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L’oro nero, alimento ancora vitale per il capitalismo
Il mercato dell’oro nero
Una merce base quale è il petrolio per la produzione e per la distribuzione nella società capitalistica, è stata al centro delle recenti devastanti speculazioni finanziarie, con le Borse di New York e di Londra da tempo impegnate nella compra-vendita di titoli pronti contro termine, basati sul commercio di questa fondamentale materia energetica. I loro movimenti incontrollabili e le quotazioni dei futures al New York Mercantile Exchange hanno generato sia vertiginosi aumenti del prezzo del greggio sia improvvise cadute.
La colossale bolla speculativa da parte degli hedge fund (1) ha fatto da scenario fino a più della metà del 2008 ai prezzi del petrolio, che hanno toccato il loro top storico l’11 luglio dell’anno scorso: 147,27 dollari al barile in tutte le transazioni internazionali. Il colpo di maglio assestato dalla crisi economico-finanziaria “globale” ha poi fatto precipitare i consumi energetici e sgonfiato vertiginosamente la bolla speculativa, portando in poche settimane al crollo dei prezzi del greggio, addirittura scesi al di sotto dei 50 dollari. Un prezzo, comunque, che raddoppiava quello attorno ai 22 dollari al barile del 2002.
In concomitanza con la crisi che sta sconvolgendo l’economia capitalistica, la produzione mondiale di petrolio è in calo: secondo dati di diverse fonti, dal gennaio 2005 alla fine del 2008 la produzione mondiale media di greggio è oscillata tra i 73 e i 74 milioni (mln) di barili al giorno (b/g). Ultimamente si sarebbe attestata attorno ai 72 mln di barili. (Il barile contiene 158,97 litri che costituiscono l’unità di misura delle quotazioni. Sono corrispondenti a 42 galloni dei vecchi barili di legno utilizzati 150 anni fa per la vendita di whisky in Pennsylvania.) Gli Usa, in particolare, hanno diminuito il loro consumo dai circa 20 mln di b/g, nel 2004, ai 19,6 mln nel 2008 (fine dicembre). I Paesi OCSE registrano un calo dai 47,5 mln di b/g nel 2004 ai circa 46 nel 2008.
La precedente scalata del prezzo del WTI (West Texas Intermediate, il light crude, il più facile da raffinare e di maggiore resa), cioè del greggio di riferimento nel Nord America sul circuito delle quotazioni Nymex, è stata a tutti gli effetti clamorosa. Altrettanto per il Brent del Mare del Nord, molto pregiato, e per le quotazioni del greggio del “paniere Opec”. Quest’ultimo è il petrolio proveniente dai 10 paesi aderenti all’Opec (va ora aggiunto l’Iraq dopo la sua “liberazione” e il magnanimo dono della “democrazia” ricevuto da Washington); un greggio quasi tutto di tipo medium o heavy iour, meno pregiato a causa del suo alto contenuto di zolfo. E per avere benzina a prezzi concorrenziali bisognerebbe ottenere bassi costi di raffinazione usando petrolio “leggero”, sweet light, con poco zolfo: lo si trova in Libia, Nigeria e Golfo Persico.
Rendite e profitti astronomici
Il giro di affari attorno al petrolio, materia prima strategica, è stato e rimane colossale con un fatturato mondiale annuale da migliaia di miliardi (mld) di dollari. Cifre da raddoppiare calcolando anche i prodotti raffinati del petrolio e includendovi le tassazioni. Il direttore a Parigi del Cambridge Energy Research Associates (CERA) stimava tre anni fa in 500 mld di euro i costi di produzione, trasformazione, raffinazione e distribuzione; in 1.000 mld di euro le imposte petrolifere nei paesi consumatori; in 500 mld di dollari le rendite petrolifere complessive. Nonostante gli alti e bassi del mercato, è evidente l’importanza dell’affare petrolio nell’economia capitalistica ma anche il peso politico da esso esercitato - soprattutto nella fase storica attuale - all’interno dei rapporti imperialistici fra le grandi potenze. Inevitabilmente, il gioco è durissimo, con in testa gli Stati Uniti attorno ai quali si attiva la “concorrenza” di interessi delle altre grandi potenze capitalistiche, fra le quali - oltre la Russia - viene avanti la Cina, a breve seguita dall’emergente India. Il consumo cinese dei prodotti energetici mondiali ha raggiunto il 15%; in un decennio il suo consumo di petrolio è passato dai 3,4 ai 7milioni di b/g.
