Caratteristiche economiche, monetarie e finanziarie della attuale fase imperialista

Da Prometeo #13, giugno 2015

In contraddizioni violente, crisi, convulsioni, si esprime la crescente inadeguatezza dello sviluppo della società rispetto ai rapporti di produzione durati finora. Violento annientamento di capitale, non a causa di rapporti che gli siano esteriori, ma come condizione della sua autoconservazione: questa è la forma più incisiva in cui gli viene dato avviso che esso deve sparire e deve far posto ad uno stadio superiore di produzione sociale. Né si tratta solamente dell’accrescimento della potenza scientifica, ma della misura in cui essa è già posta come capitale fisso, dell’entità, dell’estensione in cui è realizzato e si è impadronito della totalità della produzione. (…) Poiché il calare del profitto è sinonimo della diminuzione proporzionale del lavoro immediato rispetto alla grandezza del lavoro oggettivato, che esso riproduce e pone nuovamente, allora il capitale tenterà di tutto per arrestare la piccolezza del rapporto del lavoro vivo rispetto alla grandezza del capitale in generale, e quindi anche del plusvalore, se è espresso come profitto. Lo farà, in rapporto al capitale presupposto, riducendo la parte assegnata al lavoro necessario ed espandendo sempre più la quantità di plusvalore rispetto all’intero lavoro impiegato. Di qui, il massimo sviluppo della produttività insieme alla massima espansione della ricchezza esistente, coinciderà con la devalorizzazione del capitale, la degradazione del lavoro, e il più accentuato esaurimento delle sue forze vitali. Queste contraddizioni conducono ad esplosioni, cataclismi, crisi, in cui attraverso momentanea sospensione di ogni lavoro e annientamento di una gran porzione di capitale, quest’ultimo è ridotto violentemente al punto in cui esso può continuare ad andare avanti impiegando completamente le sue forze produttive senza suicidarsi. Ma queste catastrofi regolarmente ricorrenti conducono alla loro ripetizione su una scala più alta e finalmente al suo violento rovesciamento.
Nel movimento sviluppato dal capitale esistono momenti che arrestano questo movimento non con le crisi ma in modo diverso; così, per esempio, la continua devalorizzazione di una parte del capitale esistente; la trasformazione di una rilevante parte di capitale in capitale fisso che non funge da agente della produzione diretta; lo sciupio improduttivo di una notevole parte del capitale, ecc.

Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica - La Nuova Italia, 1968, pagg. 460-2

Imperialismo e contraddizioni del capitalismo

Con l’imperialismo si è accentuata ai massimi livelli la sovraccumulazione dei capitali fino a determinare una diminuzione della loro “redditività”, essendosi contemporaneamente aggravata la sovrapproduzione di merci e le difficoltà di una loro vendita. Siamo a dei limiti fisici, persino ormai insopportabili per la stessa conservazione del pianeta Terra.

Le “sfere d’investimento” sono sature nei vari i rami di produzione (in base, s’intende, al profitto ricavabile) e quindi – scriveva Marx nel Capitale – si assiste ad una «pletora di capitale monetario da prestito (la quale) attesta semplicemente i limiti della produzione capitalistica».

L'imperialismo, prodotto dello “stadio monopolistico del capitalismo” con concentrazioni-centralizzazioni (Lenin), ha aumentato le contraddizioni del dominante sistema economico verso l’esplosione di crisi del processo di accumulazione del capitale, sua linfa vitale.

Il commercio internazionale si è imposto come una delle controtendenze alla caduta tendenziale del saggio di profitto, e con l’imperialismo si è fatta affannosa la ricerca di sfoghi per una produzione di merci (e capitali) in costante sviluppo e per assicurarsi (depredandole ad altre borghesie) quote di plusvalore indispensabili all’accumulazione capitalistica. La quale, per ampliarsi, ha poi richiesto (anni Settanta del secolo scorso) una ristrutturazione industriale che potesse dare maggiore competitività internazionale alle merci prodotte per un mercato sempre più vasto. Anche questo un tentativo per contrastare la caduta del saggio medio di profitto ripropostasi nel frattempo.

La “creazione” di un vasto mercato mondiale in gran parte controllato dai monopoli, ha contribuito a stabilizzare prezzi favorevoli a rendite di posizione (sovraprofitti) sui mercati stessi. Esistendo differenze di produttività nelle diverse strutture, avvengono trasferimenti di valore con gli sfruttamenti esercitati da un paese sull’altro. Un fenomeno in parte attenuatosi nella misura in cui è aumentato il grado di industrializzazione di alcuni paesi sottosviluppati, là dove la produzione manifatturiera si è ampliata negli ultimi decenni. In alcuni casi con prodotti di alta tecnologia. Fra altre conseguenze, sono variati i flussi di quella esportazione di capitali con la quale lo stesso Lenin definiva l’imperialismo; vedi gli Usa diventati importatori di capitali.

Il dinamismo del capitalismo ha ormai coinvolto tutti i paesi assoggettandoli ad una integrazione globale dove un ruolo di primo piano è svolto dalle multinazionali, dalle loro interconnessioni e quindi dal sempre più complesso intreccio delle forme di partecipazione e controllo sui valori economici e finanziari. Soggetti principali sono non solo i grandi complessi industriali ma anche Banche, compagnie di assicurazione, ecc. Questo complicato sistema sfugge ad ogni tentativo di controllo e/o riforma “regolatrice”, e non può che procedere caoticamente con un antagonistico incrocio di rapporti di potere e di spietata concorrenza tra capitali. Fa parte del conflitto tra interessi, oltre alla conquista e al mantenimento dei mercati, anche il controllo delle risorse di materie prime e delle vie da esse percorribili (vedi petrolio e gas).

Avverrà dopo la seconda guerra mondiale il manifestarsi di una serie di caratteri inediti dell’imperialismo a seguito del primeggiare di una richiesta di capitali, materie prime ed energia, al seguito della fondamentale logica del capitalismo: ricerca del massimo profitto e concorrenza fra capitali. Questo porterà ad una regressione sociale inarrestabile, mentre il capitale finanziario assumeva una assoluta libertà e incontrollabile volatilità.

