Integralismo islamico e lotta di classe

Negli ultimi decenni, dalla crisi internazionale degli anni settanta ad oggi, con particolare intensità negli episodi della guerra del Golfo, Bosnia e Afganistan, la questione dell'integralismo islamico si è imposta all'ordine del giorno quale fattore politico.

Nasce come risposta nazionalistico-borghese contro l'imperialismo occidentale, si propone come lotta tra borghesie all'interno del mondo islamico e trascina con sé consistenti settori del proletariato e del sotto proletariato che di questa ideologia religiosa e politica finiscono per essere oggetti di manovra, strumenti di giustificazione del potere, in nome della vera libertà coranica o di un presunto anti imperialismo.

Il primo problema da risolvere consiste nel comprendere le ragioni non tanto della nascita delle prime organizzazioni che si sono richiamate all'integralismo islamico, sorte agli inizi del secolo scorso, quanto della intensa proliferazione e del radicamento sociale che questi movimenti hanno prodotto negli ultimi anni. In termini grossolanamente deterministici possiamo dire che il fenomeno del ritorno alla tradizione religiosa e sociale, compresi i rapporti tra le classi, va di pari passo con l'evolversi della crisi capitalistica internazionale. I due fenomeni sono intimamente connessi al punto che il primo può trovare giustificazione solo se rapportato alle drammatiche conseguenze economiche e di aggressione bellica del secondo.

La cosiddetta globalizzazione, intesa come il mezzo che il grande capitale utilizza per realizzare i propri interessi di accumulazione in una fase di saggi del profitto sempre decrescenti, si è imposta due obiettivi assolutamente irrinunciabili.

  1. Il primo è quello di avere a disposizione, ovunque, una forza lavoro flessibile, a basso costo, con garanzie sindacali decrescenti, assumibile e licenziabile a seconda dell'andamento economico dell'impresa. Come corollario si procede allo smantellamento dello stato sociale colpendo e privatizzando le pensioni, la sanità e l'educazione in quanto spese non più compatibili con gli attuali margini di profitto, attaccando cioè, come mai era accaduto nel capitalismo moderno, la classe lavoratrice sia sul terreno salariale e normativo, sia su quello assistenziale sia della prevenzione.
  2. Il secondo, centrato sull'esasperazione della concorrenza, è quello di ottenere in tutti i modi, guerre comprese, il controllo dei mercati internazionali delle materie prime (petrolio), commerciali, finanziari e della forza-lavoro. Gli Usa, che di questo processo imperialistico sono la punta avanzata, hanno imposto l'egemonia del dollaro sui mercati finanziari, hanno realizzato il controllo del petrolio nel Golfo Persico e stanno ottenendo, dopo la guerra in Afganistan, quello del Caspio.

Le due azioni combinate garantiscono al governo di Washington quota parte della rendita petrolifera parassitaria; in più gli Usa hanno imposto la loro gestione della forza lavoro di interi continenti, che va dal sub continente americano all'Asia, passando dall'India al Pakistan, dal Medio Oriente al sud est asiatico, a seconda delle necessità del decentramento produttivo che a sua volta dipende dal basso costo della forza lavoro locale. Per quanto riguarda le popolazioni e i proletariati di queste aree, gli effetti sono stati devastanti. Alle loro già precarie condizioni di vita e di lavoro si sono sommate quelle ancora più disumane e affamanti derivanti dal processo di globalizzazione.

I paesi islamici, in particolare quelli direttamente interessati alla questione petrolifera, come in Medio Oriente, Golfo Persico e attorno al Mar Caspio, sono stati investiti più duramente dall'aggressività della globalizzazione, che ha coinvolto tutte le classi sociali, da quella borghese, non direttamente legata alla rendita petrolifera, a quella proletaria, passando per la piccola borghesia imprenditoriale e di ceto professionale che è stata letteralmente proletarizzata sia in termini economici sia di status sociale. A questo processo vanno sommate le conseguenze nefaste degli imperialismi pregressi, sia nella versione " democratica" occidentale che di quella del "socialismo" orientale. I due modelli della modernizzazione si sono rivelati per quello che erano, due metodi di colonizzazione apparentemente diversi nelle forme, assolutamente uguali nei meccanismi di sfruttamento e di spoliazione.

