I have no dream - Obama: La fine di un sogno mai cominciato

Davvero poche luci sul proletariato: sfruttato peggio di una bestia da soma, angariato, ingannato e beffato dalle sirene che via via compaiono sul palcoscenico della politica politicante borghese. Abilissime, le laide sirene, a promettere mari e monti, a strizzare l'occhio all'immenso esercito degli “ultimi” per comprare con moneta fuori corso le loro schede elettorali su cui costruire o rafforzare il potere per sé e per i propri mandanti sociali. Che sia il miraggio di un “bunga-bunga per tutti” dell'inqualificabile Cavaliere o un rinnovato “american dream”, sogno americano, del “primo presidente nero della storia”, la sostanza non cambia: sempre di garantire lunga vita al capitalismo, si tratta. Ma questi sogni durano lo spazio di un mattino e al risveglio lasciano in bocca il sapore cattivo di una brutta sbornia. Detto in altro modo, delusione, scoramento, sfiducia nella possibilità di cambiare, finalmente in meglio, le cose. L'attuale presidenza americana ne è una manifestazione lampante.

Dopo gli otto anni del re travicello George Bush jr, Obama si presentò come il restauratore delle radici libertarie della superpotenza, il rianimatore del riformismo rooseveltiano che avrebbe traghettato gli Stati Uniti oltre le acque turbinose della crisi, senza lasciare indietro nessuno, anzi, sul traghetto, come un Titanic al contrario, i primi a salire sarebbero stati proprio gli “ultimi” della scala sociale. E il proletariato statunitense votò, se non in massa, certamente più numeroso del solito, a favore dell'ex avvocato di Chicago. Naturalmente, un presidente eletto, come sempre, grazie all'appoggio del grande capitale, che piazza nei posti chiave dell'amministrazione uomini giunti direttamente dalle grandi istituzioni finanziarie, difficilmente può contraddire i suoi sponsor con provvedimenti che, senza essere comunisti, interferiscano con i loro interessi. Così, com'è noto, banche e affini sono state imbottite di soldi “pubblici”, due big dell'automobile pure (GM e Chrysler), purché gli operai accettassero “volontariamente” un contratto di lavoro di stampo nazista. Il risultato è che la speculazione finanziaria ha nuovamente dispiegato le vele (ammesso e non concesso che fossero state ripiegate), ai manager vengono dati compensi favolosi, mentre la disoccupazione, quella vera, è attorno al 17%, i salariati arrancano per arrivare a fine mese e, in numero crescente, non hanno nemmeno più un tetto sopra la testa. Secondo alcune stime, e stando così le cose, a fine 2011 altri due milioni di famiglie si vedranno pignorare la casa, il che porterebbe il totale dei nuclei familiari espropriati dalle banche a cinque milioni di unità. D'altra parte, se le rate dei mutui assorbono il 63% del reddito lordo, se i salari/stipendi non solo stagnano, ma arretrano, il dramma sociale dei pignoramenti rientra perfettamente nella logica delle cose... capitalista. Non solo è logico, ma niente fa pensare che la tendenza si possa invertire, a dispetto delle prescrizioni riformiste che vorrebbero superare la crisi con il rilancio dei consumi attraverso l'aumento degli stipendi. Il capitale ha ampiamente dimostrato che l'unico riformismo cui oggi si possa concedere diritto di cittadinanza è quello a favore del capitale medesimo; ha provato a ingannare se stesso, a eludere cioè le leggi dell'accumulazione, per esempio, incentivando il consumo fondato sul debito - il 40% del PIL statunitense è dato dal consumo - ma, ancora una volta, il rimedio si è dimostrato peggiore del male. Allora, avanti con le solite, care ricette di sempre: facciamo pagare la crisi al proletariato e, perché no?, a una parte della piccola borghesia. Come? Taglio dei salari/stipendi, taglio dei servizi sociali, prelevamenti, cioè, sul salario indiretto e differito. Se poi ci sarà taglio delle tasse, secondo quanto vanno predicando i riformisti di cui sopra, intanto si comincia o si difende quello sui ricchi. Infatti, a prescindere dal fatto che, in sé, la diminuzione delle imposte comporta una minore erogazione di servizi sociali, finora, chi ha beneficiato di quella misura sono stati i più abbienti e Obama ha confermato la politica fiscale del suo predecessore, che andava appunto in tal senso. Poi, ha congelato per due anni gli aumenti di stipendio agli statali - dimostrandosi, però, un dilettante a confronti del “nostro” governo, che li ha bloccati per tre anni e oltre - .

Ma la crisi stenta a togliersi di torno e nel 2011 il deficit federale dovrebbe arrivare al 10,9% del PIL - 1650 miliardi di dollari - e allora, nella bozza di legge finanziaria, calerà di nuovo la scure sugli stessi, anzi, in particolare sugli “ultimi degli ultimi”, cioè sugli strati più poveri del proletariato statunitense. «200 programmi federali di carattere sociale subiranno sforbiciate invalidanti; compreso il Medicare (la già debole sanità pubblica)» (T. De Berlanga, il manifesto, 2 febbraio 2011), a cui si aggiungeranno minori finanziamenti per i college frequentati, in genere, dal proletariato afroamericano, e per le borse di studio “godute” per lo più dallo stesso settore della popolazione. Non male, per un presidente “nero” e riformista!

Anche la NASA e il Pentagono avranno meno risorse, ma certo non in misura tale da compromettere l'operatività della politica imperialista. Pare, invece, che le uniche voci di spesa in aumento riguarderanno le infrastrutture - come i treni superveloci, il potenziamento della “rete” (wireless, banda larga, ecc.), che però significa anche più controllo sulla stessa - la formazione e la ricerca (di cosa, non è al momento chiaro) - . Non manca la famigerata green economy, che dovrebbe essere incoraggiata grazie anche tassa - nulla di straordinario, niente paura - sulle attività delle compagnie petrolifere e dei combustibili fossili in genere.

Basterà tutto questo per rimettere in carreggiata l'economia reale statunitense? Nutrire qualche dubbio è quanto meno lecito...

Nessun dubbio, invece, su chi continuerà, appunto, a pagarne il prezzo, a meno che andando oltre la protesta silenziosa di un astensionismo sterile, che favorisce solamente l'una o l'altra gang borghese - il trionfo repubblicano alle elezioni di mid term si spiega in buona parte con i 45 milioni di votanti in meno - il proletariato, con la sua lotta di classe, non sparigli le carte truccate della partita.

CB, 2011-02-21

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.