Critica al Coordinamento No Austerity e al sindacalismo radicale

Le illusioni della Rete Sindacale Internazionale

Il quindici dicembre scorso, su iniziativa di varie realtà sindacali e la partecipazione di alcuni collettivi studenteschi, è stato fondato il Coordinamento No Austerity. A detta dei suoi organizzatori, l’obiettivo del Coordinamento è quello di “contrapporre alla frammentazione delle lotte (di cui sono innanzitutto responsabili le burocrazie sindacali che rendono vittime i lavoratori e i cittadini) una vera e solidale unità delle lotte”.

I promotori del Coordinamento ritengono dunque che l’ostacolo da superare sui luoghi di lavoro per rilanciare la lotta di classe non sia di per sé la pratica sindacale, che impantana regolarmente ogni conflitto entro i limiti sterili della mera contrattazione, ma i vertici, le dirigenze dei sindacati. Le premesse teoriche del Coordinamento, insomma, non sono certo buone, poiché si basano sull’idea vecchia quanto il riformismo che i sindacati “rossi”, dalla Cgil a quelli più radicali, possano essere ancora utilizzati per organizzare il proletariato sul terreno di classe, rappresentando in realtà esattamente l’opposto, ossia il principale argine per evitare che il conflitto sociale cresca fino a mettere in discussione le leggi stesse del sistema capitalistico.

Il Coordinamento No Austerity aderisce alla Rete Sindacale Internazionale, fondata nel marzo di quest’anno e promossa dal brasiliano Csp Conlutas, da Solidaires di Francia e dalla Cgt spagnola.

Aderiscono alla Rete organizzazioni sindacali di una quarantina di paesi; numerosi i sindacati di base italiani, tra cui l’Usi, il SiCobas, la Cub scuola e università. Nell’appello della Rete si legge che il loro sindacalismo “non si limita al campo rivendicativo economico ma ingloba delle questioni come il diritto alla casa, alla terra, l’eguaglianza tra uomo e donna, l’antirazzismo, l’ecologia, l’anticolonialismo, ecc.”.

In questo caso ci troviamo di fronte a un errore teorico più grave di quello precedente, perché non solo ci si illude e si illudono i proletari che il sindacalismo sia ancora uno strumento utile per il conflitto di classe, ma che addirittura possa essere veicolo di lotte non solo economiche ma anche politiche, come l’eguaglianza di genere, il rifiuto di ogni discriminazione, la difesa dell’ambiente.

Tutte questioni centrali, assolutamente fondamentali per poter gettare le basi di una società radicalmente diversa da quella in cui viviamo, ma che sono irrisolvibili finché il capitalismo e il suo regime classista resteranno in piedi. Detto ciò, è evidente che non potrà certo essere il sindacato, la cui funzione è del tutto interna ai meccanismi di conservazione del sistema capitalistico, a porsi come guida per il superamento rivoluzionario della società borghese.

Nell’appello la Rete Sindacale Internazionale afferma anche di difendere il diritto all’autodeterminazione dei popoli; sostegno dunque al popolo palestinese e sahraoui, contro l’occupazione militare di Haiti, e, più in generale, “per il diritto di tutti i popoli a decidere del loro avvenire”. Ora, il concetto di popolo è molto generico: a volte è utilizzato pe designare i ceti meno abbienti in contrapposizione alla classi dominante, altre volte per identificare tutti coloro che sono accomunati dalla stessa cultura e dalla stessa lingua. In entrambi i casi, dunque, popolo è un concetto interclassista, che, applicato alla lotta politica, divide invece di unire la classe lavoratrice.

I proletari di Palestina, ad esempio, che subiscono una doppia oppressione, ossia quella dello stato israeliano in aggiunta a quella della propria borghesia, devono unirsi ai proletari di Israele nella comune lotta contro il capitalismo, i suoi stati, le sue frontiere, le sue guerre, e tutto il suo veleno ideologico di marca nazionalista.

Viviamo inoltre nella fase imperialistica del capitale da più di un secolo, per cui oggi non esiste paese al mondo che si autodetermini indipendentemente dal potere economico globalizzzato. La tragica esperienza stalinista ha ampiamente dimostrato che il socialismo in un paese solo non è realizzabile, e quegli stati che si autodefiniscono socialisti (Cina, Cuba, Venezuela) sono in realtà regimi dispotici in cui la classe operaia è sottomessa come altrove.

Tornando alla questione sindacale, è evidente che sia il Coordinamento No Austerity sia la Rete Sindacale Internazionale partano da un’errata valutazione del ruolo che ricoprono i sindacati non certo da oggi, ma da quando il capitale è entrato nella sua fase monopolistica. La funzione del sindacato come cinghia di trasmissione tra la classe e le sue vere o presunte avanguardie politiche – posizione espressa dai rivoluzionari fino ai tempi della Terza Internazionale – è una speranza per noi finita da tempo. Inoltre è davvero ingenuo aspettarsi da essi una funzione rivoluzionaria, essendo sempre stati gli strumenti della contrattazione del prezzo e delle condizioni di vendita della forza lavoro, e a difesa del proprio ruolo di mediatori.

Al di là della buona fede e della generosità di tanti suoi attivisti della base, i sindacati rappresentano il principale freno alla ripresa della lotta di classe sul terreno dell’anticapitalismo e anche un ostacolo al pieno sviluppo della lotta sul semplice terreno rivendicativo, che potrà avvenire solo quando i proletari inizieranno ad autorganizzare le proprie lotte, dando vita sui luoghi di lavoro e nel territorio a comitati di agitazione e sciopero, a organismi assembleari con delegati revocabili in qualunque momento. Sono queste le forme organizzative che il proletariato, a partire dallo scorso secolo, si è più volte dato per la difesa degli interessi immediati, andando oltre i sindacati. “Semplici” strumenti di lotta che abbiano come obiettivo non la mediazione fra gli interessi dei lavoratori e quelli del capitale, ma la difesa intransigente degli interessi del proletariato. Espressioni dalla lotta rivendicativa, il cui ruolo – in assenza di condizioni sociali pre-rivoluzionarie, che pongano all'ordine del giorno la creazione dei consigli operai – si esaurisce naturalmente con l’esaurirsi della lotta stessa.

Ma non sarebbe comunque sufficiente a fermare l’attuale aggressività della borghesia, sempre più feroce sotto i colpi di una crisi strutturale e irreversibile scatenata dalle leggi stesse di questo assurdo sistema economico. È necessario che la classe operaia abbia una guida politica organizzata a livello internazionale, capace di indicare la definitiva via d’uscita dal capitalismo. E la guida che sarà in grado di dare una prospettiva rivoluzionaria alla lotta di classe non sarà né un sindacato né un coordinamento di realtà sindacali, ma il partito internazionale della classe operaia. Oggi il principale compito dei comunisti è proprio quello di costruire questo partito, in vista dei duri conflitti sociali che, con l’avanzare della crisi, cresceranno in ogni paese.

GS
Mercoledì, June 12, 2013