Le multinazionali eredi delle famose “sette sorelle”, così come gli ambienti finanziari interessati al commercio di questa fondamentale materia prima e quelli dell’intermediazione di Wall Street e di Londra, hanno tratto fin qui guadagni enormi. Lo stesso per le compagnie europee a grande capitalizzazione, come il colosso anglo-olandese Royal Dutch-Shell, la spagnola Repsol, la norvegese Statoli (che sta puntando anche sul giacimento russo di gas offshore di Shtokman) e la Norsh Hydro, anch’essa norvegese e da tempo interessata alla costruzione di un gasdotto tra Russia e Germania in collaborazione con la russa Gazprom, la tedesca Basf e altre società del settore.
L’italiana Eni ha visto i propri affari procedere a gonfie vele, grazie soprattutto alle alte quotazioni toccate del petrolio nelle scorse annate e ai notevoli margini risultanti dalla raffinazione. Oltre ad alcune “strategiche acquisizioni all’estero”, sono andati a regime i giacimenti in Libia, Angola, Kazakistan, Algeria e Iran. Profitti alle stelle anche per gli altri petrolieri italiani, come l’Erg dei Garrone, la Saras di casa Moratti, la Api dei Brachetti Peretti (che ha rilevato i distributori Ip dall’Agip).
Gli utili delle maggiori imprese
Tutte le grandi compagnie petrolifere hanno moltiplicano negli ultimi anni gli utili e le possibilità di finanziare investimenti, specialmente in ricerche per più adatti sistemi di estrazione, scoperte e trivellazioni di nuovi pozzi e innovazioni tecnologiche (come sta facendo la Exxon Mobil nel Qatar per la riconversione del gas naturale in un tipo di combustibile diesel).
Negli ultimi mesi del 2005 la Exxon Mobil, numero uno delle compagnie dell’energia, aveva realizzato i più alti utili nella storia del capitalismo: ricavi da 100 mld di dollari in tre mesi, un utile di 9,92 mld, una redditività in aumento del 75%. Un profitto, a conti fatti, di 74,879 dollari al minuto... Lauti guadagni anche per lo Stoxx Oil & Gas, guida degli indici di settore, e per il Msci Energy; ottimi affari per gli armatori internazionali e i titoli legati alle principali petroliere e navi cisterna (Ship Sfinante International e Omi Corp) e per tutti i trafficanti dell’oro nero.
Qualche difficoltà è sorta - anche per la stessa Arabia Saudita, maggiore esportatrice di greggio che nelle casse saudite hanno portato circa 104 mld di dollari l’anno - a causa delle gigantesche spese a cui i paesi del Medio Oriente vanno incontro per mettere in sicurezza i propri impianti e le pipeline, obiettivi particolarmente cari all’attenzione dei vari terrorismi in azione sullo scacchiere internazionale. A sua volta però, anche questi lavori supplementari costituiscono di per sé un grosso business. E in generale, nel Medio Oriente le borghesie arabe godono di vantaggi enormi, quelli di un’altissima rendita differenziale derivante dal rapporto dei loro bassi costi di estrazione del petrolio con quelli, molto più elevati, di altre aree. Un barile di greggio “arabo” costa al massimo 5 dollari (nell’Arabia Saudita in molti giacimenti si può scendere fino a un solo dollaro) rispetto ai 15 del Texas.
I paesi produttori reclamano fette più grandi
Quasi tutti i Paesi produttori di greggio, a cui attingono le maggiori potenze industriali, hanno intanto cominciato a reclamare fette più grandi della “ricchezza” immessa sul mercato. Le condizioni estremamente favorevoli, fin qui godute da molte compagnie energetiche straniere, hanno subito o stanno subendo un forte giro di vite da parte dei governi di paesi come il Venezuela, Kazakistan, Nigeria, Algeria, Bolivia, Ecuador. I profitti record ottenuti dalle compagnie petrolifere multinazionali private hanno risvegliato l’appetito delle borghesie locali e dei loro governi, che ora cercano di meglio far fruttare il loro potere contrattuale.
Facendo presto la voce del più forte, anche la Russia nel corso degli ultimi cinque anni ha ricompattato il controllo politico e la gestione finanziaria delle proprie immense risorse energetiche. Con grandi vantaggi per la sua bilancia commerciale, Mosca ha aumentato le imposte sulla produzione e sulle esportazioni per il greggio e nel contempo ha messo in atto manovre per dare maggiori poteri alla compagnia pubblica Gazprom. Così il Kazakistan, ex repubblica sovietica, sta applicando una linea sempre più rigida; in Nigeria, il maggiore esportatore di petrolio del continente africano, il governo ha imposto nuovi diritti di sfruttamento e ha reso più restrittivi i contratti per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi offshore. Il Venezuela ha potenziato la compagnia petrolifera statale, la Petroleos de Venezuela, ha aumentato le tasse e i diritti di sfruttamento e modificato i contratti a lungo termine con le multinazionali.
