tentativo di amministrare la crisi procrastinandone nel tempo gli effetti. Effetti che però, prima o dopo, ancora, noi proletari siamo chiamati a pagare. Chi sostiene “noi il debito non lo paghiamo!” senza porre il problema del superamento del capitalismo, semplicemente, scambia i parti della propria fantasia con la realtà, i propri desideri con le contraddizioni reali, diffonde cioè insensate illusioni e malriposte speranze.

2. Il sistema economico, oggi, palesa la sua insostenibilità nella irresolubile contraddizione tra ripresa produttiva e salute dei lavoratori. La soluzione capitalista è “lavora, paga i costi coi tuoi sacrifici, crepa”. Questo dato pone immediatamente il problema del superamento del sistema della produzione per il profitto. Il suo superamento non è “una fantasia”, ma l’unica via praticabile per garantire tanto la soddisfazione dei bisogni proletari in genere, quanto la tutela della salute dei lavoratori in particolare.

3. L’inadeguatezza della risposta di classe, la sostanziale passività proletaria che continuiamo a registrare, è dovuta a due livelli di fattori, il primo, quello soggettivo, si concretizza nella perdita del senso della possibilità e della necessità di una alternativa di sistema. Aver perso la speranza e l’idea stessa di un mondo differente da quello offerto dal capitale è un fattore relativamente recente della vita della nostra classe, con evidenti, negative, ricadute nella sfera del conflitto e della perdita di una propria identità politica antagonista al capitale.

4. Dall’altro lato la debolezza che esprime la nostra classe è anche la risultante oggettiva di una pluridecennale serie di sconfitte che hanno portato all’attuale precarizzazione, frammentazione, atomizzazione. Un arretramento storico all’interno di un rapporto di forza costantemente, e sempre più, sfavorevole, frutto anche – se non sopratutto – delle continue mediazioni al ribasso condotte grazie alla subordinazione dei sindacati alle necessità e alle logiche del capitale. Nei fatti chiunque accetta, magari in nome di un preteso realismo, il piano del confronto che le forze del capitale impongono, chiunque rinuncia a porre immediatamente la critica anticapitalista e la necessità di un’alternativa di sistema (o, se lo fa, lo fa in maniera caricaturale chiamando anticapitalismo le proprie fantasie di nazionalizzazioni, patrimoniali, difesa del servizio pubblico...), chi semina illusioni fondate sull’idea di poter superare questa o quella contraddizione fermo restando il Sistema, chi fa questo finisce per contribuire all’ulteriore indebolimento della nostra classe e, quindi, alla conservazione del sistema dello profitto e dello sfruttamento.

5. La crisi è conseguenza dei rapporti di produzione capitalistici, bisogna superare il reazionario concetto “chi paga la crisi?”, i padroni, infatti, non hanno mai pagato le loro crisi, né mai le pagheranno, e visto che le crisi le pagano sempre i lavoratori è ora di approcciare il non più rimandabile problema: “come superare il capitalismo?”. Il ricatto sui luoghi di lavoro tra salute e lavoro, il clima di unità nazionale, etc. si superano rimettendo al centro gli interessi di classe, e collegandoli ad una prospettiva coerentemente anticapitalista.

6. *Appoggiamo tutte le manifestazioni rivendicative e vertenziali dei differenti settori proletari che la crisi attiva e attiverà. Sia che si tratti di lavoratori che rivendicano salario, stabilità contrattuale, limitazioni dello sfruttamento, rifiuto dei licenziamenti... sia che si tratti di proletari che chiedono servizi sanitari, casa, sussidi di disoccupazione... In particolare, nelle vertenze per l’accesso ai servizi (sanitari, scolastici, etc.) mettiamo in rilievo la centralità del ruolo dei lavoratori di quei settori. La differenza rispetto a tutto l’arco della sinistra extraparlamentare è però che mentre appoggiamo tali richieste concrete *denunciamo, immediatamente, il limite che in esse si nasconde, per inserire in esse un livello politico superiore, verso una visione di anticapitalismo.