A fianco di nuovi rapporti inter-imperialistici aumentavano i movimenti dei capitali: il loro espandersi, nella sfera finanziaria, dava alla borghesia l’illusione di poter trarre da essi forti e rassicuranti guadagni in sostituzione di profitti industriali fattisi più difficoltosi. Ma quelli che dovevano autovalorizzarsi non erano capitali veri e propri, bensì cumuli di denaro virtuale che pretendeva di moltiplicarsi di per sé, senza passare attraverso la produzione di merci. Si esaltava un effimero circolo virtuoso che avrà invece effetti terribili soprattutto sulle condizioni del proletariato internazionale, e complicando anziché risolvere i tanti problemi che agitavano il capitalismo e la borghese società.

Mentre aumentava il potere egemonico delle oligarchie finanziarie, entrava in crisi l’espandersi della produzione capitalistica ed avanzava la modificazione inarrestabile della composizione organica del capitale. Occorrevano enormi masse di capitale monetario per un investimento produttivo (macchinari, impianti, servizi, infrastrutture, spese generali, ecc.) e questo non poteva che ostacolare la valorizzazione del grande capitale, al quale per altro la crescita dei settori improduttivi di merci (il famosi terziario) rappresenta solo un costo aggiuntivo.

Il processo di accumulazione capitalistica si è quindi incrinato col maturare della fase imperialista, fra montagne di capitale fittizio, di denaro che perdeva ogni fondamento di valore proprio a causa della crisi della sfera produttiva.

Il boom del secondo dopoguerra

La seconda guerra mondiale, con le sue enormi distruzioni di vite umane e beni materiali), aveva riaperto una fase espansiva e avviato un nuovo ciclo di accumulazione basato su potenziali produttivi fattisi giganteschi. Favorendo un consumo di massa (automobili, elettrodomestici, apparecchi audiovisivi, ecc.) la supremazia degli Usa vincitori si fece imperiosa in tutti i settori, fino a sostenere con elargizioni di credito la “ricostruzione” dei paesi sconfitti, sullo sfondo di un quadro imperialistico mondiale che subiva profonde modificazioni.

Gli imperi francesi e inglesi persero le loro colonie dichiaratesi indipendenti, sì, ma inserite nelle sfere dell’influenza russa o americana sia militare che economico-finanziaria. Dopo gli accordi di Bretton Woods (1944), nella Fed si calamiterà la politica monetaria internazionale, mentre le leggi del cosiddetto “libero mercato” e del “capitalismo concorrenziale” si dissolvevano definitivamente.

Quello che storicamente consideriamo come il terzo ciclo d’accumulazione, portò all’affermarsi di una organizzazione economica, monetaria e finanziaria, che dopo l’implosione del blocco imperialistico russo si accentrerà sulla egemonia del capitale statunitense e sul signoraggio del dollaro. Nel frattempo però il ciclo economico cominciava a rallentare la propria spinta propulsiva, quasi paradossalmente proprio dopo gli anni della cosiddetta "terza rivoluzione industriale" (microelettronica). Ad essa fecero da cornice la creazione di complessi industriali multinazionali, col monopolio di interi settori produttivi e commerciali in grado non solo di controllare gli indispensabili “consumi” di merci, ma altresì di imporne di nuovi anche se inutili e/o dannosi. Per rendere “profittevole” questa produzione di massa si adottarono- o si intensificarono - i principi della economia di scala, parcellizzazione del lavoro, produzione di serie, standardizzazione, ecc. Con gli imperativi: aumentare la produttività, ristrutturare tutti i settori (produzione, distribuzione, trasporti e comunicazioni).

Esaltante, per il capitale, fu inizialmente la crescita del plusvalore relativo (diminuzione del tempo di lavoro necessario a riprodurre il salario), estorto ad operai produttivi il cui numero tuttavia diminuiva gradualmente con le innovazioni tecnologiche e applicazioni della scienza come forza produttiva. La tendenziale caduta del saggio di profitto, scacciata dalla porta, rientrava dalla finestra e colpiva gli apparati industriali a cominciare dagli Usa. Iniziava la vera e propria crisi strutturale del capitalismo.

La rottura degli “equilibri” imperialistici

Alla presenza di un apparente e forzato “equilibrio” imperialistico, dopo la Seconda Guerra mondiale, fecero da corollario accordi istituzionali (Onu), commerciali e tariffari (Gatt), monetari (Bretton Woods), politici (Yalta) e militari (Nato, Seato, Cento, Patto di Varsavia). Ma i giganteschi interessi in gioco spinsero in breve tempo il capitale finanziario a sviluppare e consolidare il proprio potere internazionale, rafforzatosi col dominio monopolistico esercitato sull'intero mercato mondiale.

La libera circolazione dei capitali non fece che aumentare i comportamenti aggressivi delle maggiori potenze nel controllo di settori commerciali e zone geo-politiche; dietro un mitico “ordine mondiale” aumentava il disordine mentre si imponeva ovunque un bestiale sfruttamento del proletariato (occupato) al fine di estorcergli maggiori quantità di plusvalore. A farsi valere era naturalmente la assoluta supremazia finanziaria, militare e politica degli Usa, incontrastata nei campi aerospaziali, marittimi e nella cibernetica, mostrando nel medesimo quello che Lenin aveva definito – a seguito della diffusione del dominio ’imperialistico – un “imputridimento” del capitalismo: la sua storica e parassitaria decadenza.

Tutti i Paesi da allora sono costretti a rapportarsi con il mercato capitalistico-imperialista mondiale; le merci prodotte devono essere competitive e costrette quindi ad avere la medesima composizione tecnico-organica per inserirsi negli scambi sui mercati internazionali. Questi vanno quindi “conquistati” assieme a zone d’influenza e controllo strategico. Lo sbocco finale di tali operazioni comporta scontri bellici (al momento locali) senza esclusione di colpi, conseguenza inevitabile delle caratteristiche di fondo dell'imperialismo e dell’avvenuta supremazia del capitale finanziario.

