Diaz, il film

Dopo avere visto Diaz al cinema ho avuto modo di leggere tanti commenti sui social network nei giorni immediatamente successivi. Non pochi contestano al film l’essersi occupato esclusivamente delle violenze esercitate dalla peggiore feccia della Celere all’interno del complesso scolastico adibito a ostello dai partecipanti alle giornate genovesi. Il rimprovero agli autori del film è quello di avere trascurato le responsabilità di chi in cabina di regia aveva scagliato quelle belve a caccia di sangue. Personalmente non sono d’accordo: il ruolo di chi era ai posti di comando è palese e diverse scene lo dimostrano, come tutte quelle sui vertici tenuti in questura. Sia pure marginalmente, si possono cogliere anche le gravi responsabilità di chi – Tute Bianche e Disobbedienti – con le sue dichiarazioni di guerra allo stato e le sue minacce di invadere la zona rossa (sempre la solita fissa dei gesti simbolici) ha mandato al macello, decine di migliaia di dimostranti. Del resto non ci si poteva aspettare che la sceneggiatura affrontasse a 360 gradi tutti i temi che emergono dal ricordo di quel luglio del 2001.

In ogni caso, le reazioni umane la fanno da padrone per tutta la durata di questa cruda pellicola. Mettiamo che gli autori abbiano voluto (oltre che raccontare fedelmente i fatti) fare insorgere conati di vero odio contro gli amministratori in divisa dell’ordine borghese, beh, questo scopo è stato pienamente raggiunto. Infatti si esce dalla sala profondamente incazzati – e, detto senza facili patetismi – anche commossi: non pochi hanno pianto, anche tra i miei vicini di poltrona. La tecnica del regista Daniele Vicari è quella del flashback: spesso ci sono come dei salti all’indietro che rimandano a scene già accadute e come lasciate in sospeso: è come schiacciare sul telecomando del lettore dvd il tasto che rimanda alla scena precedente. Il film inizia con spezzoni degli scontri del 21 luglio, all’indomani della morte di Carlo Giuliani. I protagonisti iniziali sono un gruppo di appartenenti ai Black Bloc: questi dopo essere riusciti a scappare si rifugeranno in un bar proprio di fronte alla Diaz appena prima dell’arrivo dei poliziotti, ottenendo il permesso dal proprietario di rimanere nascosti durante la notte.

Il film ricostruisce molto bene anche i tentativi di seminare in giro per Genova prima e alla Diaz poi, prove artificialmente costruite che dessero il pretesto di intervenire. È emblematica la telefonata di un’esponente della Digos a un rappresentante del Social Forum, allo scopo di carpire informazioni sull’ipotetica presenza dei Black Bloc all’interno della Diaz. Alla domanda “Come posso escludere tra centinaia di persone che ci possano essere anche loro?” segue la risposta del digossino con un sorriso soddisfatto: “Ah quindi non lo esclude?”, e da qui l’inizio delle operazioni. La dice tutta anche la scena delle molotov che gli sbirri si passano di mano in mano e che finiscono poi in mezzo agli altri “reperti” che i tutori dell’ordine non vedranno l’ora di mostrare alle macchine fotografiche della stampa, per legittimare il loro intervento. Allo stesso scopo, e in un’altra scena viene mostrato, verranno richieste decine di referti medici fasulli per ferite o contusioni (mai) subite da parte degli appartenenti alle forze dell’ordine. Dal momento in cui il blindato della polizia sfonda i cancelli alle battute finali del film, sono dominanti la crudeltà e le sevizie.

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Tutto è perfettamente in linea con gli atti processuali e con le testimonianze raccolte nel corso degli anni. Il terrore delle persone chiuse all’interno dello stabile, il rifugiarsi negli angoli ritenuti più al sicuro dalla furia dei celerini, il salire i vari piani dell’edificio sperando di allontanarsi dal pericolo, l’illusione che alzare le mani in segno di resa potesse essere garanzia di incolumità, e soprattutto la bestialità di quelli che una volta varcata quella soglia ne sono usciti sporchi di sangue. A cadere sotto i tonfa non solo i giovani manifestanti dei giorni precedenti l’irruzione, ma anche il giornalista (di destra!) che per puro dovere di cronaca voleva essere vicino ai fatti e che per puro caso si trova dove non dovrebbe (interpretato da Elio Germano) o l’anziano tesserato al sindacato, che perfino nel letto d’ospedale viene schernito da un poliziotto e si sente dire “Nonno, ma che cazzo ci facevi con le zecche comuniste?”. E’ un macello, nessuna pietà per chi rannicchiato per terra tenta di difendersi dai colpi nascondendosi il viso tra le mani. Il sangue è ovunque, sulle pareti come sui pavimenti. All’arrivo delle ambulanze si inizia a fare defluire i feriti, tra ali di gente che urla “Assassini” agli uomini in blu, mentre i cellulari iniziano a riempirsi di gente destinata al carcere di Bolzaneto. Anche qui altre sevizie, forse ancora più ripugnanti di quelle della Diaz, se non altro perché quella che prima era violenza qua diventa sadismo che si compiace di se stesso. Non sfuggono alla regola nemmeno le poliziotte, che non mostrano la minima compassione nel vedere offesa nella propria intimità una compagna tedesca, e il loro ghigno di soddisfazione nell’assistere alle angherie dei colleghi maschi contro altre donne è una delle cose più odiose di questo film. Ragazzi costretti a stare in piedi per ore contro una parete, o ad attraversare corridoi tra due ali di secondini pronti col manganello a dare loro un saggio di storia sulle forche caudine. Il terrore del secondo gruppo di ragazzi che aspettano fuori da un cancello di entrare nel corridoio, dopo avere visto la sorte di quelli che li precedevano, è un’altra delle cose che restano più impresse. La meta finale dopo Bolzaneto sarà il carcere di Voghera, dove dopo qualche giorno di trattamenti “più umani” gli arrestati saranno messi su un pullman che verrà scortato oltre confine. Dei 300 poliziotti partecipanti all’irruzione negli anni seguenti ne verranno condannati 45, e del resto a pretendere dal potere borghese che colpisca se stesso usando la sua giustizia si rimane delusi.

Lo avevamo detto undici anni fa, quando si parlava di polizia cilena o di fascismo in relazione ai fatti di quei giorni drammatici: no! Era e lo è ancora oggi, quando picchia i disoccupati come i NoTav, i precari come gli studenti, la polizia di uno stato democratico. Che non ha niente da invidiare al fascismo quando si tratta di reprimere con la forza ogni voce che si alza da parte di chi, semplicemente, non è d’accordo. Sono squadracce vestite solamente in modo diverso, ma tra l’altro – almeno per quanto riguarda quel G8 lo si può dire – composte almeno in parte da elementi proprio con quell’impostazione politica, e i compagni costretti a Bolzaneto a urlare “Viva il duce!” ne sono la prova. Ma anche non volendo fare delle generalizzazioni, è fascista soprattutto l’uso che il capitale, democratico o meno, ne fa, a propria salvaguardia. E quindi la repressione sbirresca non è che l’ennesimo buon motivo, oltre a svariati altri come licenziamenti, precarietà, miseria, guerre e sfruttamento, per iniziare a rimboccarsi le maniche e spazzare via questa società dalle radici.

IB
Lunedì, May 14, 2012

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.