I prezzi del mercato
In aumento o in discesa, la trasparenza sui prezzi dell’oro nero rimane pur sempre una chimera. Il mercato mondiale del greggio ha un suo riferimento in termini di costo medio con il Brent del Mare del Nord. Ma si tratta di una varietà di petrolio che oggi costituisce circa l’1% della produzione mondiale giornaliera, in confronto con altre più abbondanti e meno costose qualità di greggio. Il potere oligopolistico dominante nel settore riequilibra il tutto a proprio vantaggio, giocando anche su una informazione/disinformazione riguardante i dati della effettiva quantità disponibile sia di produzione che di riserve. Basterebbe una diffusione di dati meno rassicuranti (certamente più realistici) di quelli che ufficialmente vengono fatti circolare, per far cadere nel panico un mercato ultrasensibile come quello petrolifero. Significativo l’episodio della Royal Dutch/Shell che tempo fa ammetteva di aver gonfiato le cifre delle sue riserve del 23% nel 2002.
Anche i paesi dell’Opec, hanno interesse a gonfiare certe stime fatte circolare sui mercati, a dichiarare l’esistenza di riserve tanto abbondanti quanto poco reali e capacità estrattive superiori alle loro prestazioni. I dati forniti sono per lo più arbitrari e di comodo; con manipolate previsioni, si possono attrarre investimenti, ottenere prestiti, aumentare le esportazioni in rapporto alle riserve “ufficialmente” dichiarate ed elevare il valore dei giacimenti e dei pacchetti azionari delle compagnie. Così l’Opec non comunica le esatte quantità di greggio estratte da ogni giacimento, né i metodi usati. Sono un segreto, gelosamente custodito, anche le condizioni dei giacimenti. Le quote assegnate ai Paesi associati si baserebbero a questo punto sulle riserve complessive: più alte sono quelle di un dato paese, più alta è la quota e maggiori i ricavi. L’Arabia Saudita, in particolar modo, sembra gonfiare di molto le sue riserve (240 bilioni di barili?). Nello stesso tempo, però, l’Opec è interessata a contenere le quantità massime di petrolio estratto dai giacimenti, al fine di non accelerare più del dovuto l’esaurimento delle riserve presenti nei paesi ad essa aderenti.
Le decisioni dell’Opec
L’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC, istituita nel 1960 a Baghdad), detiene il 74% delle riserve mondiali di petrolio e produce il 41% del greggio totale (i gruppi multinazionali producono il 16% del petrolio mondiale pur possedendo solo il 6% delle “riserve provate”). Con la facoltà di negoziare con le compagnie petrolifere sia produzione che concessioni e prezzo del greggio, nel 2005 l’Opec aveva aumentato la propria produzione portandola da 27,5 mln di b/g a 28 mln con forniture che coprivano quasi il 40% del greggio globalmente consumato. Altri successivi aumenti si aggirarono attorno ai 300mila b/g, dilatabili - secondo altre disposizioni - fino a 500mila b/g. Nel corso del 2008 la produzione è diminuita complessivamente di 4,2 mln di b/g (in realtà sembra che tale riduzione sia stata attuata solo fino all’80%). I paesi aderenti all’Opec hanno tuttavia venduto, fino all’anno scorso, circa 30 mln di b/g, producendo più delle quote ufficiali assegnate dall’Opec stessa ad alcuni dei dieci Paesi soci, come nel caso dell’Arabia Saudita e del Kuwait, con l’incognita di una capacità di produzione non utilizzata valutata negli anni scorsi in soli 1,5 mln di b/g di greggio e in gran parte di qualità pesante.
Sempre a proposito dell’Arabia Saudita, si sono diffuse anche voci di giacimenti in via di esaurimento in tempi non molto lunghi; la federazione degli Emirati Arabi Uniti ha invece annunciano riserve petrolifere “accertate” per oltre 100 mld di barili, con un output che sfiora i 2,5 mln di b/g. Sempre per l’Arabia Saudita va detto che l’Aramco, la compagnia petrolifera di Stato, fornisce dati difficilmente verificabili, come l’apertura di nuovi siti di perforazione e di programmi per aumentare complessivamente la capacità estrattiva di petrolio di 3 mln di b/g.
Una cosa è certa: fra alti e bassi, fra annunci pessimistici e altri ottimistici, il surplus delle bilance correnti dei Paesi dell’Opec è aumentato a vista d’occhio negli ultimi anni. Una massa enorme di petrodollari (ma oggi anche di euro) che ha girato e gira per il mondo, acquistando quote societarie (Daimler-Chrysler e il gruppo _Tussauds_i) offrendo super-offerte. Così la Dubai Port World, controllata dagli Emirati Arabi Uniti, si è assicurata, in contanti valuta euro, il controllo della prestigiosa P&O, Peninsular and Oriental Steam Navigation Company, gruppo leader nel mercato dei trasporti marittimi inglesi. Gran parte dei guadagni petroliferi è poi finito, almeno fino a tempo fa e seguendo i movimenti dei tassi americani, nelle casseforti delle Banche di New York, Londra e Zurigo e nei grandi fondi con titoli pubblici in dollari, sostenendo così il biglietto verde e il debito estero americano. Certamente oggi il dollaro non la fa più da padrone assoluto come nel passato, e subisce la pressione dell’euro...
