Piccoli venti di guerra crescono

Che il presidente Trump avesse intenzione di cancellare il doppio mandato del suo predecessore era cosa nota sin dalla fase della campagna elettorale. Che mantenesse le promesse sino alle estreme conseguenze non era così scontato, che ci riuscisse era ed è tuttora in dubbio, anche se le manovre messe in atto in questi primi mesi di presidenza lasciano pensare che Trump sia determinato ad andare sino in fondo.

Guantanamo non si smobilita, la riforma sanitaria voluta da Obama, anche se parziale e sempre ossequiente agli interessi delle grandi Assicurazioni, non è stata spazzata via solo perché all'interno dello stesso partito repubblicano c'è stata una alzata di scudi. La Lobby delle armi non si tocca nemmeno dopo la tragedia di Las Vegas, se non per alcuni aspetti di secondaria importanza che riguardano la vendita delle armi da guerra, fermo restando il principio costituzionale in base al quale ogni cittadino ha il diritto di difendersi da solo (ma a quanto pare anche di attaccare) e quindi di possedere armi: a tutt'oggi sono in circolazione oltre 340 milioni di armi da fuoco su di una popolazione di 320 milioni di abitanti. Per non parlare delle reiterate dichiarazioni sulla rottamazione dei precedenti impegni sulla emissioni da parte degli impianti a carbone e non solo.

Ciò che però va più distinguendo l'amministrazione Trump da quella di Obama è sul terreno della politica estera. Mentre Obama aveva impostato una politica imperialistica basata sul doppio livello, uno tradizionale basato sulle “covert actions”, sull'innesco di guerre civili e sull'utilizzazione di forze politiche terze per combattere le guerre strategicamente più importanti; l'altro intriso di rapporti negoziali con paesi chiave nello scacchiere internazionale, per consentire un (re)ingresso in aree di nuova prospettiva o di recupero di vecchi “possedimenti”. Il primo caso è stato quello della continuazione della penetrazione nell'ex Europa dell'Est attraverso l'appoggio alla politica dei governi usciti dalle “rivoluzioni arancioni”, l'intervento in Libia a seguito di Francia ed Inghilterra, in Iraq per eliminare, dopo Gheddafi, anche Saddam Hussein, in Siria e nello Yemen. Il secondo è quello relativo all'attività diplomatica degli accordi con l'Iran e della Cuba di Raul Castro ancora vivente.

In entrambi i casi gli obiettivi erano sempre gli stessi: difendere il ruolo dominante del dollaro sui mercati monetari internazionali, isolare Russia e Cina, fare in modo che avessero sempre meno possibilità di farsi degli alleati e togliere dalla loro influenza quelli che ancora avevano. Come nel caso di Cuba e Iran. Togliere l'embargo a l'Avana avrebbe significato per l'imperialismo americano dotarsi di una immagine “diversa” da presentare ai paesi centro-sud americani per osare un tentativo di recupero di quell'area, un tempo “giardino” degli Usa, poi “steppa” percorsa da movimenti e presidenze filo russe e/o filo cinesi, dal Brasile al Perù, da alcune repubbliche centro-americane al Venezuela. Lo stesso approccio si è avuto con l'Iran giocato sul problema nucleare. Ottenuta la promessa dello stop nucleare a scopo militare, Obama ha tolto le sanzioni all'Iran, vantando una importante vittoria sul terreno della non proliferazione nucleare e alimentando la speranza di sottrarre, anche se parzialmente, la repubblica degli ayatollah all'avversario russo-cinese.

