Le origini economiche e ideologiche del terrorismo islamico

Nel 1990 l’universitario americano Francis Fukuyama nel sostenere la vittoria definitiva del liberismo, in fase espansiva in tutto il mondo, teorizzava pure, insieme ad altri neoconservatori, la necessità di cercare un “ nuovo nemico strategico” adducendo la motivazione che gli Stati uniti erano oramai minacciati da forze oscure, più pericolose dello stesso comunismo: il terrorismo, gli stati canaglia, le armi di distruzione di massa. Pochi anni dopo, più precisamente nel 1993, Samuel Huntington enunciava la formula dello “scontro di civiltà” argomentando come nel nuovo ordine mondiale che prendeva progressivamente forma i conflitti non sarebbero stati innescati essenzialmente da fattori ideologici o economici ma che i contrasti avrebbero avuto una valenza culturale e interessato nazioni o gruppi appartenenti a società diverse.

Si trattava, in sintesi, di una teoria datata in quanto nel 1964 l’accademico britannico Bernard Lewis (1) aveva formulato l’ipotesi che la crisi del Medio oriente,già a quei tempi, non dipendesse da contrapposizioni tra stati bensì da uno scontro di civiltà.

A distanza di 40 anni si può dire che ci sia stata una rivisitazione del tutto, quasi per dare dignità morale a un progetto che ha via via assunto contorni sempre più definiti in quanto che il nemico di sempre, l’Unione sovietica, era implosa e quindi un nuovo soggetto doveva pur prendere il suo posto in quella che acquistava i contorni di una rappresentazione antropologica del concetto di male.

Gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York assicuravano la necessaria accentuazione a questi teoremi dilatandoli sapientemente a percezione comune. Si trattava di attacchi diretti contro l’establishment americano e vedevano protagonisti attori e gruppi coi quali le varie amministrazioni USA avevano intessuto rapporti di cointeressenza sin dalla invasione sovietica dell’Afghanistan. È Carter che nel luglio 1979, quindi ancor prima dell’invasione russa, firma una direttiva che autorizzava aiuti agli oppositori del regime filosovietico di Kabul.

A parlare in termini entusiastici di un nuovo Vietnam, stavolta rivolto contro i russi, era Zbigniew Brzezinski, consigliere di Carter, spiegando come in una strategia così concepita diventasse prioritario il crollo dell’impero sovietico anche avvalendosi di musulmani spiritati che, nei bilanci della CIA, venivano catalogati alla voce “attività”.

Sempre la CIA sostiene i fondamentalisti estremisti, tra cui Osama bin Laden, fin dal 1984, prende a finanziare dal 1986 la costruzione di campi di addestramento dei cosiddetti “arabi-afghani” da cui deriverà il fior fiore di quelli che successivamente saranno etichettati come “terroristi”.

Dovendo, in quel periodo, mantenere una facciata di neutralità con l’URSS il denaro e le armi destinati ai “combattenti della libertà” seguono un canale indiretto: i servizi segreti pakistani (ISI o Inter Services Intelligence) che provvedono a reclutare musulmani radicali, addestrarli per poi gettarli nella mischia. Soltanto che , dopo la disfatta russa, questo terrorismo ha modo e tempi per rivolgersi contro gli ex sostenitori, visti oramai sotto un’ottica diversa se, ad esempio, dalla resistenza irachena, sono percepiti come i “nuovi mongoli” e non giova certo alla comprensione del quadro d’insieme catalogare semplici-sticamente come terrorismo cieco un fenomeno assai complesso sia per le finalità che si propone che per gli orientamenti dei gruppi che lo praticano.

Giocano infatti in esso caratterizzazioni a sfondo religioso, senz’altro, ma anche dinamiche che attendono alla sfera economica ed ai meccanismi di redistribuzione della rendita, quella petrolifera in particolare.

Questa violenza a contenuto ritorsivo, questo effetto di rimbalzo, questo ritorno di fiamma (blowback) gli americani, c’è da sottolineare, lo hanno già sperimentato in altri contesti: Iran, Cuba, Nicaragua, Vietnam, tra i tanti.

Parlare quindi oggi di terrorismo mediante comode semplificazioni significa utilizzare canoni interpretativi di dubbia efficacia per i quali la violenza terroristica viene fatta risalire quasi ad una caratteristica genetica tipica di un mondo, quello arabo, in continua decadenza e segnato negativamente da tare culturali, psicologiche e religiose.