Effetti sui prezzi
Durante la crisi petrolifera degli anni Settanta, i prezzi del petrolio si aggiravano attorno ai 40 dollari al barile; successivamente salirono fino a 75 dollari. Va considerato però che gli effetti di quegli aumenti furono certamente maggiori dei successivi rialzi poiché l’intensità energetica necessaria alla produzione - per esempio, di un dollaro di Pil - si è da allora quasi dimezzata. D’altra parte, la crisi strutturale del capitalismo si è aggravata negli ultimi anni e quindi le ripercussioni di aumenti registrabili sul mercato petrolifero diventerebbero altrettanto pesanti nel quadro economico mondiale.
Va considerata anche la “sensibilità” delle quotazioni del greggio ad ogni avvisaglia di possibili aumenti delle tensioni internazionali o comunque di accadimenti che direttamente o indirettamente possano incidere sull’offerta mondiale del petrolio. Un fatto provato in più di una occasione. Alla morte del “Custode delle due Moschee Sante di Mecca e Medina”, re Fahd dell’Arabia Saudita, i prezzi del greggio schizzarono verso nuovi “massimi storici”. Così pure, per cause più... concrete, in occasione dell’uragano Katrina che verso fine agosto 2005 colpì una regione degli Stati Uniti di importanza centrale per gli approvvigionamenti petroliferi, facendo balzare il prezzo del greggio a 70,87 dollari il barile. Il Golfo del Messico è essenziale per l’estrazione di greggio, che improvvisamente crollò del 90% quando una ventina di attrezzature e piattaforme petrolifere andarono disperse. In conclusione: milioni di barili settimanali di petrolio in meno, con l’aggiunta di molte raffinerie fuori uso e la paralisi degli impianti petrolchimici vicini al Mississippi, da cui uscivano i prodotti raffinati: benzina per auto, gasolio per diesel e riscaldamento, kerosene per aerei. Seguì una impennata del costo del carburante e una sua carenza in varie zone del paese. Con molti pozzi offshore fuori uso assieme al terminale petrolifero di New Orleans e a centinaia di chilometri di pipeline, il governo americano fu costretto a ricorrere alle riserve strategiche.
Sono sempre attuali anche i problemi di raffinazione e trasporto, quello cisterniero in particolare dove si paventa il rischio di un insufficiente naviglio qual è quello attualmente a disposizione. Una nota a parte riguarda il problema delle molte raffinerie inadatte a trattare quel greggio, con alto contenuto di zolfo, che va aumentando sul mercato. In tutto il mondo, la maggior parte delle raffinerie (il 50% in Europa, il 35% in Usa, l’80% in Cina) sono in grado di trattare il greggio leggero ma non quello pesante, solforoso, la cui lavorazione è molto più costosa: difficili sostenere una forte domanda. A fine luglio 2005, è bastato l’incendio di due raffinerie, una nel Mare del Nord e l’altra a Texas City, perché immediatamente il prezzo del petrolio salisse oltre i 60 dollari al barile.
Queste situazioni vengono abilmente sfruttate da chi manovra le principali leve del lucroso mercato petrolifero, con operazioni speculative ad “alto rendimento” e accaparramenti di scorte che gonfiano le quotazioni. Dopo i famosi attentati di Londra (7 luglio 2005), fonti di Zurigo hanno fatto riferimento ai “cambiamenti d’umore” di alcuni grossi investitori del Medio Oriente, banche centrali e compagnie petrolifere statali: si sarebbero posizionati “lunghi” (cioè vendendo dollari contro euro) nei confronti della valuta europea.
Gli americani guardinghi
Questa delicata situazione è attentamente seguita dagli Usa, dopo l’esperienza di ciò che accadde più di tre decenni fa, quando la guerra del Kippur (1973 - Egitto e Siria contro Israele), i ministri arabi dell’Opec ridussero del 5% le esportazioni mensili di petrolio verso chi non sosteneva egiziani e siriani, minacciando un embargo totale verso gli Usa. Il prezzo del greggio aumentò allora di quattro volte; con la rivoluzione iraniana del ‘79 raggiunse i 90 dollari (di oggi) al barile. Da quel momento, se il prezzo doveva essere stabilito dalla politica, a manovrarlo ci penserà Washington. Come e con quali mezzi lo si sarebbe presto visto, dalla “rivoluzione islamica” in Iran (1978-’79) alla guerra Iran-Irak (1980-’88), dalla prima guerra del Golfo (1990-’91) alla seconda (2003). Oggi la tensione attorno all’oro nero è sempre altissima, nonostante la crisi industriale che ne ha ridotto i consumi; con l’aggiunta della componente terroristica, cioè con la concreta minaccia di attentati agli stessi terminali di tank (navi petrolifere fino a 100.000 tonnellate), gli Usa temono più che mai interferenze nei loro controlli e nei loro traffici.