7. Per fare un esempio, intervenendo in un contesto caratterizzato da elevata precarietà, in cui la rivendicazione dei lavoratori e delle lavoratrici potrebbe essere quella della stabilizzazione del rapporto lavorativo, porteremo avanti, organizzando attorno ad essa gli elementi più sensibili, una posizione che potrebbe essere così articolata: “Appoggiamo la rivendicazione di stabilità contrattuale e riteniamo necessario porre in essere le forme di lotta più ampie e radicali possibile per ottenerla: oltre ogni tatticismo sindacale; formando assemblee di base che decidano le forme della lotta; cercando collegamenti con istanze simili di altri settori lavorativi e proletari in genere; ma tutto questo comunque non ci basta. Sappiamo che questa vertenza potremo vincerla o potremo perderla, ma, in entrambi i casi, fino a che sussisterà il capitalismo la nostra condizione rimarrà sempre di sfruttamento e subalternità: ogni briciola che potremo strappare oggi, il padrone sarà pronto a riprendersela, con gli interessi, domani. Per questo mentre lottiamo per la stabilità, ed invitiamo ad agire con la massima energia e senza mai abbassare la guardia, affermiamo che questo è solo un passaggio di una lotta più generale, una lotta che non avrà fine finché i lavoratori organizzati non avranno preso nelle loro mani il potere politico, per riorganizzare la società su basi nuove. Questa è e sarà infatti l’unica vera garanzia per la reale tutela dei nostri interessi.” È solo agitando nelle piazze, nei conflitti, nei luoghi di lavoro, discorsi di questo tenore che potremo dare un contributo significativo al fine di invertire un rapporto di classe che da troppi decenni ci vede costantemente in ritirata, che potremo dare alle vertenze e alle lotte della nostra classe una prospettiva realistica, che potremo costruire organizzazione rivoluzionaria.

8. Ribadiamo quindi che, si tratti dell’interesse immediato in termini di salario, sicurezza, occupazione... si tratti dell’accesso a servizi quali sanità, scuola, trasporti… appoggiamo ogni rivendicazione concreta che provenga dai lavoratori e dalle lavoratrici e contestualmente argomentiamo che, in ultima istanza, l’unico reale modo per garantire i nostri interessi di classe è il potere politico ai lavoratori.

9. Denunciamo allora tutte le parole d’ordine generali “intermedie” (patrimoniale; salario universale; lavorare meno, tutti etc.; “pubblico” come panacea universale; nazionalizzazioni; la crisi la paghino i padroni...) che, più frutto della fantasia di alcuni settori politici che di reali istanze di settori di classe, non fanno altro che generare illusioni su impossibili riforme e, per la loro stessa natura di pretesa transitorietà, cancellano dalla discussione ogni ragionamento e discorso genuinamente anticapitalista. Le riforme economiche e sociali, fermo restando il capitalismo, sono dannose utopie, in quanto tali destinate a fallire, con l’aggravante di seminare nella classe delusione, scoramento, riflusso, divisioni. Chi avanza queste rivendicazioni illusorie nega l’opportunità di sviluppare ragionamenti anticapitalisti: per loro non è mai il tempo, “la gente non capirebbe”… e mille altre scuse per evitare di affrontare il problema dei problemi: solo la rivoluzione proletaria – e allora va detto chiaramente – può porre all’ordine del giorno una produzione per i bisogni e non più per il profitto, una vera redistribuzione della ricchezza (che non sarà più espressa in merci e denaro, ma in valori d'uso) e quindi la reale e complessiva riorganizzazione dell’intero ordine produttivo e sociale. Chi non è chiaro su questo punto, ne sia cosciente o meno, fa il gioco del nemico di classe.

10. Oggi si lamentano i bottegai e il ceto medio, ma i costi di questa crisi verranno scaricati tutti sul proletariato: nuova precarietà, nessun aumento salariale, “O lavorate con il rischio CoViD o andate a casa”. È questa classe, la nostra classe, che ha bisogno di un programma chiaro per uscire dall’impasse, tale programma non può che essere il programma internazionalista e di classe che abbiamo cercato di esprimere in questi punti. E visto che senza partito rivoluzionario ogni rivolta è destinata ad esaurirsi nel sistema, invitiamo i compagni più coscienti e preoccupati delle sorti della classe lavoratrice, proletaria e sfruttata, ad un confronto con noi per veicolare, assieme, questi imprescindibili contenuti, costruendo organizzazione internazionalista attorno ad essi.

Lotus, 17 novembre 2020

(1) leftcom.org

(2) programmazionesanitaria.it

(3) salute.gov.it

(4) finanza.com

(5) Questa lunga citazione è particolarmente interessante perché presa dal Sole 24 Ore del 14 gennaio 2020, quando la crisi pandemica non era minimamente considerata possibile.

ilsole24ore.com

(6) money.it

(7) repubblica.it

(8) eticaeconomia.it

(9) COVID-19 leads to massive labour income losses worldwide

(10) leftcom.org

(11) epicentro.iss.it

(12) sicobas.org

(13) coordinamentocittadinosanita.it

Domenica, July 11, 2021

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.