Luoghi comuni che insistendo su una certa sottovalutazione del tutto non aiutano a capire - o è proprio questo lo scopo perseguito - la complessità del fenomeno. Se il 44% degli americani, per restare in tema, ha creduto che la maggior parte degli attentatori dell’11 settembre fossero iracheni e il 45% era convinto che Saddam Hussein fosse personalmente coinvolto negli attentati (2) vuol dire che certe reiterazioni mediatiche hanno una loro capacità di seduzione. Per comprendere il terrorismo occorre entrare nell’ordine di idee che si ha a che fare con un fenomeno politico che ha, a sua volta, a che vedere con il ricorso alla violenza da parte di organizzazioni armate che lottano per il conseguimento di fini politici ma che, soprattutto, ci si trova davanti a un fenomeno che, nell’attuale contesto storico, può essere visualizzato meglio e compiutamente soltanto attraverso un’attenta disamina economica.

A contrapporsi ci sono due sistemi economici che hanno preso a configgere tra di loro: da una parte il capitalismo occidentale in veste di sistema economico dominante e dall’altra una composita realtà a sua volta espressione di una nazione, quella islamica o, più nello specifico, quella araba, all’interno della quale una classe di finanzieri e di mercanti ha sempre più consapevolezza che le proprie possibilità di emancipazione e di sviluppo sono frenate dalla tutela occidentale.

Alcuni studiosi, visto che sempre più connesso al terrorismo troviamo il cosiddetto scontro di civiltà, hanno visto in tutto questo una specie di ribaltamento delle parti rispetto a quanto avvenuto nell’undicesimo secolo dell’era moderna quando la classe dominante europea si frappose, per mezzo delle crociate, al dominio dell’Islam. Anche allora appelli alla Cristianità a tutto andare! Le classi sociali europee erano in fermento: i nobili intravedevano la possibilità di saccheggiare le ricche città della Palestina e conquistare nuove terre. Il clero portava avanti la sua missione di guida, più che interessata, delle masse di credenti mentre i mercanti, i banchieri e gli affaristi di ogni risma vedevano frustrate le loro mire di espansione negli affari dalla presenza araba nel Mediterraneo ma soprattutto dal loro dominio nel commercio internazionale.

La situazione attuale ripropone un contesto che, a parti invertite, vede il manifestarsi della jihad, intesa come lotta da intraprendere contro gli attacchi esterni alla comunità dei credenti musulmani.

Se all’epoca delle crociate la jihad assumeva il significato di controcrociata, all’inizio del XX secolo diventava lotta contro la colonizzazione europea e, in senso estensivo, anche contro dinastie e regimi arabi ritenuti mere propaggini dell’invadenza occidentale. La jihad antisovietica è nei fatti una controcrociata con annessi elementi anticoloniali sebbene rappresenti, per essere più essenziali, più una guerra per procura i cui veri beneficiari erano gli americani e i sauditi.

Teorizzatori di una jihad globale come Abdallah Azzam vedevano nella vittoria contro i sovietici un primo passo verso un nuovo ordine mondiale islamico ma soprattutto una controcrociata in opposizione a culture estranee, le occidentali per prime. Un po’era come prendesse corpo la profezia dello storico inglese Arnold Toynbee che, nel 1948, aveva dichiarato che, in caso di conflitto con l’Occidente, l’Islam era destinato a soppiantare il marxismo. Più che come religione universale, tuttavia, l’Islam si è caratterizzato come ideologia pervasiva capace di prendere il posto del socialismo e del nazionalismo arabi in qualità di alfiere della resistenza contro l’Occidente e la storicizzazione di questi movimenti politici, nella loro scansione temporale, può essere d’aiuto per poter comprendere come le istanze nazionaliste, socialiste abbiano abbandonato il campo a favore di questo buco nero rappresentato da un islamismo antioccidentale e ferocemente conservatore.