Ecco perché il fondamentalismo prima, e l'integralismo poi, hanno trovato il giusto terreno di coltura in tutti quegli ambienti nazionalistici che da sempre hanno sofferto la presenza del colonialismo prima, e dell'imperialismo poi. La terza via, il ritorno alle origini come strumento di fuga e di risposta all'imperialismo, è apparso nella tradizione musulmana come l'ancora di salvezza, come il punto da cui ripartire per un processo di rinnovamento e di progresso, al di fuori e contro i falsi modelli dell'occidente "corrotto e corruttore", nella prospettiva di amministrare in proprio risorse e ricchezze o, più semplicemente, quelle opportunità economiche che hanno a disposizione. Con un quadro di riferimento che non è più quello di un capitalismo in salute, ma al contrario debilitato da saggi del profitto sempre più bassi, finanziariamente parassitario e con problemi crescenti sul terreno del processo di accumulazione.

La religione quale strumento di dominio di classe

Il binomio religione-potere non è certamente nuovo e non è tipico della sola esperienza storica islamica, ma in questo ambiente ha avuto modo di esprimersi al meglio e di prodursi con una continuità temporale che ha dell'eccezionale. Le ragioni non risiedono nella presunta profondità o intensità della religione islamica rispetto alle altre forme di culto, quanto nella radicata tradizione storica che fonda le sue radici nel perdurare di quei fattori di arretratezza economica e sociale che sono stati alla base del binomio stesso.

Per secoli le varie borghesie islamiche, d'etnia araba, magrebbina o asiatica, perlopiù nella veste istituzionale monarchica ma non solo, hanno usato la religione come mezzo per giustificare il loro potere politico. Anche in tempi più recenti, il richiamo alla diretta discendenza di Maometto o l'identificarsi con una particolare confessione islamica, si presenta come il suggello al privilegio politico e quindi economico, in una sorta d'imprimatur al dominio di classe.

Gli esempi sono infiniti. Il defunto re Hassan II del Marocco amava ricordare ai suoi sudditi di essere discendente diretto di Maometto; altrettanto è il comportamento del figlio che gli è succeduto al potere. Il vecchio re Hussein di Giordania preferiva definirsi re degli Hascemiti, tribù d'appartenenza di un antenato di Maometto, piuttosto che re dei Giordani. I Saud hanno sempre giustificato la legittimità del loro potere identificandosi con la confessione religiosa del Wahabbismo. Lo stesso dicasi per le esperienze degli Emirati del Golfo persico, non ultima quella degli Al Sabbah del Kuwait, o quelle Yemenite e Omanite della teocrazia degli Immam.

Persino in alcune situazioni "laico socialiste" il fenomeno si è pesantemente presentato. Nella Siria repubblicana di Hafez el Assad, che è rimasto al potere per quasi quarant'anni, oltre all'uso della forza militare, all'imposizione di un regime di polizia, all'essere presidente di una repubblica presidenziale, talmente presidenziale da non poterla distinguere da una monarchia assoluta, non è estraneo il richiamo alla sua confessione alawita in campo religioso. Un altro esempio è fornito dal "socialista progressista" Walid Jhumblat che in terra libanese governa sull'enclave drusa in nome di quel Al Darazi che secoli fa fondò una delle tante scissioni confessionali sciite, dando vita allo stesso movimento politico druso di cui oggi Walid, come negli anni settanta il padre, ne è principe e padrone.

Escono da questo quadro quelle borghesie che, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, in chiave anti coloniale, ma all'interno della guerra fredda, in altre parole sotto l'influenza diretta o mediata dell'imperialismo sovietico, si sono proposte in termini laici e/o socialisteggianti, in rappresentanza di un nazionalismo arabo che esprimeva conati di progressismo politico ed economico umiliati da quel polo imperialistico che a suon di slogan li aveva favoriti. È il caso dell'Algeria, dell'Egitto di Nasser, della Libia di Gheddafi e della Siria, esperienze diverse e politicamente composite cui si dovrebbe dedicare un capitolo a parte, che in questa caso non possiamo aprire per ragioni di spazio.