Consumi in crescita
La domanda di petrolio, materia prima fondamentale per l’economia capitalistica e per il dominio finanziario-militare-politico dell’imperialismo (Usa in testa), è destinata a crescere, non fosse altro che per i probabili conflitti bellici, oggi in gestazione. Poiché alcuni giacimenti mondiali hanno cominciato la fase di un loro esaurimento, lento ma inesorabile, mostrando segni di stanchezza geologica, in generale sia l’estrazione che il trasporto del greggio tenderanno a farsi ovunque più difficoltosi, richiedendo investimenti sempre più giganteschi. I costi d’estrazione, in condizioni di particolare difficoltà, possono arrivare anche fino a punte di 30/40 dollari al barile, mentre la reperibilità di nuovi giacimenti dell’oro nero si fa più difficoltosa di anno in anno.
Siamo in presenza di un consumo mondiale di petrolio con vette di circa 84,5 mln di b/g; oggi in lieve calo, potrebbe risalire se si concretizzasse ro le ottimistiche previsioni di alcuni analisti su una ripresa (momentanea e preparatoria di nuovi tracolli...) della produzione e del commercio capitalistico. Entro il 2030 c’è persino chi guarda ad un complessivo consumo mondiale di petrolio di almeno 130 mln di b/g. Questo anche se al momento non si possa escludere un ridimensionamento-risparmio dei consumi interni energetici degli Usa (quelli giornalieri per abitante, in litri di petrolio, sono molto alti); da notare pure che in molti paesi concorrenti degli Usa il consumo energetico incide ancora notevolmente sui costi di produzione delle loro merci (la Cina, per produrre un dollaro di Pil, consumava fino a due anni fa quasi il doppio del greggio usato negli Usa. Una diminuzione sembra ormai prossima.)
Costi estrattivi
Intanto, e rispetto ad una decina d’anni fa, i costi per trovare ed estrarre petrolio sono in media triplicati; i ritrovamenti in mare sono passati dai 200 metri di profondità ai 3000 metri; le aree di perforazione si sono ridotte del 20-25%. Là dove gli alti costi di estrazione avevano fino a ieri reso problematico e poco conveniente il lavaggio e la bollitura di enormi quantità di sabbia oleosa per separare il bitume dal quale si estrae petrolio pesante, oggi invece le compagnie canadesi, americane e inglesi hanno intensificato ricerche e investimenti. Vedi gli scavi nelle aree impervie, nelle acque profonde e nei bitumi sabbiosi verso i quali si stanno indirizzando perforazioni ed estrazioni (Athabasca, Orinoco, ecc.). L’estrazione del greggio dai giacimenti sotterranei, in condizioni normali, ha un costo industriale di pochi dollari; l’estrazione del petrolio dalle sabbie costa invece dagli 8 ai 13 dollari al barile. La differenza è notevole, ma sia la domanda sia i prezzi sul mercato hanno spinto le società petrolifere (come Exxon-Mobil, Chevron, Shell e Conoco-Philips) ad impegnarsi nella realizzazione di impianti che, anche se diventeranno redditizi solo fra una decina d’anni, garantiranno sicuramente il recupero degli investimenti e lauti profitti. Soprattutto dopo che le sabbie bituminose (ampi giacimenti si trovano in Canada) hanno cominciato ad essere calcolate come riserve energetiche da parte di alcune agenzie internazionali. Rimane l’impatto ambientale negativo: degrado di vaste zone per gli scavi e la rimozione di grandi masse di sabbia, spreco di gas per riscaldare enormi quantità d’acqua con relativo inquinamento idrico. Ma questo, per il capitale e le royalties petrolifere, conta ben poco.
Le riserve mondiali
Secondo stime più o meno ufficiali, elaborate alla fine del 2006, in poco più di mille mld di barili (fra i 1.050 e i 1.270) venivano valutate le riserve petrolifere mondiali ancora contenute nel sottosuolo, accessibili con le normali tecnologie di estrazione. Qualche voce più ottimista si è spinta ad una valutazione di circa 2.600 mld di barili ancora da estrarre nei depositi globali del pianeta. Di fatto, sono molte le aree in cui oggi si estrae petrolio ma raramente se ne trovano di nuove. La maggior parte delle scoperte di giacimenti da sfruttare si è verificata negli anni Sessanta e non si è più ripetuta nei successivi decenni.
