Platino e piombo uccidono 36 minatori in Sud Africa

La borghesia sudafricana aveva visto lungo e bene. Per garantire lo sviluppo economico di uno dei paesi minerari più ricchi al mondo, la segregazione razziale, le tensioni da essa generate, non erano più funzionali. Meglio cambiare tutto: la costituzione, l'insostenibile mantenimento ufficiale della segregazione, il vecchio presidente della Repubblica sostituito dall'icona di Nelson Mandela, perché tutto rimanesse come prima, soprattutto il rapporto capitale forza lavoro.

Il tesoro da salvaguardare era rappresentato dalle miniere di minerali preziosi, diamanti, ma, soprattutto, platino e palladio. Il piccolo sacrificio di coinvolgere l'ANC nell'amministrazione del potere politico per garantirsi un migliore controllo di quello economico e del mondo del lavoro poteva valere la candela.

E così è stato sino a quando la crisi internazionale non ci ha messo il becco. Il Sudafrica è il primo produttore mondiale di platino e di palladio, due metalli preziosi che, oltre a rappresentare dei beni di rifugio per la speculazione internazionale, come l'oro se non di più, sono largamente usati nella componentistica e nel settore automobilistico come convettori catalitici. La crisi ha chiuso molti di questi spazi commerciali. I paesi industrializzati importano di meno perché producono di meno, diminuiscono le scorte e fanno minori ordinativi della materie prime. Questo vale per quasi tutti i settori industriali del mondo capitalistico, in particolare quello automobilistico che, di questa crisi, ha subito i contraccolpi maggiori.

Per le industrie sudafricane ha significato meno profitti, per la speculazione una preoccupante contrazione nella domanda di futures legati all'estrazione e alla commercializzazione dei preziosi metalli. Tra le imprese colpite, la Lonmin, che da sola produce il 12% di platino di tutto il paese, e che ha dovuto fronteggiare al suo interno una serie di scioperi, partiti il 10 di agosto. In quella data già si sono contati dieci morti (tra cui due poliziotti uccisi a colpi di machete), il 15 la strage di 36 proletari uccisi dal fuoco della polizia.

Il tutto per una rivendicazione salariale che prevedeva di ricevere in busta paga uno stipendio triplo rispetto agli attuali 400 euro, una miseria se rapportata ai carichi di lavoro e al parossistico aumento della produttività. Ma lo sciopero, più che la richiesta salariale, metteva in discussione un meccanismo delicato quanto economicamente proficuo. Cinque giorni di sciopero avevano già abbattuto il valore delle azioni della Lonmin del 6,33% ma, soprattutto, era un esempio da bloccare immediatamente prima che potesse dilagare in altre imprese del settore minerario. Un rischio che il governo di Pretoria non ha voluto correre. Meglio massacrare decine di operai che vedere il paese percorso da ondate di scioperi e di proteste, meglio una “lezione” preventiva che lo spauracchio della ripresa della lotta di classe.

Anche i sindacati hanno fatto la loro parte. Mentre l'AMCU ( Association of Mineworkers and Costruction Union) ha “accompagnato” le richieste dei lavoratori considerandole giuste, perché eque e conformi alle compatibilità del sistema, ovvero minime e quindi non lesive per i meccanismi di profitto dell'impresa, il NUM ( National Union of Mineworkers ), legato a doppio filo all'ANC, cioè al governo, si è esibito in opere di pompieraggio prima e di crumiraggio durante le giornate di sciopero. Nulla di nuovo. Anche nell'emisfero australe le leggi del profitto sono le stesse, come identiche sono le contorsioni sindacali. Al palese sostegno agli interessi del capitale degli uni si contrappone la falsa opposizione degli altri che cavalcano sì la tigre della rivendicazione salariale, ma solo quella e ben al di dentro della compatibilità economiche generali della società capitalistica.

La tragedia è che la violenza assassina del capitale non ha confini. Le stesse cose succedono in Cina, in Brasile e in molti altri paesi della cosiddetta periferia del capitalismo, mentre nell'occidente “democratico” nulla di simile è per il momento successo, per il semplice motivo che la ripresa della lotta di classe latita, ma al primo significativo cenno di risposta proletaria, anche sotto le nostre latitudini politiche, la mannaia della repressione non tarderebbe a scattare. In Italia, ad esempio, gli strumenti giuridici ci sono e le prove generali sul campo le hanno già fatte (Genova 2001) in tempi, oltretutto, non sospetti.

Non è più “soltanto” l'ora di gridare allo scandalo, di piangere i morti del proletariato internazionale, è anche l'ora di dare corpo e organizzazione al partito di classe, al programma rivoluzionario, perché la futura ripresa della lotta di classe non abbia come approdo solo la repressione della borghesia internazionale, ma anche l'obiettivo politico del superamento della società divisa in classi, della rottura dell'iniquo rapporto tra capitale e lavoro, della distruzione dei meccanismi produttivi capitalistici. Il tragico episodio della Lonmin e di trentasei proletari trucidati non è la recita localistica di un brutto avvenimento nel lontano Sud Africa, ma è un atto di una tragedia che è destinata ad andare in scena ovunque la testa proletaria tenti di alzarsi.

FD
Domenica, August 19, 2012

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.