L'utilizzo strumentale della religione, là dove diventasse operativo, va oltre il mero tentativo di giustificare il potere agli occhi delle masse, per diventare anche il mezzo di condizionamento sociale in chiave preventiva, o al caso repressiva, nei confronti di quegli antagonismi sociali che dovessero esprimersi. Ingabbiati i rapporti di produzione, le relazioni tra le classi e i rapporti di potere all'interno dell'involucro religioso, ogni sussulto contro l'autorità costituita, così come ogni sussulto di lotta di classe, vengono repressi in nome dell'immutabilità dell'impianto divino da cui discende "l'armonia" sociale e l'intan-gibilità dei meccanismi di produzione. Il gioco conservatore e reazionario di queste borghesie è sin troppo palese, ma sin tanto che l'oppio della religione, ampiamente elargito degli stessi centri del potere politico, continuerà ad emanare il suo soporifero effetto, sarà chiamato a svolgere la sua funzione in ogni situazione che lo richieda.

In termini rovesciati, ma sempre all'interno dello stesso schieramento sociale, lo strumento della religione è usato anche da quelle fazioni della borghesia o della media borghesia che al potere non sono, ma che al potere vorrebbero arrivarci. Gli interessi economici e politici che sono alla base della conflittualità interborghese, vengono giocati sul tavolo della legittimità religiosa, proposti alle masse sia in termini elettorali che di scontro frontale, come massa di manovra da usare a tutto campo. Contro il potere per il potere, quale involucro dell'interesse finanziario, legato alla rendita petrolifera e alle mediazioni parassitarie che ne conseguono, quasi mai come condizione dello sviluppo economico e sociale come succedeva agli inizi del secolo scorso per le borghesie europee. Succede in Libano sotto il protettorato militare siriano, in Algeria con lo scontro decennale tra il governo laico e le forze integraliste del Fis, in Arabia Saudita tra la monarchia dei Saud e i suoi detrattori integralisti che rimproverano a Fahd e alla sua tribù di essersi venduti al paganesimo del dollaro, in Cecenia e nel Daghestan. Era successo in Iran con la rivoluzione Khomeynista, in Afganistan tra i Mujaheddin e i Taliban e in Sudan dove la giunta militare si è alleata all'integralismo dei mullah locali. In tutti questi casi, nessuno escluso, per le grandi masse di diseredati che sono stati trascinati all'interno di questo gioco perverso, o che hanno creduto di poter esserne protagonisti, la sconfitta è stata tremenda e totale.

L'approccio anti proletario delle forze integraliste

L'integralismo islamico rientra a pieno titolo nella seconda delle situazioni borghesi precedentemente esposte. La questione da porre non è quando e come sono nate le prime forme d'integralismo, quali i loro impianti ideologici e le categorie politiche che li sottendono, domande alle quali si è già abbondantemente risposto, ma la constatazione della loro essenza così ferocemente anti comunista e di come le avanguardie rivoluzionarie possano tentare di sottrarre alla sua influenza masse di diseredati, proletari e sotto proletari di queste aree e di quelle metropolitane che sempre più si riempiono di lavoratori islamici.

L'impressionante dato che la cronaca quotidianamente ci fornisce, è che il fondamentalismo riesce ad insinuarsi sempre di più nelle aree depresse dei paesi arabi e asiatici, nei centri industriali e nelle periferie delle grandi capitali europee, asiatiche e americane, là dove l'immigrazione islamica, vecchia e recente, maggiormente si addensa. Il fenomeno, anche se numericamente minoritario, è forte e in espansione, passa trasversalmente a oltre un miliardo di persone, si propone come momento di lotta nazionale anti imperialista, come forma di auto determinazione delle popolazioni islamiche contro il "neo colonialismo" della globalizzazione. Per molti sedicenti comunisti ciò sarebbe sufficiente per appoggiare questi movimenti, pur riconoscendo loro un contenuto borghese e una strategia che con la lotta di classe avrebbe ben poco a che vedere, ma l'appoggio dovrebbe essere un atto dovuto solo perché si presentano come tensioni anti imperia-liste e soprattutto perché all'interno delle loro fila si muovono decine di migliaia di proletari.