Appropriazione parassitaria di plusvalore e capitale fittizio

Lo scenario nel quale l’imperialismo si muove in questo nuovo millennio si è dunque in parte modificato: il mondo della finanza sembra aver preso il sopravvento diventando un'industria speculativa dove però non si produce plusvalore ma lo si divora parassitariamente. Da ciò l’esigenza di rastrellare più valore di quanto sia in realtà prodotto a livello globale. Ed ecco il formarsi di un capitale unicamente fittizio in contrapposizione al capitale reale; esso si muove in un’artificiosa autocircolazione, fuori da quella produzione di merci che sola consente al capitale (quale valore in processo attraverso lo sfruttamento di forza-lavoro) di aumentare il valore di ciclo in ciclo.

Poiché la valorizzazione del capitale ha la sua forma adeguata unicamente rappresentando il valore di scambio delle merci, il movimento D – M – D’ è il solo ciclo che possa consentire la realizzazione di valore di scambio e quindi di plusvalore. Entrando in crisi questo movimento (a causa della caduta del saggio del profitto), si cerca di rastrellare spasmodicamente quote di plusvalore già esistente sulle quali si fonderebbe una fittizia valorizzazione del capitale finanziario internazionale. Il tentativo di controllare questi flussi avviene fra squilibri e tensioni sempre più forti.

Le origini mistificate della crisi

Secondo gli economisti borghesi, nella sfera finanziaria (e non nella produzione di merci) andrebbe ricercata l’origine della crisi. Al più, ecco un Marchionne che recrimina su di “un ciclo economico negativo”: basterebbe “dare alle aziende la possibilità di gestirlo” e si tornerebbe come ai tempi migliori…

La speculazione finanziaria è indicata come il nemico “subdolo e pericoloso”, colpevole di assorbire “liquidità”; alla lunga però gli stessi operatori di quell’evanescente mercato sono presi dal dubbio: e se tutto ciò che in esso sembra “muoversi con profitto” fosse in realtà un fenomeno puramente artefatto?

In effetti, non si va oltre un turbinio di cifre ruotanti attorno alla concessione o all’acquisto di debiti al fine di lucrare interessi, nascondendo la vera causa di una persistente recessione (così la si definisce) economica che, in… alternativa, ha gonfiato non i consumi ma i mercati finanziari. Anziché merci, si scambiano titoli commerciali (debit economy) che – come le cartolarizzazioni e i “derivati dal credito” (assicurazioni sul credito o vere e proprie scommesse sui più imprevedibili eventi) – si basano su “valori sottostanti” (crediti non garantiti) semplicemente annotati su un pezzo di carta o in un computer. (1)

La droga del credito ai consumi

Quando i settori industriali (dove si “produce” in concreto il plusvalore) hanno mostrano affanno, le Banche si sono orientate, per mantenere i loro guadagni, verso la erogazione di crediti ad un consumo il quale, a causa della crisi economica già in atto, va registrando un calo insopportabile per il sistema.

Favorendo l’indebitamento privato di ogni tipo e condizione, le Banche accumulano interessi per un certo periodo con una complicata serie di strumenti finanziari negoziabili o trasferibili (Abs, Asset backed securities) di dubbia formazione e sostanza. In prevalenza mutui garantiti da ipoteca, poi ceduti (rischi connessi) ad altri soggetti e con nuovi strumenti appositamente creati dalla fervida immaginazione dei banchieri. Sono, nel gergo finanziario, gli Special Purpose Vehicle i quali prima riuniscono tutti i mutui e poi li spezzettano in tanti titoli separati da collocare sul mercato. Ciascuno comprendente la sua parte di rischio, in aumento di passaggio in passaggio. La miscellanea di questi particolari “macinati, insaccati e poi tagliati a fettine” comprende i Mbs (Mortage backed securities) e le cartolarizzazioni di mutui coperti da ipoteche: migliaia di miliardi di dollari, ideati e maneggiati dalla “finanza creativa”.

Le Banche hanno così potuto concedere enormi prestiti senza avere in realtà i mezzi per farlo; secondo quanto raccontava un tipo come Greenspan, il mercato si sarebbe autoregolamentato! Ma al denaro prestato devono corrispondere utili, e poiché la domanda di crediti da parte delle imprese per investimenti (e non, come invece stava e sta accadendo, solo per pagare debiti o per sopravvivere!) si è rarefatta, la sfera finanziaria si è gettata letteralmente a capofitto in un vero e proprio “gioco d’azzardo”, lo stesso dove nei casinò si rastrella denaro dalle tasche della “clientela”.

Esplode la crisi vera e propria - In questo contesto, dietro il quale l’economia reale ha continuato a rotolare in basso, l’inverno 2010 ha rappresentato il periodo di manifestazione quasi esplosiva di una situazione sospesa su un baratro nel quale precipitavano i debiti sovrani dell’area europea in particolare. I salvataggi statali sono partiti negli Usa, con la Fed costretta all’acquisto di centinaia e centinaia di miliardi di dollari in Titoli pubblici e Mbs, con un quantitative easing finito nell’ottobre 2014, per evitare il fallimento di molte Banche a seguito della esplosione di “bolle” di ogni genere, fra cui soprattutto quella immobiliare.

Seguirà l’Europa, ma anziché gettare “acqua sul fuoco” queste operazioni hanno fatto da detonatore all’esplosione del marasma che la crisi economica reale da tempo covava per la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Un fenomeno, questo, ritenuto dagli “esperti” inesistente, e che nei pensieri degli economisti al soldo del capitale non sarebbe che un aborto dei “pensieri filosofici” di Marx.

Attenzione: come più volte abbiamo detto a tale proposito, ciò non significa una immediata restrizione della massa del plusvalore complessivamente “creata” nel mondo dal modo di produzione capitalistico. Nel frattempo un capitale monetario, in migliaia di miliardi di dollari e di euro, si aggira nel mondo alla ricerca di un profitto che non viene estratto a sufficienza dallo sfruttamento di masse di lavoratori in calo (nei settori realmente produttivi). Ecco allora le più potenti istituzioni finanziarie, nazionali e internazionali, operanti alla luce del sole o nell’ombra, intente a muovere giornalmente cifre colossali, intascando commissioni da capogiro, sempre alla ricerca di “guadagni” strappati al plusvalore che ancora esiste.

