Sull'assemblea del SICobas

Abbiamo partecipato all'assemblea nazionale dell'8 febbraio indetta dal SICobas “Per l’abrogazione dei Decreti Sicurezza”. Si è trattato di un primo passaggio nel quale quest’area, composta di realtà in lotta e gruppi politici eterogenei, ha cercato di focalizzare i problemi che negli ultimi anni ha incontrato nel condurre differenti rivendicazioni lavorative, di vita, ambientali e di territorio.

Ai pesanti dati evidenziati dal compagno Milani sul numero degli operai della logistica colpiti da provvedimenti giudiziari (oltre 400), sulle multe per centinaia di migliaia di euro già comminate o in via di definizione giudiziaria, si aggiungono le denunce e condanne subite da disoccupati, occupanti di case e immigrati in lotta: il tutto portato dalla legislazione sempre più pesantemente anti-proletaria di cui lo Stato si è dotato negli ultimi anni.

Gli stessi “Decreti Sicurezza” in oggetto non sono che il frutto maturo di una progressiva ridefinizione dei meccanismi “democratici” in senso autoritario. Di questo sono corresponsabili le differenti forze borghesi che si sono alternate al governo negli anni.

Il significato reale di tali provvedimenti può essere compreso – fattore che ci è parso assente nel dibattito - solo inscrivendo i decreti nel più generale evolvere della crisi capitalista che sta producendo rapporti di forza sempre più sfavorevoli al proletariato e che, contemporaneamente, mette lo Stato Borghese nella condizione di premunirsi, anche in termini preventivi, rispetto al sempre possibile riemergere di tensioni sociali potenzialmente dirompenti sul piano della rottura della compatibilità.

È l’incontro tra l’esigenza di gestire la crisi sulle spalle del proletariato e la necessità della tenuta delle contraddizioni sociali, che genera e spiega l'apparente paradosso di politiche repressive/preventive sempre più pesanti a fronte di una conflittualità di classe ridotta da anni ai minimi termini. Il risultato è un sistema di oppressione e sfruttamento tendenzialmente sempre più esteso e pervasivo, nel quale viene colpito ogni minimo blocco, picchetto, sciopero conflittuale.

In tali dispositivi si esprime la coscienza della borghesia del suo essere classe dominante in una fase di profonda crisi.

Il nodo politico di fondo che emerge è che dietro gli interessi del singolo padrone si erge sempre lo Stato borghese quale garante del sistema nel suo complesso: il conflitto di classe viene così sottoposto a processi di criminalizzazione sempre più stringenti, gli spazi di agibilità “democratica e sindacale”, precedentemente dati per acquisiti, vengono travolti uno ad uno. È una costante operazione di accerchiamento e logoramento tesa a depotenziare ogni forma di opposizione e lotta di classe che possa travalicare gli steccati – sempre più stretti – dati volta per volta. Emerge nei movimenti una condizione cronica di debolezza e difensiva che ne sancisce la frammentazione, la marginalizzazione, l’incapacità – al di là degli appelli – di incidere sui reali assetti di potere e rapporti di forza.

Tale frammentazione e subalternità al nemico di classe si riflettono, nel luogo di lavoro, nelle forme della marginalizzazione del “sindacalismo alternativo” sul piano della rappresentanza e con l’avanzare dell’iper-sfruttamento, precarizzazione, e generale miseria nelle condizioni di vita e di lavoro proletarie sul piano dell’estorsione del plus-valore.

In sintesi i molti fattori che oggi pesano sulla lotta di classe – a partire dalla crisi – costituiscono il contesto generale in cui si cala l’iniziativa borghese; il basso livello di conflittualità generale pesa a sua volta come un macigno sulle poche esperienza di lotta che riescono ad emergere.

Pochi interventi, e mai integralmente, hanno colto questi aspetti per noi minimali, ma imprescindibili per definire la fase e tracciare un minimo di piano d’azione tanto per resistere nell’immediato, quanto per modificare, in prospettiva, i rapporti di forza.

Da questa situazione nasce l’appello per

un patto d’azione unitario [...] che sappia legare il tema della cancellazione dei decreti-sicurezza alle questioni generali [come] difesa dei salari, rinnovi contrattuali, difesa dell’ambiente, democrazia sindacale, opposizione alla guerra e al militarismo, diritti delle donne, ecc.

L’appello nasce dall’esigenza materiale di contrastare in qualche modo la debolezza complessiva, dando all’iniziativa un valore più ampio eppure… le contraddizioni alla base del ragionamento sono le stesse da cui origina la debolezza storicamente cronica del “movimento”.

Gli interventi che si sono susseguiti hanno descritto le – non molte – lotte oggi in corso (cooperative di facchinaggio, Prato, Modena, disoccupati di Napoli, braccianti di Gioia Tauro, occupazioni di casa a Roma...) insistendo sull’obiettivo concreto del ritiro/abolizione dei decreti sicurezza all’interno del quadro più generale – e a nostro avviso un po' reazionario – del “diritto ad avere diritti”.

L’impressione generale che ne abbiamo avuto è che, a fronte di una situazione molto complessa, si cerchi di “uscire dalle secche” attraverso un semplice agitarsi senza principi. La maggior parte degli interventi, ad eccezione praticamente del solo Milani, sembrava illudersi della possibilità fattiva del ritiro dei decreti “qui e ora”. Pochissimi hanno toccato il tema dei rapporti di forza necessari a perseguire tale obiettivo. La maggior parte si collocava sul solito piano dell’immediatismo vertenzialista che, pur nascendo dai problemi concreti, finisce per brancolare nel buio di un agitazione fine a sé stessa, totalmente privo di una prospettiva di superamento della contraddizione.

Ricondurre il problema della lotta ai Decreti Sicurezza al solo aspetto dell'agibilità politica e sindacale, per quanto concreto, è estremamente parziale. La risoluzione in termini di prospettiva non può che essere affrontata in un lungo processo in termini strategico-politici, avendo chiara la consapevolezza che la risalita della china non è atto che possa svolgersi dall'oggi al domani. Nessun escamotage può cambiare questa verità fattuale.

Abbiamo perso il conto degli appelli ai fronti comuni, patti d’azione etc. di questo tipo. A nostro avviso un ragionamento di prospettiva anticapitalista appare imprescindibile, sebbene costantemente assente. Siamo coscienti delle difficoltà immani del momento che attraversiamo, ma siamo altresì convinti che i processi politici, sia che attengano al fronte di classe, che alla avanguardia rivoluzionaria, debbano basarsi su precisi criteri. I processi di intergruppi come questo – spesso nemmeno espressione di conflittualità reali – , lungi dal rafforzarlo, indeboliscono il movimento di classe.

Un processo ripresa della conflittualità di classe non può essere la semplice sommatoria delle debolezze (compresa la nostra) dei diversi soggetti in campo. Concordiamo sulla gravità dei fatti a monte, ma non condividiamo l’idea che il corso si possa invertire aggregandosi sull’immediato, mettendo da parte ogni ragionamento di prospettiva… perché divisivo (paradossalmente, oggi, lo spettro del comunismo – mai nominato! – sembra agitare più il sonno degli antagonisti che quello dei borghesi!). Riteniamo, al contrario, che proprio dalla prospettiva bisogni partire per dare senso e forze alle lotte immediate. Su questo piano siamo e saremo sempre disposti a mobilitarci e a dare il nostro contributo.

Per la lotta di classe.

Per la prospettiva rivoluzionaria e comunista.

Domenica, February 23, 2020