Gli approvvigionamenti di greggio, seguendo le attuali mappature geologiche, dovrebbero essere garantiti, secondo alcuni, per una quarantina d’anni supponendo però un consumo annuale stabile che non superi i 25 mld di barili. Una previsione, dunque, che si basa su una domanda mondiale complessiva di petrolio che non si alzi, non avvicinandosi ad altre stime più o meno ufficiali le quali - grazie alla ripresa economica tanto auspicata e desiderata dagli apologeti del capitalismo - danno invece una crescita del consumo di petrolio fino a 40 mld di barili all’anno verso il 2020. Il Mellon Global Investment prevedeva addirittura in un suo rapporto, naturalmente prima della crisi attuale, un aumento della domanda mondiale del 60% da qui al 2030.
Anche l’Agenzia Internazionale dell’Energia non ha nascosto le proprie preoccupazioni sul futuro eccessivo consumo del greggio mondiale; non è mancato pure chi - come il Cambridge Energy Research Analysts in un suo studio rimesso nei cassetti dopo l’eplodere della crisi - ha azzardato una previsione di forte crescita della produzione di greggio con una conseguente discesa dei prezzi: addirittura ipotizzando una produzione mondiale di 101,5 milioni di b/g entro il 2010. A convalidare queste “speranze” coltivate all’ombra degli ultimi boom finanziari, vanno ricordate anche le stime della US Geological Survey (USGS), secondo le quali alle “risorse provate” andrebbero aggiunti oltre 700 mld di barili di petrolio recuperabile con miglioramenti tecnici, e circa altri mille mld di barili ancora da scoprire. Quanto basterebbe per “sognare” sviluppi senza freni della produzione e del consumo capitalistico. Sogni disturbati oggi da spettrali visioni...
Si avvicina il “picco di Hubbert”
La maggior parte degli esperti del settore ha tuttavia raffreddato i bollenti spiriti del capitale, ansioso di riprendere la spinta di uno sviluppo senza freni, paventando l’ormai prossima vicinanza al “picco di Hubbert”, cioè alla vetta della produzione petrolifera e determinato dal basso tasso di scoperta di nuovi giacimenti da classificare fra le riserve delle compagnie petrolifere. I più recenti giacimenti portati alla luce cominciano a coprire a malapena i consumi; certamente il pianeta abbonda ancora di combustibili fossili, ma aumentano le difficoltà e i costi di sfruttamento, specie dei giacimenti marginali più piccoli. Ed anche un giacimento enorme come il Ghawar saudita, scoperto nel 1948 e considerato il più grosso complesso petrolifero al mondo, richiede ogni giorno l’iniezione di 7 mln di barili di acqua salata per poter continuare ad estrarre petrolio. Non solo il giacimento è a rischio per il suo eccessivo sfruttamento, ma preoccupante è la contaminazione dell’acqua nell’area e, soprattutto per gli interessi in gioco, l’aumento dei costi di produzione.
Già iniziata o prossima a venire, la fase di declino della produzione mondiale di petrolio è comunque certa anche in presenza di una relativa riduzione, momentanea e limitata solo a quelli civili, dei consumi. Si diffonde l’impressione piuttosto generalizzata di una raschiatura del fondo del barile ormai iniziatasi per tutti. In paesi non appartenenti all’Opec, come Norvegia, Gran Bretagna e Cina, i giacimenti si stanno esaurendo, mentre bacini produttivi importanti, come il Mare del Nord, il Golfo del Messico, le zone offshore dell’Africa occidentale e molte delle zone produttive dell’Asia sud orientale, sono state esplorate quasi per intero.
Altri dubbi, allarmanti, sono quelli sulla capacità di estrazione giornaliera, vale a dire la quantità di greggio che può essere pompata quotidianamente per soddisfare la domanda, a fronte di una produzione di greggio che potrebbe cominciare ben presto a declinare in alcuni giacimenti. Secondo stime della Energy Information Administration Usa, nel 2010 - sempre a seguito di una ipotesi di ripresa industriale - le capacità della industria estrattiva petrolifera si troverebbero in difficoltà, portando sicuramente a nuovi e devastanti aumenti dei prezzi. Se poi dovesse venir meno anche l’ottimistica speranza di una stabilità politica delle aree petrolifere e di una sicurezza delle arterie di distribuzione, sarebbero veramente grossi problemi per tutta l’economia capitalistica.