Al capitale fittizio la borghesia cerca di dare una profittevole collocazione in uno scenario dove i debiti sovrani hanno finito con il diventare un’altra polveriera pronta ad esplodere man mano che i livelli dei rapporti debito-Pil diventano difficilmente sostenibili, specie negli Stati economicamente più deboli. Così come lo sono a questo punto – tra le varie tipologie di “bombe” pronte ad esplodere fragorosamente – i pacchi di titoli manovrati con “scelte” imposte dalla pressione di una speculazione finanziaria che non conosce alcuna barriera per contenerla o arrestarla.

Spinte agli estremi, si assiste a manovre che diventano sempre più pericolose per chi rischia di trovarsi all’ultimo momento con in mano un pugno di mosche. Nessuna istituzione governativa (economica, finanziaria, politica) potrebbe mai a lungo sostenere le scosse telluriche che minacciano questo artificioso quanto folle movimento.

Alle Banche centrali viene per il momento fatto obbligo di acquisto dei titoli del debito pubblico, al fine di puntellare i traballanti bilanci delle Banche creditrici disseminate nei vari Stati. Così aumenta la massa della moneta circolante, con l’acquisto di attività finanziarie, titoli pubblici, privati e tossici. I portafogli bancari si riempiono di Titoli di Stato: in Italia lo stock di titoli da settembre 2008 a maggio 2014 risulta aumentato di 293 mld di euro ed ha oggi raggiunto quota 402,9 mld (dati Confartigianato). E’ cresciuto di 7,7 mld di euro in un solo anno (maggio 2013/2014).

Cerotti per un capitale in stato comatoso

Professori, accademici, tecnici ed esperti in economia, si affollano attorno al capezzale del capitale nel tentativo di fargli superare una crisi che, imperversando da ormai otto anni, potrebbe risultare fatale. Col Pil ovunque in ribasso, persino fra i più prestigiosi premi Nobel dell’economia c’è chi si vede costretto a rispolverare una teoria, quella della “stagnazione secolare”, che apparve negli anni Trenta a seguito del pensiero di Keynes. Oggi viene esposta al pubblico dall’economista Larry Summer e dai suoi proseliti.

Al servizio del capitale, le “idee” di questi signori sono retribuite da Governi, Banche e “privati benefattori” con stipendi e onorari megagalattici a seguito di prestazioni ad “alto livello” (conferenze, relazioni, convegni e festival). Quasi tutti sono stati ammiratori degli interventi della Fed americana (quantitative easing - QE); interventi in generale esaltati come risolutivi della crisi sia finanziaria sia economica. Un esempio da seguire al più presto anche in Europa, come la Bce sta ora iniziando a fare. (3) Anche se il suo attivo di bilancio, negli ultimi due anni (estate 2012-2014), è diminuito di 1.000 mld di euro.

La situazione negli Usa non è di certo diventata improvvisamente rosea. La crisi devastante dei subprime è costata una cifra ufficialmente pari a 4.500 mld di dollari; ora che il quantitative easing (circa 1.000 mld di dollari l’anno come “stimolo monetario”) è stato bloccato, c’è il rischio, di riflesso, di una “caduta” delle speculazioni di Borsa, le quali fino ad oggi hanno fatto seguito a fusioni e Opa di vario genere. Potrebbero risentirne anche gli investimenti, già ben selezionati sul metro del profitto, nei Paesi emergenti. (4)

Non saranno effetti immediati, ma presto si potrebbero manifestare quando la borghesia americana si vedrà ridurre il cumulo di carta straccia, per altro senza valore alcuno, in cui si sta trasformando una ingente massa di denaro-capitale produttivamente inutilizzabile. Ciò nonostante si suggerisce ancora, da più parti, la stampa senza alcun limite di carta moneta, pur constatando che quanto maggiore è il denaro circolante, tanto minore risulta essere il suo valore.

Sta di fatto che non si può fare a meno, anche in Europa, di giocare la carta di una espansione di quantitative easing in prestiti agevolati alle Banche. Seguirebbero acquisti diretti di Titoli di Stato e di corporate bonds (obbligazioni aziendali). Pacchi di cover bond, Asset-Backed securities (titoli con crediti a garanzia o Abs) e Residential mortgage backed security (titoli con a garanzia mutui residenziali o Rms). Cosa di preciso contengano questi Titoli finanziari non è dato sapere: invocando “semplicità e trasparenza” è la stessa Bce che invita ad una cartolarizzazione dei crediti che poi lei acquisterà. Nella Ue, al momento il settore cartolarizzazioni vale circa 1.000 mld di euro (calcoli della Security industry and financial marketi association - Sifma). Le Abs varrebbero 150 mld di euro; le Rms circa 600 mld

Riguardo ai propositi di un fondo europeo di salvataggio, verrebbe costituito (lo si diceva fino ad un anno fa) solo con lo scopo di coprire le operazioni speculative in corso, costringere i Governi ad accelerare i tagli alle spese sociali e ad accentuare gli attacchi alle condizioni di lavoro e di vita del proletariato. La giustificazione: necessità di allontanare il pericolo di un possibile “fallimento sovrano”.

In un quadro economico ufficialmente definito “deteriorato” (tale da comportare i più bassi livelli del tasso sui depositi e sulle operazioni di rifinanziamento marginale, 0,05% a fine 2014), si continua a scaricare le colpe su quell’entità astrattamente definita – il mercato finanziario – che fa vacillare le Borse e monete, mettendo in crisi i Governi (destra e “sinistra” ) ed in pericolo traffici e affari disperatamente volti a rastrellare quanto più plusvalore, ancora in circolazione, sia possibile. I termini con i quali si legittimano nefandezze ideologiche (e soprattutto materiali) di ogni genere, sono chiaramente quelli di un ricatto a carico del proletariato e, al punto in cui siamo, anche di una parte del ceto medio, mentre la borghesia continua a speculare sulle “stravaganze” dei mercati azionari (come persino qualche economista borghese le definisce).