Due gravissimi errori che si alimentano su false impostazioni nei confronti dell'analisi dell'imperialismo oggi e sull'aspetto meramente sociologico della composizione di classe dell'integralismo. Errori che in termini di tattica e di strategia rivoluzionaria finiscono per esprimersi, nel migliore dei casi, in un pedissequo codismo nei confronti di quanto si muove all'interno di quelle aree, nel risucchio delle logiche della guerra, nella peggiore delle prospettive. In entrambi i casi viene meno il compito, seppur difficile e improbo, di creare le condizioni a venire di una ricomposizione di classe che abbia come obiettivo quello di trasformare le tensioni e i conflitti, sin qui espressi e gestiti dalle istanze borghesi e piccolo borghesi, in ripresa della lotta di classe in senso rivoluzionario.

In primo luogo non si può mai parlare di anti imperialismo quando le forze che dichiarano di praticarlo, o peggio quando gruppi o gruppetti politici occidentali pensano che altri in loco lo stiano praticando, non abbiano al loro interno un programma anti capitalistico. Lo scontro tra uno stato aggressore e uno aggredito, l'impari lotta tra una potenza imperialistica e uno stato del terzo mondo, così come la guerra civile tra una borghesia al potere e una che attacca, o tra la borghesia nazionale e frange di piccola e media borghesia, rimangono tutte all'interno del quadro economico che le ha prodotte. Mistificare uno soltanto di questi episodi come lotta anti imperialistica, quando in nessuna delle formazioni politiche che la pratica non esiste nemmeno un accenno alla lotta contro i rapporti di produzione capitalistici, anzi l'obiettivo dichiarato è quello di arrivare al potere per meglio gestirli, non è soltanto un errore ma è un falso politico.

In seconda battuta va detto che la presenza all'interno di questi movimenti integralisti di consistenti segmenti di proletariato, di sfruttati a vario titolo e livelli, non conferisce al movimento stesso una connotazione di classe, ma soltanto una classificazione sociologica sul piano della composizione sociale. Da che mondo è mondo le borghesie hanno sempre avuto bisogno di una larga base di manovra per risolvere i propri interessi contro altre frange della borghesia nazionale o di quella estera. Lo hanno fatto, a seconda della condizione storica, delle specificità interne, del livello di condizionamento delle masse già acquisito: in nome della difesa della patria o delle istituzioni democratiche, in nome dell'autodeterminazione e del progresso, ma anche in nome di Allah e del suo unico profeta.

Sin che le masse sono al carro degli interessi delle loro borghesie, sino a quando l'ideologia borghese regge ed esercita fino in fondo il suo ruolo di condizionamento della classe subalterna, che all'interno di questi movimenti ci siano proletari non fornisce al movimento stesso un livello politico superiore, ma soltanto complica le cose. Come sempre il problema non è quello di rincorrere e appoggiare, magari criticamente, il movimento solo perché all'interno ci sono frange più o meno consistenti di proletari, ma di tentare di spostare questi proletari verso obiettivi di classe mettendoli in contraddizione politica con il movimento che li ingabbia.

L'integralismo islamico non fa eccezione se non per alcuni aspetti ulteriormente negativi. Uscendo dai facili stereotipi che criticano le varie forme di fondamentalismo e di integralismo, puntando sui più che evidenti caratteri di pesante arretratezza sociale (subordinazione alla sharia di ogni forma di governo, tra il governo e la popolazione, tra la popolazione maschile e quella femminile, del diritto civile e del diritto penale), l'aspetto conservatore e reazionario risiede nella struttura autocratica dello stato. Lo stato fondamentalista disciplina ogni rapporto sociale, primo fra tutti quello tra capitale e forza lavoro, sul principio indiscutibile dell'obbedienza.