Trump ha completamente rovesciato i termini. La sua via al rafforzamento dell'imperialismo americano si orienta su di un solo percorso, quello della forza. Tanti gli esempi. Dall'intensificazione della presenza americana nella guerra civile nello Yemen alla moltiplicazione dei bombardamenti in Siria. Dalla riproposizione della presenza militare in Iraq al sostegno operativo delle forze “lealiste”in Afghanistan. C'è chi sostiene, molto probabilmente a ragione, che la Cia non sia del tutto estranea alla formazione e fomentazione dei moti popolari in Venezuela contro il regime di Maduro della falsa quanto improponibile via bolivariana al socialismo. Per non parlare degli scontri, per il momento solo verbali, con Kim Jong Un, leader della Corea del Nord. Si potrebbe dire che tutto questo sia il frutto di una personalità abnorme che gioca col fuoco senza calcolare le conseguenze dei suoi atti e delle sue considerazioni. In realtà siamo in presenza soltanto di un modo rozzo di affrontare lo scontro imperialistico che la crisi economica internazionale,ben lungi dall'essere superata, accelera ed esaspera, su tutti i segmenti del mercato capitalistico mondiale, accorciando gli spazi di mediazione tra le grandi potenze imperialistiche e i loro alleati. Segmenti come quello delle divise, dove il confronto non è più soltanto tra l'euro e il dollaro, ma anche tra la divisa americana e quelle cinese e russa. Al riguardo, vedere la fine che hanno fatto Gheddafi e Saddam Hussein nel momento in cui avevano minacciato di commercializzare i rispettivi petroli in divise diverse dal dollaro e la fine che potrebbe fare Maduro dopo la dichiarazione di vendere il petrolio venezuelano in yuan o rubli. Ma c'è anche il ritornare alle tensioni tra gli Usa e l'Arabia Saudita sulla determinazione del prezzo del greggio, quelle relative al controllo delle vie di commercializzazione del petrolio e delle materie prime in generale e di quelle strategiche in particolare. O quelle riguardanti le guerre informatiche per arrivare a quelle combattute per procura sugli scacchieri nevralgici di mezzo mondo. Al fondo della questione c'è la pressione della crisi economica. Il capitalismo ha solo due mezzi per uscirne momentaneamente. Il primo è quello di aggredire la forza lavoro sul piano dell'intensificazione di tutte le forme di sfruttamento, soprattutto dall'aumento dei ritmi di produzione, all'allungamento della giornata lavorativa. Il secondo è quello che comporta la distruzione di valore capitale in termini di capitale costante e variabile in modo da ripulire il mercato dalla presenza di imprese e attività produttive più deboli, consentendo a quelle più forti di avere più spazi economici in cui agire e favorendo, al contempo, la concentrazione dei capitali rimasti. Sempre su questo versante l'estrema ratio nella distruzione di valore capitale è la guerra che, oltre a consentire alle fazioni imperialistiche di accaparrarsi i mercati prima citati, distrugge i mezzi di produzione, le strutture e infrastrutture industriali e di servizio in modo che dalle loro macerie si creino le condizioni della ripresa economica e della ricostruzione. Che questo comporti l'annientamento di milioni di uomini e donne e la creazione di milioni di profughi civili è solo un “effetto collaterale” di cui il capitalismo non si interessa, se non di come gestirlo al minor costo possibile. In entrambi i casi la vittima principale è il proletariato che, in periodi di pace, funge da “carne” da profitto da spremere sino all'ultima fibra, e da carne da macello quando lo stesso capitalismo decide di superare le sue crisi sul terreno dello scontro bellico.

Siamo sempre nella solita fase delle guerre guerreggiate dall'imperialismo in termini indiretti, per procura, senza apparire in prima linea quale soggetto primo del macello internazionale, ma solo come “gestore” delle controversie internazionali che esso stesso ha prodotto, amministrando una serie di episodi di guerra “circoscritta”. Ma questa miriade di piccoli venti di guerra sono destinati a crescere, perché solo in questo modo il capitalismo internazionale può tentare di superare le proprie contraddizioni. Non è una questione di Trump o di Kim Jong Un, di Putin o di Assad, ma è la tragica recita di una barbarie che il capitalismo mette in scena tutte le volte che i suoi interessi economici vengono messi in discussione dalle crisi economiche che il suo sistema crea periodicamente, ma con intensità e vastità sempre maggiori. E' il capitalismo, le sue crisi economiche, le devastanti conseguenze sociali che ne derivano che pongono l'umanità intera al bivio tra la sua inaccettabile barbarie e il suo superamento quale sistema economico sempre più avido di sangue e profitti.

FD
Venerdì, October 20, 2017