Altri “pensieri” progressisti

Fra i “pensatori progressisti” troviamo J. Tobin, anche lui premio Nobel neokeynesiano e sostenitore dell’intervento pubblico. Il suo piffero magico suona una “musica d’avanguardia”, con l’invito a compensare gli insufficienti investimenti privati mediante interventi dello Stato nel ruolo di regolatore della produzione di merci e della distribuzione della ricchezza (plusvalore). E per tenere a bada la “pubblica opinione” propone una elargizione di dosi di “droga monetaria”. Lo segue un L. Summers, ex segretario del Tesoro degli Usa, ex direttore del Consiglio Economico Nazionale, carico di premi e riconoscimenti: per lui basterebbe superare (?) questa “depressione” perché tutto vada poi per il meglio, sviluppo capitalistico compreso.

La ciliegina sulla torta la offre Krugman il quale, come causa della domanda in calo di merci e servizi, parla di una troppo "lenta crescita della popolazione". Da ciò l’effetto negativo di una scarsa costruzione di nuove case e il rallentamento della cementificazione di vaste aree, paralizzando un settore, quello dell'edilizia, che trascinerebbe con sé nella crisi altri comparti industriali. Ecco il perché dei "deficit commerciali"! Ma non preoccupiamoci più di tanto, giacché gli attuali 7 mld di abitanti del pianeta Terra raggiungeranno i 10 mld fra qualche decennio.

Per la verità, altri guardano invece con una certa inquietudine ai problemi posti da una eccessiva proliferazione. Il ritmo medio annuale di accrescimento della popolazione mondiale sta superando il 2%, ovvero nel corso dei prossimi 35 anni si paventa quasi un raddoppio degli attuali esseri umani. Ed è soprattutto nel Terzo Mondo che si annuncia l’esplosione di una vera e propria bomba demografica. Da un rapporto pubblicato negli Usa (The State of Earth Atlas), nel 2025 l’Africa avrebbe una popolazione tre volte quella europea: la sola Nigeria supererebbe gli Usa.

Che fare allora, per questi signori, se non aprire porte e finestre al “denaro facile” per “sviluppare” il capitalismo? E pazienza per i sepolcri imbiancati di “onestà e senso etico”. In definitiva, "la realtà è quella che è, e come ha detto Summers, la crisi 'non è finita finché non sarà finita'" (Krumnan). Un pensiero concettualmente troppo profondo perché dei comuni mortali come noi possano comprenderlo.

Guerra delle valute

C’è persino qualche invito rivolto agli Stati della Ue perché ciascuno si riprenda la propria sovranità nazionale, sempre con banconote che non vadano più di tanto a “disturbare” il dollaro come invece fa l’euro. Ed effettuando una “produzione” a costi limitatissimi di banconote sulle quali si potrà stampigliare a piacimento il più alto valore, la Ue potrebbe persino godere di un reddito supplementare. Saremmo davanti a dei principi di "logicità" in quanto "la banconota è la merce che dà il piu alto profitto".... Parola dell’ineffabile Krugman che, in casa propria, sostiene che il presidente Obama dovrebbe coniare una moneta di platino da mille mld di dollari per evitare il pericolo di un pubblico default!

Ed a proposito di "guerre delle valute", per la mente di cui sopra esse costituirebbero un "sicuro vantaggio per l'economia mondiale", quale condizione (?) prioritaria per garantire la costante valorizzazione del capitale. Sempre, s’intende, percorrendo la strada (obbligata) di una costante diminuzione dei salari (una via per altro già molto affollata) e di aumenti di produttività; a rimorchio di una politica finanziaria espansionistica che dovrebbe migliorare le condizioni di realizzazione del plusvalore presente nelle merci prodotte (e da vendere…). Quindi, per aiutare il consumo (in fase depressa) delle suddette merci, si acquisti pure a credito: l’importante è che la giostra giri e alla fine qualcuno pagherà. L’importante è assicurare al capitale un profitto che gli consenta di potersi espandere in modo autonomo senza cioè ricorrere troppo al credito esterno.

Tutti poi recriminano, “scientificamente”, sul mancato aumento della pressione inflazionistica:, poiché essa sarebbe l’indice di un miglioramento della "performance economica" (non certo per i proletari e le loro famiglie…). Quindi, un corso economico inflazionistico farebbe da “asso nella manica” per meglio “valorizzare” (?) il capitale produttivo industriale, ovvero un tentativo (disperato anch’esso) per evitare la "stagnazione” e ridare slancio all’economia. (5) Apertamente o meno, sono in molti a ritenere che in fondo anche un aumento dei prezzi aiuterebbe il Pil a crescere, facendo risalire anche i tassi di interesse.

In poche parole, l'espansione monetaria farebbe da antidoto all’attuale crisi di estensione del valore. E se per noi (vetero marxisti) dietro il tutto vi è la tendenziale caduta del saggio di profitto, per gli insigniti di premio Nobel la colpa ricadrebbe su quella “paranoia dell’inflazione” che impedisce di invertire l’attuale “spirale verso il basso”. Esternazioni che si leggono sul New York Times Service – 2014, con elogi alla Fed la cui politica monetaria espansiva non avrebbe affatto “deprezzato” il dollaro. Ma si sarebbe dimostrata “assai positiva per il mercato azionario”. Molto ma molto meno per il cosiddetto “mercato del lavoro”... (da notare che i tassi di interesse negli Usa scesero dal 6% prima del 2008, fino allo zero).