Si obbedisce senza deroghe agli insegnamenti che vengono impartiti nelle scuole coraniche. Si deve accettare la sacralità gerarchica della famiglia. Le donne e i figli non maggiorenni devono vivere in subordinazione al maschio dominante quale unico percettore di reddito, e quindi, il solo a gestire il potere all'interno della famiglia. Subordinazione del cittadino all'amministrazione locale, e per legge transitiva con percorso verticale, a tutte le istituzioni dello stato. Subordinazione ferrea nei rapporti di produzione.

La subordinazione diventa sottomissione quando si tratta di regolare i rapporti tra capitale e forza lavoro. Non esistono garanzie sindacali, se ve ne fosse stata traccia nella società precedente, il nuovo governo "rivoluzionario" s'incaricherebbe immediatamente di sopprimerle. Le libertà cosiddette democratiche, in modo particolare quelle che si riferiscono al mondo del lavoro, devono essere cancellate. La sottomissione del proletario al capitale, benché molto spesso in presenza di forme arcaiche di sfruttamento, deve essere assoluta e totale. Ogni forma di lotta rivendicativa rischia di essere stroncata con la forza sin dal suo sorgere, e i suoi rappresentanti, molto spesso, sono eliminati fisicamente.

Se poi dalla rivendicazione economica si passa a quella politica, il fondamentalismo non fa prigionieri. In tempi recenti si sono verificati episodi del genere in Afganistan, Pakistan e Sudan, mentre nel più progredito e industrializzato Iran di Khatamj, la sharia consente l'esistenza dei sindacati, la libertà d'associazione tra lavoratori e cittadini ma sotto il controllo dello stato, in una specie di corporazione economico-politica di cui le autorità religiose detengono il controllo.

In tempi passati, come nelle più recenti esperienze, il fondamentalismo ha espresso con violenza il suo viscerale anti comunismo, frutto dell'impostazione religiosa di questi ultimi tre decenni e delle vicende storiche antisovietiche, come nuova versione delle istanze nazionalistiche, ma anche quale misura preventiva per contenere in breccia qualsiasi velleità proletaria nei nuovi regimi teocratici.

Gli esempi sono infiniti. In Iran, durante la rivoluzione integralista di Khomejni, l'allora partito "comunista" del Tudeh, dopo un breve periodo di fronte comune con le forze dell'Ayatollah, fu spazzato via dalla vita politica iraniana con una pesantissima repressione. La stessa sorte è toccata alle forze socialiste e a tutte le opposizioni di sinistra, che per trovare scampo sono dovute migrare ai quattro angoli della terra. Il regime che ne è nato ha usato il pugno di ferro contro tutte le situazioni sociali non allineate, ha usato la Sharia come strumento di giustificazione del suo potere e come mezzo di tortura nei confronti degli oppositori politici, con particolare riguardo, si fa per dire, verso la classe operaia dei centri industriali e petroliferi ogni volta che ha tentato di rialzare la testa.

Tra il 1979 e il 1989, in Afganistan, nel bel mezzo della guerra fredda, l'integralismo dei mujaheddin è stato impugnato dall'imperialismo americano in chiave anti sovietica che, nell'immaginario collettivo politico dell'epoca, era sinonimo di comunismo. Il generale Massud, il mitico Leone del Panshir, che è entrato nella leggenda dell'integralismo asiatico, è assurto alla dimensione "di profeta combattente" per aver sconfitto gli atei comunisti del regime sovietico. Non meglio si è comportato nei confronti della disperata forza lavoro afgana il successivo regime dei Taliban. L'anti comunismo, il disprezzo per coloro i quali tentano di opporsi nei luoghi di lavoro al doppio sfruttamento della propria borghesia e dell'imperialismo occidentale, lo ritroviamo in Pakistan, regime militare legato a doppio filo alle correnti più intransigenti dell'ortodossia integralista.