Taluni nell’analizzare le varie forme di nazioni arabo-islamiche le riassumono in entità intimamente collegate al ciclo capitalistico per cui ci sarebbe stato un nazionalismo liberale riferibile alla fase ascendente del capitalismo e la cui ideologia si basava sulla unificazione della nazione musulmana e sulla resistenza all’impe-rialismo occidentale attraverso la conciliazione di Islam e scienza moderna per pervenire, tramite un progetto di rivoluzione borghese, ad uno sviluppo economico antifeudale e nazionale. In successione viene poi il progetto del nazionalismo arabo e di tutti quei movimenti borghesi che aspiravano a fondare un capitalismo nazionale indipendente dagli imperialismi allora in auge vissuti come principali responsabili del sottosviluppo e dei processi di pauperizzazione ai quali la media e piccola borghesia sfuggiva arruolandosi per lo più nell’esercito che, come avvenne in Egitto e Iraq, rappresentava l’unica istituzione in cui erano rappresentate tutte le classi sociali, in cui venivano abbattute le barriere tra città e campagna e che, per via del suo carattere spiccatamente interclassista, costituiva un formidabile collante identitario nonché un inesauribile serbatoio di quadri nazionalisti pan-arabi.

Era quindi un nazionalismo che conteneva aspirazioni di livello più ampio giacchè mirava alla riunificazione della nazione araba, di una nazione con lingua, cultura e coscienza comuni a dispetto delle divisioni arbitrarie incise su ciò che era stato l’impero ottomano e della creazione di stati assolutamente artificiali: la Siria, l’Iraq, il Kuwait e la Giordania. Si era soffiato anche allora sugli antagonismi delle varie comunità religiose (sunniti, sciiti, drusi, maroniti) operando una frammentazione che il nazionalismo cercava di superare.

Il movimento dei militari

In tal senso l’esperienza più significativa è quella di Nasser e degli “ufficiali liberi” in Egitto che, deposto re Faruk nel 1952, intrapresero un ambizioso programma di industrializzazione del paese unitamente alla nazionalizzazione del canale di Suez dalla quale ricavare i proventi, sottratti agli inglesi, necessari a sovvenzionare un ulteriore sviluppo in senso capitalistico. Dopo la crisi di Suez ci fu un avvicinamento verso l’URSS e ciò consentì un’accentuazione del carattere populistico del nazionalismo che assunse delle tinte socialisteggianti e che permise disinvoltamente di perseguitare ferocemente i comunisti e teorizzare allo stesso tempo un “socialismo arabo” non legato certamente ad una visione materialistica della realtà ma che si configurava come una sorta di marxismo spirituale che ripudiava ogni forma di lotta di classe ritenuta “fattore di divisione interna e di conflitti” e tutelava la libera iniziativa privata in economia argomentando come lo stesso Islam insegnasse che “il guadagno è amato da Dio”.

Ciò consentiva di accalappiare il movimento dei lavoratori e salvaguardare le compatibilità di una classe capitalistica nazionale libera tuttavia da tutele occidentali. Nazionalisti come Michel Aflak e il partito Baath in Siria e Iraq, e Gamal Nasser e i Liberi Ufficiali in Egitto furono portati ad abbracciare il “socialismo” visto come elemento di accelerazione verso la modernità e l’industrializzazione ed anche per la politica di contrapposizione, da parte dell’URSS, verso le potenze occidentali.

Movimenti decisamente laici nella loro ideologia vedevano la nazione araba e non la comunità dei credenti (Ummah) come base sociale del modello statalista-modernista che esemplificavano. Tutto questo, tuttavia, ha termine con la sconfitta araba nella guerra dei 6 giorni che segna l’inizio di una crisi economica, politica e istituzionale che si trascina fino agli inizi degli anni ’70 quando una più profonda crisi economica, a livello internazionale, rende ancor più precaria la situazione di questa periferia capitalistica per cui il debole sviluppo economico degli anni precedenti si ferma e la sovranità nazionale raggiunta da poco non ha modo di tradursi in una affrancazione dall’Occidente bensì nel suo esatto contrario: la crescente sottomissione ad esso.

A questo stato di cose si aggiunga una particolare configurazione delle borghesie dominanti quasi sempre legate a clan con relative subordinate di corruzione diffusa, sistema clientelare e potere gestito per mezzo di politiche repressive. Il potere nazionalista ad inizio anni 70 si riduce a mere dittature pronte a subire pedissequamente, considerata la loro debolezza, le soluzioni imposte dal FMI e le nuove generazioni provenienti dai ceti commerciali e burocratici si vedono preclusa la strada dell’inserimento al lavoro insieme ad altri strati di piccola e media borghesia colpiti dalla crisi ed emarginati che, unitamente agli strati popolari diseredati, costituiranno la base sociale dell’ islamismo.