Già ora - come già detto - l’estrazione del petrolio dal sottosuolo avviene in buona parte pompando sempre maggiori quantità d’acqua o gas nel giacimento per aumentare la pressione naturale che spinge il greggio in superficie. Con l’acqua, il petrolio risulta meno vischioso e scorre più velocemente. Ma un eccessivo sfruttamento dei giacimenti potrebbe portare presto a un crollo improvviso della produzione, con quantità di petrolio che restano intrappolate nel sottosuolo da rocce e sedimenti. E scavare dei nuovi pozzi e costruire oleodotti e impianti di lavorazione non è un’operazione facile e neppure rapida: nelle condizioni attuali metterebbe in seria difficoltà l’industria petrolifera mondiale, a corto di ingegneri in grado di gestire i progetti, dei necessari equipaggiamenti e degli indispensabili strumenti e materie prime (trivellatrici e acciai). L’impossibilità di bruciare nell’atmosfera i gas associati all’estrazione del petrolio, costringe a più lunghi tempi di sviluppo lo sfruttamento dei nuovi giacimenti, molti dei quali sono anche più complessi, più piccoli e più difficili da utilizzare con profitto.
Quella che maggiormente si sta evidenziando è dunque una riduzione della capacità produttiva globale non soltanto di petrolio ma delle varie fonti fossili. In tutte le filiere energetiche, dal petrolio al gas naturale e al carbone (che si ripresenta sul mercato). E per il petrolio, ritornano in campo non solo le complicazioni derivanti dall’aumentata difficoltà di estrazione, ma anche gli alti costi delle perforazioni e della messa in attività dei pozzi: l’IEA di Parigi calcola in almeno 70 mln di dollari, difficili da reperire, la somma annualmente necessaria per gli investimenti. Senza investimenti “giusti”, le ristrettezze nei rifornimenti saranno nuovamente inevitabili.
Ma investire in grandi strutture di base richiede pianificazioni decennali e adeguati profitti per “premiare” gli sforzi iniziali. Profitti che si trasformerebbero in perdite se i prezzi non fossero al rialzo. (L’Opec - prima del “tracollo” del greggio sui mercati, aveva individuato in 70/80 dollari al barile un prezzo ideale, in grado cioè di sopportare costi e investimenti in aumento.) I rischi sono alti, tali da spingere a molta cautela negli investimenti; inoltre, le fusioni e acquisizioni societarie verificatesi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, hanno già assorbito ingenti somme finanziarie.
Uno sguardo all’Iraq
Le riserve di greggio sarebbero valutate per 112,5 mld di barili; con l’occupazione americana le esportazioni sono però ancora inferiori ai 2,2 mln di b/g esportati durante il periodo dell’embargo. Dati recentemente forniti dal Ministero del petrolio irakeno davano nel gennaio 2009 addirittura una media giornaliera vicina soltanto a 900 mila b/g, dopo che a metà 2008 la media era salita a 1,65 milioni di b/g. Da notare che il bilancio statale per il 2009 è stato impostato in Iraq sul presupposto di una esportazione di 2 mln di b/g ad un prezzo di 80 dollari al barile...
Da parte loro, BP, Shell ed Exxon Mobil mirano a monopolizzare il petrolio irakeno sottraendone il controllo all’Opec. Occorrerebbero però almeno 5 mld di dollari di investimento per riportare le estrazioni di greggio pari a quelle di 3,5 mln di b/g precedenti la prima Guerra del Golfo. Oggi, terroristi e combattenti vari permettendolo, si può arrivare al massimo a 2 mln di b/g. Gli impianti di pompaggio, le raffinerie e i terminali necessitano di urgenti manutenzioni straordinarie e ammodernamenti; gli oleodotti di continue riparazioni: la Compagnia nazionale, Iragi National Oil, reclama insistentemente le forniture di macchinari e tecnologie avanzate. Un’analisi del Centro Campagna di Lilliput ha stimato dai 30 ai 50 mld di dollari l’anno gli investimenti necessari.