La stessa situazione di nazional integralismo, anti comunista e anti operaio, lo ritroviamo nelle recenti esperienze in Cecenia e Daghestan. Che anche in questo caso il loro anti comunismo fosse falso, perché falso era il comunismo che combattevano, non ha molta importanza se riferito a quel contesto storico e sociale. L'importante è che la matrice ideologica, le spinte economiche e l'approccio nazionalistico che lo sottendono, lo rendono, fatte salve pochissime eccezioni, la più efficace delle armi controrivoluzionarie di cui possono godere queste piccole borghesie locali. Il discorso potrebbe continuare con gli esempi delle brigate integraliste internazionali in Bosnia, nel Kosovo e in Macedonia contro il "comunismo" serbo. Persino all'interno del laico movimento palestinese le componenti politiche che fanno capo all'Olp di Arafat devono fare i conti con l'opposizione integralista di Hamas e della Jihad islamica.

Il dato di fatto è che l'integralismo si presenta come l'involucro politico che meglio si presta oggi a confezionare qualsiasi tipologia di nazionalismo islamico, con contenuti anti proletari, conservatori e, quando necessario reazionari, indipendentemente dal ruolo e dallo spazio che riesce a trovare nel complesso e altamente competitivo mercato internazionale. Servo e strumento dell'imperialismo quando occorre, contro l'imperialismo quando è aggredito, ma mai in chiave anti capitalistica, rinunciando quindi al vero anti imperialismo pur, suo malgrado, dovendosi misurare con esso, anti comunista sempre.

Integralismo e masse islamiche

Altra è la relazione che oggi lega l'integralismo alle masse islamiche. Come è da prassi capitalistica, queste ultime soffrono del doppio sfruttamento, quello dell'imperialismo e quello della propria borghesia. Nella fase attuale caratterizzata dall'esasperazione della concorrenza su tutti i mercati internazionali, da quello commerciale a quello delle materie prime, da quello finanziario a quello delle forza lavoro, per le borghesie nazionali dei paesi della cosiddetta periferia le possibilità comportamentali sono essenzialmente due.

  1. La prima è quella di soggiacere alla superiorità economica e militare dell'imperialismo cercando di ricavarne il danno minore, adeguandosi alle richieste di sfruttamento delle risorse naturali e della forza lavoro, usufruendo delle briciole che eventualmente cadono dal tavolo dell'imperialismo stesso. In questo caso il proletariato indigeno, islamico nella fattispecie, è costretto dalla sua stessa borghesia a proporsi come forza lavoro da sfruttare a bassi, se non a bassissimi salari, senza garanzie sindacali, con orari che possono superare le dieci, dodici ore al giorno, con la mancanza assoluta di ogni forma di assistenza e di prevenzione. In questo caso, per il momento del tutto ipotetico, una eventuale lotta di classe dei lavoratori islamici contro gli infernali meccanismi del doppio sfruttamento assumerebbe una duplice valenza, sia contro l'imperialismo che contro la propria borghesia, che del primo ne sarebbe, suo malgrado, strumento e sostegno. Situazione che non si è ancora presentata sulla scena, che assumerebbe sin dall'inizio caratteri di anti capitalismo e quindi di anti imperialismo. Perché ciò possa verificarsi occorrerebbe che sulla scena politica islamica il campo non fosse occupato soltanto dalle forze dell'integralismo, che tenterebbero in ogni caso di giocare la loro partita conservatrice e reazionaria sino in fondo, bensì da quelle comuniste e rivoluzionarie che con le prime, lungi dallo stabilire accordi, azioni di sostegno più o meno critici, dovrebbero scontrarsi sul terreno degli interessi di classe.
  2. Nel caso in cui, invece, fosse la borghesia a prendere l'iniziativa di opporsi all'arroganza militare ed economica dell'imperialismo o, caso ultimamente più frequente, fosse aggredita dall'imperialismo, lo potrebbe fare solo a condizione di avere dalla propria parte, sulla base dei suoi interessi nazionalistici, sempre e comunque all'interno dei meccanismi di sfruttamento capitalistici, la stragrande maggioranza della sua popolazione, ovvero del suo proletariato. Anche se gli scenari sono diversi da quelli occidentali, la struttura sociale e i processi di scomposizione e ricomposizione del proletariato hanno ritmi e intensità diverse rispetto a quelle dei paesi capitalistici avanzati; benché l'impatto del processo di globalizzazione produca i suoi effetti diversamente, il rapporto tra le borghesie nazionalistiche, nelle vesti laiche o integraliste, e il proletariato non cambia. La partita è sempre la stessa, l'obiettivo borghese è quello di trascinare la rabbia e la disperazione delle masse all'interno dei canali del nazionalismo usufruendo degli involucri ideologici più efficaci, innanzi tutto quello religioso, se lo strumento è stato per tempo e opportunamente inoculato nelle coscienze delle masse.