La morte di Nasser nel 1970 sublimizzava quasi la fine della stagione del socialismo arabo e l’obiettivo dell’unificazione della Nazione araba era definitivamente tramontato e nel vuoto creatosi aveva appunto modo di inserirsi una nuova ideologia politica e un nuovo movimento: l’islamismo.

L’Islamismo come ideologia nazionalistica

Per intenderlo nel suo significato più pieno e per storicizzarlo occorre fare riferimento al wahhabismo, fenomeno politico-religioso che ha origine nella penisola araba, che unisce predicazione religiosa e azione politico-militare e che nel corso di alcuni secoli acquisirà caratteri sempre più nazionalistici soprattutto nella lotta contro l’impero ottomano per giungere infine ad una elaborazione contemporanea, per mezzo soprattutto dei Fratelli musulmani, che tende a restaurare la legge islamica ed è decisamente avverso alla modernità. L’islamismo, tuttavia, sia che bolli le istanze di modernità sia che tenti di rinverdire le tradizioni islamiche, è anche il prodotto del superamento del mondo arabo precapitalistico e in quanto ideologia e progetto politico evidenzia connessioni sostanziali col capitalismo stesso.

Innanzitutto, a livello puramente ideologico, mostra come sia per esso prioritaria una differenziazione basata su caratterizzazioni islamiche in quanto tali, configurando una specie di esclusivismo islamista, opponendosi ad ogni differenziazione di classe, il tutto in forme storicamente e culturalmente specifiche. Il progetto politico persegue il ritiro dell’Occidente dalla nazione musulmana e nel raggiungimento di questo scopo è evidente come debba necessariamente configgere sul piano economico e militare col proprio nemico.

In tale contesto si inserisce, ad esempio, il regime di Khomeini in Iran che, preso il potere, sviluppa l’industria del petrolio, incrementa quella per la produzione di armi, sfrutta brutalmente il proprio proletariato, cerca di diventare potenza imperialistica della regione.

Gli stessi imperativi di stampo capitalistico segnano la parabola politica di bin Laden che oltre a voler combattere l’imperialismo occidentale persegue il rovesciamento del regime saudita, legato a filo doppio con gli USA, per assumere il controllo della maggior riserva petrolifera del mondo.

Dicevamo come l’islamismo sia fenomeno politico molto complesso e come le condizioni sociali ed economiche che lo mantengono vivo siano anche la povertà e la disperazione di masse urbanizzate ed in rapida crescita, destinate a vivere un’esistenza di emarginazione. Da queste masse provengono quasi sempre gli autori di attentati suicidi.

A loro volta ad alimentare i quadri e la dirigenza dei movimenti islamici sono gli intellettuali e i piccolo e medi borghesi. Lo stesso islamismo, però, è pervaso da numerose forme di fondamentalismo che storicamente sono eredi di un certo quietismo o neotradizionalismo politico fautore di una riforma della società sulla base di princìpi islamici. Alcuni di questi identificano la corruzione con l’l’autocrazia degli stati arabi per cui si rende necessaria una re-islamizzazione dello stato prendendone, ovviamente, il controllo attraverso una politica di radicamento progressivo nel tessuto sociale.

Ci sono poi altri, tuttavia, i cosiddetti jihadisti o radicali, che propugnano un nuovo tipo di islamismo per il quale le società arabe moderne, siano esse rette da dinastie o da regimi laici, sono da considerare corrotte in quanto hanno assimilato i valori occidentali eretici.

Nella genesi di questo fondamentalismo hanno certamente svolto un ruolo chiave i sauditi, preoccupati di combattere il nazionalismo arabo, lo sciismo iraniano ed il comunismo incoraggiando, con ciò, un sunnismo conservatore e decisamente ostile a istanze occidentali. In questo, e qui risiede il paradosso, i sauditi hanno beneficiato dell’appoggio di paesi occidentali e musulmani che vedevano nella dinastia dei Saud un’efficace diga - siamo negli anni ’80 - contro il khomeinismo e il comunismo.

A tal proposito, in assenza di un’alternativa di classe, soprattutto le masse offrono un terreno sensibile ai richiami del fondamentalismo che palesa chiaramente i propri connotati borghesi e antiproletari. È in questo brodo di coltura che il terrorismo ha modo di esprimere al meglio le proprie potenzialità.

Facevamo prima riferimento alla jihad antisovietica alla quale è poi seguita la lotta contro i padrini di un tempo e la progressiva metamorfosi in fenomeno politico ed economico che viene continuamente alimentato dalla jihad moderna.