Politiche monetarie

Si ritorna alle convinzioni di un sostenitore del “libero mercato”, Milton Friedman, premio Nobel (e ti pareva!) ed economista della Scuola di Chicago. Un fumo ideologico a sostegno di una “dottrina monetarista” che pretenderebbe di rendere “stabile” l’economia capitalista con aumenti di denaro ad un tasso fisso. Una media da calcolarsi con la crescita del livello di produzione e con aumenti di forza-lavoro e di produttività. La piena occupazione arriverebbe addirittura come conseguenza di un libero ed efficiente corso economico. “Briglie sciolte” ai mercati (finanziari) senza vincoli alle attività delle Banche: così il denaro circolerà velocemente. L’“idea” fu “applicata” da Pinochet in Cile, almeno fino al 1984 quando la “flessione” economica si fece inarrestabile!

Per quanto concerne una regolamentazione del settore (ammessa ma non concessa!) le cose non potrebbero andare certamente meglio; il collasso del capitalismo, oltre la sfera finanziaria, è inevitabile, cosi come non vi è rimedio o particolare intervento che possa bloccare le contraddizioni che si sviluppano nel cuore stesso del modo di produzione capitalistico.

E nell’attesa di una “ripresa vivace e veloce” (un pensiero di Stiglitz, altro Nobel), gira e rigira il piatto forte di quanti assaporano la riscaldata minestra delle “massicce manovre espansive di bilancio” rimane sempre quello che droga l’economia capitalistica con massicce iniezioni di liquidità. Ed anche la cosiddetta “sinistra” (compresa quella “antagonista”), la pensa più o meno allo stesso modo e “deplora” i devastanti effetti collaterali alla recessione, deindustrializzazione compresa.

A questi cascami del “pensiero dominante” si allinea anche il capo-economista della Citygroup, W. Biuter: in un suo ben remunerato saggio accademico esalta infatti – col corollario di un nutrito numero di equazioni – l’efficacia delle azioni di “Helicopter money” (ancora e sempre “liquidità”!) per aiutare i consumi e la produzione di merci. Misure che hanno ricevuto l’approvazione dei banchieri centrali di tutto il mondo riunitisi a Jackson Hole sulle Montagne Rocciose, il 22-8-2014.

Ed a puntellare il castello di queste illusioni date in pasto alla pubblica opinione, ecco un F. Rampini (La trappola dell’austerità – Laterza 2014) il quale cita “le riprese manifatturiere, le esportazioni che tirano e l’occupazione in aumento” sia in America che in Asia. Saremmo addirittura di fronte a “casi da manuale”, che l’Europa dovrebbe imitare per rimettere in movimento il suo “mercato stagnante”, con investimenti pubblici e politiche monetarie su modello Fed. (Peccato gli manchi la onnipotente forza militare degli Usa!). Ennesima dimostrazione di come la borghesia (i suoi economisti e opinionisti), alle prese con un capitalismo che si avvolge nella crisi, le sta provando tutte, sia in pratica che in teoria. Dal keynesismo alla giornata, di Obama, all’austerity europea, dal dirigismo di Pechino al protezionismo indiano.

Domanda e offerta

Nel complesso, e a sostegno degli strafalcioni sopra riportati, assistiamo ad un ritorno di moda dei pensieri teorici di Keynes, il baronetto inglese che propugnava una politica basata sul rialzo dei prezzi come segnale conseguente all’aumento della domanda di merci. Non solo, ma per aiutare i “consumi” occorreva una espansione del credito per “finanziare” le spese private in un sperato aumento. (Cosa accade conseguentemente a questi “indirizzi”, ne abbiamo avuto abbondanti prove!) Sempre che si tratti – precisava comunque Keynes – di trattare con "creditori ragionevolmente solidi"…

Realisticamente, si ritorna al nocciolo del problema. È impossibile per il capitalismo puntare ad una espansione della produzione senza che i profitti siano già in aumento e altrettanto lo siano le vendite di merci. Gli investimenti devono in previsione assicurare profitti, altrimenti non si fanno! Inoltre, non solo si deve produrre plusvalore in quantità ma lo si deve anche realizzare vendendo merci. Altrimenti diventa indispensabile – ripetono i neo-keynesiani – che lo Stato prenda una iniziativa in aiuto della situazione di scarsi investimenti privati; dovrebbe quindi finanziare investimenti pubblici ricorrendo anche lui al credito.

Sarebbe – si dice – l’unico modo per salvaguardare la riproduzione allargata del capitale con una estensione della spesa sia pubblica sia privata. (7) L’una o l’altra (meglio se entrambe) sperando in un adeguato ritorno di profitti, altrimenti il banco salta…

Chiaramente, pretendere pareggi dei bilanci statali sarebbe un ostacolo per simili programmi, tanto più che con l’inesistenza di una vincolante base aurea (anche per avere questa condizione ci si accordò dopo il secondo conflitto mondiale…) sarebbe favorita l'operazione prospettata. Infatti, se esistesse ancora la valuta aurea, «il prezzo delle merci e della massa delle transazioni determinerebbe la massa del denaro effettivamente in circolazione». (Marx, Il capitale, Libro I, cap. 3). Senza più l’obbligo di una convertibilità in oro delle banconote, e con la carta-moneta statale a corso forzoso, si scioglie invece ogni ingombrante legame. I prezzi delle merci possono anche aumentare; si avrebbe solo una modifica nominale dei valori di scambio delle merci poiché i prezzi subirebbero aumenti indipendenti dai valori reali.

Questo Marx lo sapeva benissimo; la presenza della moneta aurea era solo un presupposto nella esposizione delle leggi della circolazione. Ma quelle leggi restano valide comunque e non viene affatto – con la fine della convertibilità in oro – messa in forse la teoria del valore e del denaro.

Considerazioni finali

In sintesi: la carta moneta ha da tempo preso il posto dell'oro come mezzo di circolazione; lo Stato e la Banca Centrale attuano una politica monetaria (finanziaria e valutaria) "autonoma". Chiaramente, esistendo la forma di prezzo, permane la funzione del denaro come misura dei valori e misura dei prezzi delle merci. Ma senza un costante “sviluppo” della struttura economica dominante, senza l’accumulazione di quel valore in processo che è il capitale, e che il denaro può solo misurare ma non produrre, il ricorso ad una “compensazione” di spese statali supplementari, finanziate attraverso la creazione di credito sia privato sia pubblico, non risolve ma peggiora i problemi che attanagliano il capitalismo.