Va ricordato che dal 1996 (quando fu varato dall’ONU il Programma Oil for food (“petrolio in cambio di cibo”) per permettere all’Iraq di Saddam l’acquisto di cibo e medicine sul mercato internazionale vendendo quote predeterminate di petrolio nonostante l’embargo, il flusso di dollari incassati da Saddam ammontò a circa 103 mld di dollari, di cui solo 38,7 destinati all’acquisto di cibo e medicinali. Si calcola che Saddam abbia personalmente intascato almeno 1,7 mld di dollari dal Programma e almeno altri 8 da esportazioni “clandestine” (ma a tutti note) verso Giordania, Turchia, Egitto e Siria. E sempre da Saddam si rifornivano per vie traverse gli stessi Usa; attraverso una banca svizzera, l’Iraq di Saddam vendeva petrolio ad aziende occidentali disposte a pagare le dovute tangenti. Lo scandalo Oil for food, venuto più tardi alla luce, ha coinvolto fra gli altri il figlio e il fratello di Kofi Annan (ex segretario generale Onu) in un giro di mazzette da milioni di dollari, con concessioni petrolifere di favore. (Dati da Repubblica e Corsera). Nello scandalo vennero coinvolte 2.253 imprese e centinaia di personaggi (la lista è stata pubblicata dall’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volker), fra cui 112 società italiane. Due inchieste dei magistrati coinvolgevano anche R. Formigoni (Milano) e ad A. Giangrandi (Livorno). A bocce ferme sono venuti allo scoperto contratti di forniture di combustibili in Iraq, che sarebbero stati assegnati dal Pentagono, nel marzo 2004 e per oltre 72 mln di dollari, ad una società giordana che solo pochi mesi prima aveva orchestrato una colossale operazione di contrabbando di petrolio iracheno. Il contratto fu poi reciso e trasferito ad una società americana legata alla famiglia Bush, finanziatrice del partito repubblicano per centinaia di migliaia di dollari e quindi con ottimi appoggi politici. Gli Usa avevano appena conosciuto lo scandalo della benzina venduta al loro esercito a prezzi maggiorati (fino a 61 mln di dollari in più) dalla Halliburton, la ex società del vicepresidente D. Cheney. (Sull’embargo iracheno, le inchieste sono state condotte dal Financial Times e dal Sole/24 Ore - 21 gennaio 2005)
L’esercito governativo iracheno, in fase di ricostruzione, si è nel frattempo impegnato con una apposita unità di difesa nella protezione dell’oleodotto che collega i pozzi petroliferi del Nord dell’Iraq alla Turchia. Lungo l’oleodotto che va dai pozzi di Kirkuk al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, si progetta una rete di torri di sorveglianza e un costante pattugliamento con migliaia di soldati. Operazioni il cui costo graverà sui prezzi del greggio.
In conclusione
Il modo di produzione capitalistico ha fatto del petrolio - come materia energetica trasformata in merce e alla base del suo folle sviluppo sia industriale che militare - l’elemento condizionante (probabilmente ancora per qualche decennio) della propria sopravvivenza e del proprio dominio. Il petrolio, dunque, come merce chiave del ciclo economico capitalistico per i settori dell’energia e della chimica. La deformante lente del profitto (anche quando finge di giustificarne uno giusto da “legittimare” per l’interesse comune di sfruttati e sfruttatori...) altro non vede che la produzione per la produzione. Quella energetica in generale, e in modo principale quella petrolifera, è più che mai una produzione squisitamente di tipo intensivo, con attività estrattive indiscriminate. Il dominio imperialistico delle fonti di approvvigionamento e delle reti di distribuzione - oggi anche al centro di un perverso meccanismo imposto con la forza militare e che alimenta una rendita finanziaria diventata nel tempo uno dei fattori determinanti la conservazione stessa dell’economia americana - rischia di travolgere l’umanità intera in un conflitto tra le potenze imperialistiche per il dominio delle attuali fonti energetiche.
In questo quadro globale, gli Usa sono interessati in prima persona - come da tempo affermiamo - alle variazioni del prezzo del greggio, in massima parte ancora espresso in dollari. Ciò ha offerto a Washington il privilegio di regolare la quantità delle sue banconote in giro per il mondo senza farle dipendere dalla produzione di una equivalente ricchezza di merci. Ad almeno 500 miliardi di dollari si è valutata la rendita ricavata dagli Usa annualmente.
Il petrolio non è dunque solo una fonte energetica: è una variabile macroeconomia fondamentale nel processo internazionale di formazione e spartizione della rendita finanziaria. Da qui l’importanza di esercitare un controllo del prezzo a cui segue la determinazione di una serie di parametri funzionali a quella stessa appropriazione finanziaria (tassi di cambio, saggi di interesse, bilancia commerciale, eccetera). Obiettivi che la crisi globale sembra al momento mettere in secondo piano, ma che rimangono fondamentali nella prospettiva sia di una ripresa congiunturale sia di soluzioni belliche più o meno vicine.
Davide CasartelliFra le maggiori fonti delle informazioni e dei dati raccolti, citiamo: Il manifesto, Repubblica, Corriere della Sera, Le Monde diplomatique, Espresso, Limes.
(1) I pronti contro termine sono titoli (obbligazioni o titoli monetari) venduti con l’impegno al loro riacquisto ad un prezzo e termine prestabiliti. Un prestito di titoli in cambio di un prestito di denaro.
I futures sono contratti a termine standardizzati, basati su indici con conseguente liquidazione pari alla differenza tra il valore di riferimento alla stipula del contratto e il valore del medesimo indice alla scadenza del contratto.
Gli hedge funds sono strumenti di investimento alternativi, fondi speculativi a rischio.
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