L’economia viene ad assumere nei gruppi fondamentalisti un ruolo fondamentale come si conviene ad un movimento di natura borghese che agisce, al riparo di una facciata di feroce dottrinarismo religioso, sul piano di rapporti squisitamente capitalistici. Altro che jihad contro tutto ciò che sa di occidentale!

Nel loro operare sono molti i rimandi al contesto europeo: il culto del martirio che ha molti punti di contatto con certe pratiche anarchiche. Lo stesso concetto di avanguardia rivoluzionaria è mutuato dal marxismo e nella sua “società ideale” l’intellettuale egiziano Sayyd Qutb fa riferimento ad una società senza classi in cui viene abolito lo sfruttamento ed in cui resta forte l’aspirazione ad un sistema socioeconomico che poggia su una redistribuzione della ricchezza su basi assai più eque; il tutto, ovviamente, in salsa religiosa.

Prioritario, però, rimane il concetto di “jihad asgahr”, la lotta intrapresa per difendersi da aggressioni esterne, attualizzata e rivolta contro Israele, l’imperialismo americano e i suoi alleati occidentali.

Gli interessi economico-finanziari della jihad e quelli degli Usa

L’attuale jihad sedimenta quindi, in una ideologia radicale, il recupero di una identità autenticamente musulmana insieme ad aspirazioni di carattere economico ed alimenta una rete di gruppi terroristici che si finanziano attraverso il contrabbando di droga, riciclaggio di denaro sporco ed altre attività criminose.

Oltre a queste esistono altre attività molto lucrose legate a imprese con milioni di dollari di fatturato. Una tale economia, non ufficiale, illegale, sommersa, può rappresentare un concorrente non tanto gradito nella gestione della rendita finanziaria in generale e di quella petrolifera in particolare.

Per entrare più nel dettaglio, ad un capitalismo americano sempre più proteso a contrastare la tendenza permanente alla crisi economica, tutto questo si traduce in un ostacolo al flusso permanente di profitti esterni, nella messa in discussione del suo dominio sui mercati e su taluni settori di investimento e massimamente nel controllo e dominio delle fonti energetiche; da ciò deriva l’esigenza del potenziamento bellico, del ricorso alle guerre e la necessità di definire, senza soluzione di continuità, zone di pronto intervento, derubricando sbrigativamente, la comprensibile resistenza da parte dei paesi aggrediti a semplice “terrorismo”.

Una siffatta politica aggressiva, giustificata da tutto un apparato propagandistico che rappresenta i nemici come “estremisti violenti che cercano di distruggere il nostro modo di vivere libero” o che si rifà alla solita giaculatoria delle “armi di distruzione di massa”, in una prospettiva che ha lo scopo dichiarato di “produrre conflitti per creare il futuro”, vede l’islamismo come il nemico che ha preso il posto del comunismo e che considera la “guerra del XXI secolo” come qualcosa che durerà a lungo anche in “paesi con i quali non siamo in guerra”. (3)

In questa prospettiva il conflitto contro il fondamentalismo islamico rientra quasi nell’ordine naturale delle cose col contrapporsi ad una nuova classe di uomini d’affari e finanzieri musulmani, in particolar modo sauditi, che hanno fondato società commerciali e banche la cui crescita è limitata dalla supremazia dell’Occidente.

Con il crollo e successivo dissolvimento dell’URSS peggioravano le condizioni economiche degli ex paesi membri e gli aiuti internazionali che dovevano servire a compensare i disinvestimenti sovietici erano insufficienti poiché gli investimenti occidentali preferivano altri ambiti più redditizi.

Niente di inedito, intendiamoci. Non più costretti dagli imperativi strategici della guerra fredda, questi aiuti hanno ubbidito alle ferree leggi dell’economia per cui si dava preferenza a quei paesi che avevano attuato i programmi del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Investimenti cospicui prendevano pertanto la via del Messico dopo che questi aveva aderito al mercato comune sudamericano (NAFTA) e della Cina.

A ciò bisogna aggiungere i forti investimenti nella new economy, con enormi flussi di capitali provenienti da imprese magari disposte a correre l’alea di alti rischi nei mercati emergenti. Tanto per dare un’idea basti pensare all’afflusso di capitali esteri negli USA nel periodo 1990-96 con relative acquisizioni di titoli di Stato americani che son passate da 29 a 150 miliardi di dollari.