Non siamo in presenza di una produzione di valore (e plusvalore) che possa consentire il suo accumulo per poter riprendere un ciclo di riproduzione; si tratta di finalità (quelle cosiddette pubbliche) improduttive di valore per il capitale, quando cioè le merci (esempio significativo l’industria bellica con aerei, carri armati, missili, eccetera) non sono realizzate come capitale in quanto non rientrano in successivi cicli di riproduzione. Sono merci che si "realizzano" con la distruzione del loro carattere di prodotti del capitale; consumano solo capitale. A latere, potrebbe avere uno stimolo anche la produzione di merci in settori riproduttivi; ma la “ripresa economica” sarebbe pur sempre momentanea sfociando poi di nuovo nella crisi.

Per concludere: con la sua teoria del valore-lavoro, Marx ha assegnato ai rapporti sociali di produzione, ai concetti fondamentali di sfruttamento e di opposizione tra lavoro salariato e capitale, una loro determinante oggettività. Ed è alla teoria del valore-lavoro che si collegano le leggi dell'accumulazione e della caduta tendenziale del saggio di profitto.

La possibilità di una ripresa, dopo una crisi, del processo di accumulazione, è stata nel secolo passato intrinsecamente legata al lancio di nuove e allargate produzioni di beni di consumo, e poi a distruzioni materiali (seconda guerra mondiale) che hanno fornito al capitale, con le successive ricostruzioni, il terreno per nuovi investimenti, per una ripresa della produzione nel settore privato. Sia prima dell'esplodere dei conflitti bellici, durante la loro preparazione, che con il loro svolgimento, si sono anche sviluppati vasti settori dipendenti dalla domanda iniziale, statale, che inizialmente puntava ad un forte incremento della produzione bellica.

È vero che ad una parte del plusvalore che la stessa crisi rende inaccumulabile nel settore privato, lo Stato fa ricorso (ricevendola in prestito con i Titoli pubblici) per impiegarla nelle sue principali funzioni di gestione amministrativa e sociale (compresa quella repressiva). Lo Stato si appropria di plusvalore finanziando le sue “spese” con tasse e prestiti; sviluppandosi la produttività e di conseguenza l'esubero di forza-lavoro, lo Stato si trova però alle prese con una instabilità sociale del sistema, mentre è sul mantenimento dell’ordine stabilito che si reggono presenza e funzione dello Stato borghese.

Il settore pubblico-statale è strettamente dipendente dalla produzione di merci, cioè dalla produzione e riproduzione di un plusvalore che non sarebbe reperibile in altro modo. Non si risolve, anzi si finirà con l'aggravarlo, il problema della crisi del ciclo di accumulazione qualora non si investa una quantità sempre maggiore di plusvalore nei settori produttivi, siano essi privati o statali. È una condizione sine qua non per la valorizzazione del capitale.

Il “giusto” profitto

Poiché la condizione per ottenere un profitto “soddisfacente” sarebbe quella di aumentare il valore di scambio delle merci, i capitalisti ricorrono invano alla applicazione di più produttive tecnologie in grado di ottenere maggiori quantità di merci.

Nella fase imperialistica del capitalismo tutta la produzione mondiale delle merci poggia sul dominio supremo del capitale. L’accentramento del capitale si è fatto essenziale per l’esistenza del capitale in quanto potere indipendente. L’influenza distruttiva di questo accentramento ha investito prima i mercati commerciali e e poi quelli finanziari, puntando su una falsa indipendenza fra gli uni e gli altri. Anzi assegnando un astratto primato ai secondi sui primi. (8)

Con la costante diminuzione del lavoro vivo, dei lavoratori impiegati nei processi produttivi e sostituiti da macchine, il “motore” che muove il capitale comincia a battere in testa: la autovalorizzazione del capitale (il quale è costretto a raggiungere proporzioni sempre più grandi in capitale costante e fisso rispetto al capitale variabile) si inceppa. Il capitale si svalorizza; aumentando il saggio di plusvalore (prelievo di maggior plusvalore relativo con un aumento della composizione organica del capitale e una riduzione numerica della forza-lavoro) alla fine avviene una diminuzione del saggio di profitto, anche se la massa del profitto sale. Infatti, il saggio di profitto è un rapporto (in percentuale) tra il plusvalore e il capitale complessivamente anticipato: quello variabile, i salari, e quello costante, materie prime, macchinari, ecc. Il saggio di profitti cade inevitabilmente col progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro: sempre più prodotti ottenuti con il lavoro di un minor numero di operai.

Per il suo sviluppo e la sua stessa sopravvivenza il capitale è costretto ad un continuo rivoluzionamento delle condizioni della produzione; spinge in avanti un processo basato sulla introduzione diretta delle innovazioni tecnologiche, dei risultati della ricerca scientifica, e sulla razionalizzazione dei metodi lavoro. In questo modo si aumenta la produttività per addetto e si riduce il tempo necessario alla produzione di ogni singola unità di prodotto, sfociando nella concentrazione della produzione su larga scala. Esplode una insanabile contraddizione che mette in crisi il modo di produzione capitalistico: diminuendo il numero di operai per unità di capitale investita, si sviluppa una tendenza alla diminuzione del saggio di profitto. E’ la diretta conseguenza del modificarsi del rapporto che intercorre tra il nuovo valore prodotto (plusvalore) e la massa totale del capitale investito, che subisce un aumento esponenziale.

La intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro impiegata nei processi di produzione delle merci, al fine di ottenere più plusvalore, è vitale per l’accumulazione di capitale. Quando la pressione fisica sugli operai incontra dei limiti (plusvalore assoluto) interviene quella estorsione di plusvalore relativo che alla fine incontrerà anch’essa un limite: quello di una vivente forza-lavoro che – diventata superflua – non può più essere sfruttata! Qui sta la questione di vita o morte per il capitale, ed è qui dove Marx affonda la lama tagliente della sua indagine.

Per la borghesia, nota bene, si tratterebbe solo di “opinioni” personali e per lo più “filosofiche”. Gli economisti della classe dominante guardano unicamente alla sfera degli scambi e alla circolazione del denaro e delle merci, non prendendo minimamente in considerazione un fatto centralmente determinante:

soltanto lo scambio contro lavoro produttivo è una delle condizioni della ritrasformazione del plusvalore (ottenuto in un primo ciclo di produzione di merci – ndr) in capitale.

Marx
Davide Casartelli

(1) Fra gli strumenti speculativi che agiscono sull’andamento dei prezzi vi sono i derivati sulle commodities (grano, petrolio, oro, ecc.). I futures sul petrolio, muovendo centinaia di “barili virtuali” rispetto ad un barile reale di petrolio prodotto, hanno determinato le impennate del prezzo della benzina al di fuori della legge di domanda e offerta di mercato.

(2) A latere del menù nei pranzi di gala, affiorerebbero dibattiti dove si può vedere “la straordinaria ricchezza del pensiero politico statunitense contemporaneo, che si divide ancora con passione sul miglior modo di organizzare la società e il sistema produttivo, esprimendo opinioni che spesso affondano (letteralmente… – ndr) le loro origini in prestigiose tradizioni filosofiche”… (G. Dottori, in Limes n. 4, 2015)

(3) Il QE europeo dovrebbe durare 18 mesi, con “acquisti” di 60 mld di euro al mese (50 in Titoli sovrani e 10 in Titoli corporate da cartolarizzazioni). Il 76% dei 950 mld di euro in Titoli sovrani sarà acquistato in Germania (244 mld),in Francia (192), Italia (167) e Spagna (120). Seguono cifre minori per altri Paesi Ue. Una “liquidità” che sarà immancabilmente incanalata verso il mercato delle obbligazioni, azioni e derivati.

(4) Sono notevoli le somme di “risparmi” che molti paesi emergenti (Brasile, India, Turchia e Sudafrica) hanno dirottate verso gli Usa, contribuendo ad una rivalutazione del dollaro stesso. Qualche vantaggio concorrenziale ne ha poi tratto l’euro e con esso alcuni Stati dell’Eurozona.

(5) Ecco il presidente della Bce, Draghi, che all’European Banking Congress (2014) proclamava: “La Bce farà tutto quello che va fatto per alzare l’inflazione e le aspettative d’inflazione il più velocemente possibile (…) Dobbiamo creare condizioni di business che siano favorevoli agli investimenti, aiutando così la politica monetaria”…

(6) Una rivalutazione del dollaro nei confronti dell’euro non dispiace per il momento alla Bce. Attenzione però alla presenza dell’euro nelle riserve ufficiali mondiali di valuta: essa era pari al 27,6% nel 2009 (dal 17,9% del 1999!) ma è scesa al 22,6% nel 2014, mentre il dollaro che era sceso nel 2012 e nel 2013 al 61%, è risalito al 62,3% nel 2014 (era al 71% nel 1999). Prospettiva allarmante sarebbe per la Bce quella di una ripresa di fughe di capitali dalla Ue proprio quando è entrato in funzione il QE europeo…

(7) - Secondo Keynes, una situazione di crisi e stagnazione economica era da imputarsi ad una mancanza di investimenti produttivi da parte del capitale privato. Il rimedio avrebbe allora dovuto essere ricercato in una politica di aumento della spesa pubblica, senza preoccupazioni per il deficit statale, poiché l’importante era aumentare la domanda totale sia per i beni d’investimento sia per quelli di consumo. La domanda andava quindi manovrata con appositi “incentivi a spendere” da parte del governo; si doveva quindi mantenere un livello di produzione tale da far sperare in un riassorbimento della forte disoccupazione. Il Presidente Roosevelt, in parte influenzato da quelle teorie, varerà piani di investimento nel settore delle infrastrutture; misure che si rivelarono però insufficienti per la ripresa di un ciclo espansivo il quale si concretizzerà soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale e a seguito delle sue enormi distruzioni materiali. In seguito, con la guerra di Corea (1950-53) e poi del Vietnam, gli Usa si appoggiarono nuovamente sulla produzione dell’industria bellica, con una spesa in armamenti che arrivò fino all’11% del Pil.

(8)

"La metamorfosi della finanza internazionale è stata una delle tendenze portanti di quest'epoca. In un quarto di secolo i flussi di capitali sono diventati immensi, istantanei, e controllati da una nuova razza di trader che rappresentano un manipolo di colossi finanziari concentrati in pochissimi paesi. (…) La concentrazione di potere è cresciuta a dismisura. Le 50 maggiori istituzioni finanziarie controllano 50.000 mld di dollari di attivi, un terzo dei capitali mondiali. Il potere di ricatto di queste élite (che guadagnano miliardi) è tale che da una parte esse pretendono che i nuovi strumenti finanziari globali si autoregolino; dall'altra parte, quando è arrivata la crisi, questi campioni del liberismo hanno convinto i governi a curare le loro ferite, mentre le famiglie dei lavoratori si vedevano pignorare le case. (…) I 100 capitalisti più ricchi del mondo controllano una ricchezza superiore a quella riservata a 2,5 miliardi di esseri umani." (D. Rothkopf, del Carnegie Endowment - giugno 2008).

A sua volta, la direttrice della vigilanza della Sec (autorità di controllo dei mercati finanziari), Linda Chatman Thomson, si dichiarava "turbata e sgomenta" di fronte ai casi insider trading: scandali che nel 2008 si sono moltiplicati, dalla Morgan Stanley alla Ubs svizzera, e che hanno spinto la Thomson e la sua impotente istituzione – fin qui considerata un… invincibile guardiano finanziario – a sollevare la solita "questione morale" e ad invocare la presenza di un global law enforcement, un poliziotto mondiale con super poteri. In seguito (2012) la PMorgan Chase perse 6 mld di dollari in speculazioni sui derivati.

Nel frattempo, un rapporto recentemente pubblicato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea si è vista costretta a denunciare “un ritorno dell’appetito del rischio”…

Martedì, January 26, 2016

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.