Ciò può aiutare a capire perché gli investitori stranieri hanno evitato non solo l’ex URSS ma anche le repubbliche dell’Asia centrale, ricche di giacimenti petroliferi. Allo stesso tempo si è prodotto, per effetto della liberalizzazione dei mercati finanziari e in conseguenza del rapido sviluppo degli scambi, una notevole crescita del settore bancario e relativi processi di fusione e acquisizione di istituti bancari in ogni dove. A beneficiare particolarmente di questa rivoluzione del settore sono stati i paesi dell’Europa orientale, dell’Asia orientale e alcuni dell’America latina mentre del tutto esclusi rimanevano quelli dell’Asia centrale, del Caucaso e dei Balcani.

In questo vuoto si sono inseriti tempestivamente istituti bancari turchi, iraniani e arabi cioè banche islamiche che avevano il grosso vantaggio di poter operare in paesi a maggioranza islamica e che fornendo aiuti agli ex regimi comunisti hanno finito col fare diventare quest’ultimi entità dipendenti, in larga parte, dalle finanze islamiche assicurando, al contempo, i presupposti oggettivi per la creazione di una economia panislamica.

Se la deregulation portata avanti da Reagan e dalla Tatcher aveva permesso una espansione delle banche occidentali in alcuni contesti mondiali, lo stesso effetto aveva avvantaggiato le banche islamiche a causa del dissolvimento dell’URSS.

Se da un punto di vista meramente interno o nazionale gli istituti bancari islamici si erano garantiti rendimenti eccezionali finanziando il commercio non ufficiale e l’economia sommersa, dal punto di vista internazionale il loro obiettivo rimaneva quello della colonizzazione finanziaria, in particolar modo nei paesi islamici. A ciò si aggiunga che la prima crisi petrolifera, sempre per rimanere in Arabia saudita, e il riciclaggio di petrodollari avevano consentito la nascita di una nuova classe di uomini d’affari e di imprenditori, sovvenzionati o favoriti dalla burocrazia reale, che, man mano che aveva più percezione di sé stessa, sopportava con maggior fatica non solo la supremazia occidentale ma anche una borghesia autoctona improduttiva e assai ricca.

Quando bin Laden rivendica l’abdicazione della dinastia dei Saud e il ritiro delle truppe americane dal suolo saudita lo fa con argomentazioni economiche che racchiudono il senso più intimo delle rivendicazioni di una borghesia saudita che ha consapevolezza ben precisa del furto e della spoliazione economica ancora operanti.

A suo dire gli americani avrebbero speculato sulla vendita del petrolio arabo intascando i relativi profitti a danno dei legittimi beneficiari: gli arabi, in senso assai generico, la borghesia araba, in senso più calzante. Negli ultimi 25 anni per ogni barile di petrolio venduto avrebbero lucrato qualcosa come 135 dollari per una perdita complessiva stimabile in 4 miliardi di dollari, al giorno! (4)

Cifra che fa certamente impressione e che configura una vera e propria rapina. Argomentazioni con questo taglio hanno gioco facile nel delineare una situazione altamente conflittuale e nel configurare le coordinate ideologiche di una classe sociale, quella borghese, fermamente motivata.

Lo scenario iracheno

Se i brevi cenni sulla realtà saudita ci hanno consentito di tratteggiare il motivo del vero contendere, lo scenario iracheno offre un ulteriore apporto per comprendere meglio il fenomeno. A fronte di una politica della “democrazia chiavi in mano” che sottende scopi certamente più prosaici per i quali si è disposti a pagare costi valutabili in 60 miliardi di dollari all’anno abbiamo un paese che, per effetto di questa guerra di liberazione, si è visto catapultato ad almeno un secolo addietro e tutto ciò in spregio a qualsiasi risoluzione presa da organismi internazionali.

Abbiamo assistito ad un atto arbitrario, unilaterale e portato con estrema violenza contro un paese decimato già da parecchi anni di embargo economico e tutto questo non poteva non innescare una resistenza sempre più accanita e che si ostina pervicacemente a non considerarli dei liberatori e, in gran parte, combatte contro una balcanizzazione del paese che dovrebbe dar vita a tre protettorati sulla falsariga dei “Vilayet” ottomani di Baghdad, Bassora e Mosul.

Viene riproposto il “divide et impera” che andrebbe a tutto vantaggio delle potenze occupanti e degli ayatollah iraniani e contro cui si batte una borghesia irachena, sia essa sunnita, sciita, laica o religiosa, una classe, cioè, che conduce una sua guerra, avvalendosi di modalità le più disparate, terrorismo incluso, che ha notevoli implicazioni imperialistiche - definiamole pure di secondo livello - per l’affermarsi di imperialismi a carattere regionale che non possono non configgere con la potenza egemone attuale.

Una certa parte della società irachena, nella sua storia, ha sviluppato progetti politici non soltanto rivolti alla popolazione nel suo insieme superando, di fatto, le specificità delle singole comunità, ma diretti soprattutto a superare gli stessi confini territoriali. Se il movimento religioso si riferiva alla comunità dei fedeli (Ummah) il nazionalismo arabo (nella sua componente sciita-nasseriana e sunnita-baathista) faceva riferimento alla nazione araba tutta; prima di questo c’era stato movimento patriottico iracheno che era assurto agli onori della cronaca coi moti del 1920 e che, negli attuali avvenimenti, ha modo di manifestarsi attraverso il “Congresso per la fondazione nazionale dell’Iraq”, costituito da movimenti, partiti, intellettuali, esponenti laici e religiosi come configurazione di un prossimo governo di unità nazionale.

Va quindi prendendo forma un ampio fronte interclassista, a guida borghese naturalmente, che si oppone all’occupazione in generale e alla divisione del paese in particolare.

Gli USA, d’altro canto, fanno niente per occultare una sorta di schizofrenia che vede, per esempio, gli sciiti del raggruppamento Dawa iracheno riconosciuti come combattenti per la libertà mentre in Libano,sempre gli sciiti del Dawa, in quanto decisamente antiisraeliani, vengono etichettati come terroristi. Allo stesso modo è fuorviante definire terrorista una resistenza che al 90% è costituita da iracheni, addestrati alla guerriglia già da prima della invasione, e solo per un 10% da jihadisti tra cui Al Zarqawi o altri miti buoni per qualsiasi uso.

D’altronde sono gli stessi americani a riconoscere che, da parte loro, non è stata sufficientemente compresa la crescita dell’insurrezione irachena e, più nello specifico, il suo carattere nazionale basato su un forte radicamento popolare.

Talune semplificazioni di comodo che hanno lo scopo di presentare la realtà in un certo modo non tengono conto come i confini tra la componente sciita e quella sunnita non sono così marcati come può sembrare anche perché la società irachena ruota attorno alle tribù e queste sono quasi sempre tutte miste così come è difficile trovare linee di demarcazione nette e di attrito tra le due comunità.

Sono gli stessi sciiti a sostenere che la sollevazione del 1991 nel sud del paese, causata da motivi eminentemente economici, venne in seguito strumentalizzata dai movimenti religiosi appoggiati dall’Iran ed i sunniti, facendo anch’essi professione di laicità, sono decisamente contrari a qualsiasi emirato islamico o stato teocratico.

Risulta abbastanza chiaro, volendo tirare le fila del discorso, come la situazione, per grandi linee, abbia le caratteristiche di un insieme magmatico da cui si può enucleare un comune denominatore: l’antiamericanismo. E ciò riguarda non solo l’Iraq, l’Arabia saudita, la Palestina di Hamas lo stesso Iran o altri ancora. Quando al-Zawahiri, principale teorico di al-Qaeda, sostiene che lo scontro globale non deve mirare a “distruggere la civiltà occidentale, ma a cacciare gli americani dal mondo arabo e musulmano” (5) compie un notevole salto di qualità in termini prettamente strategici. Ad essere visualizzato non è più un “nemico lontano” bensì presente sul suolo arabo.

È la risposta di un certo mondo arabo-islamico nell’epoca del capitale globale e dell’egemonia statunitense. Esistesse un’avanguardia rivoluzionaria ben altra potrebbe essere la risposta: lotta di classe per rovesciare le relazioni sociali capitalistiche e con esse tutte le borghesie presenti, laiche o religiose che siano.

Gianfranco Greco

(1) Alain Gresh: Le monde diplomatique - settembre 2004

(2) Bernard Adam: Le monde diplomatique - aprile 2004

(3) Enzo Modugno: Il manifesto 18.03.06

(4) Loretta Napoleoni: La nuova economia del terrorismo ed. Tropea pag.220 e 221

(5) Loretta Napoleoni: Al Zarqawi ed. Tropea pag.18

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.