Sino a quando lo spirito di rivalsa sociale, di disponibilità allo scontro e alla lotta, contro lo sfruttamento e le sempre più insopportabili condizioni di vita imposte dall'imperialismo, rimane all'interno degli interessi borghesi, in qualsiasi confezione ideologica espressi, i destini della ripresa dello lotta di classe sono profondamente segnati dai sintomi della sconfitta. L'unica alternativa possibile è quella di contribuire alla crescita di un fronte di classe che politicamente operi contro tutte le sfaccettature dell'ideologia borghese, sia nella versione laica e progressista che in quella più reazionariamente aberrante dell'integralismo. Che compatti tutte le componenti dello sfruttamento, dalle masse dei diseredati senza alcuna forma di radicamento sociale, ai disoccupati, ai lavoratori saltuari sino al proletariato urbano. Solo così si può imboccare la strada dell'identità di classe e dell'autonomia politica, l'unica che possa portare verso una ripresa della lotta con contenuto anti borghese, anti capitalistico, e quindi anti imperialista. Processo che deve uscire dall'isolamento nazionale per tentare di assumere un respiro più ampio, almeno regionale, in attesa di analoghi fenomeni di classe nelle aree a capitalismo avanzato.

La critica più praticata nei confronti di una simile impostazione della strategia di classe nel mondo islamico, soprattutto nelle zone di maggior frequentazione delle pressioni imperialistiche (Golfo Persico, Caspio), è che non esistono attualmente le condizioni perché possa partire un processo di ripresa delle lotte in termini classisti. Perché le condizioni economiche e sociali date lo renderebbero quasi impossibile, perché il fondamentalismo ha radici che difficilmente possono essere estirpate, perché soprattutto, manca una forza partitica rivoluzionaria in grado di iniziare ad effettuare questo lavoro di decantazione politica di classe, di penetrazione all'interno dei meccanismi di condizionamento ideologico che l'integralismo ha tessuto, per una radicale denuncia di quello che realmente sono, e quindi, di poterli spezzare definitivamente. In altri termini, prosegue la critica, nelle attuali condizioni e pur avendo chiaro il ruolo e la funzione di questi movimenti, in mancanza di qualsiasi riferimento di classe, l'appoggio all'azione dell'integralismo sarebbe un atto dovuto in nome del loro sforzo anti imperialistico, anche se solo come slancio ideale, e del fatto che all'interno di questi movimenti è presente una componente delle masse sfruttate.

Anche se proposta in questi termini la questione puzza. Puzza d'opportunismo tattico, di codismo politico, ma soprattutto denuncia i limiti della mancanza di comprensione del fenomeno dell'integralismo e del rapporto che lo lega alle masse islamiche, falsificando sin dall'inizio il ruolo che dovrebbe avere un'avanguardia rivoluzionaria posta di fronte ai compiti che le competono all'interno di un simile scenario politico.

Va da sé che non sono i rivoluzionari a scegliere il momento e le condizioni più favorevoli per organizzare il loro intervento, o in mancanza di questo per manifesta inferiorità, la loro denuncia critica. A dettare i ritmi e gli scenari dell'evolversi delle tensioni sociali è sempre il contraddittorio evolversi del capitalismo, nel particolare i passi concreti che l'imperialismo muove nelle aree della cosiddetta periferia. Nella periferia sono gli specifici condizionamenti storici e ideologici che operano all'interno delle masse più o meno proletarizzate con i quali, volenti o nolenti, bisogna fare i conti. Sarebbe utopistico in sede d'analisi, e politicamente sciocco, immaginarsi un percorso di ripresa della lotta di classe lineare, come se le tensioni sociali, i rapporti di forza tra le classi e il condizionamento della classe dominante nei confronti di quella dominata, fossero un esperimento chimico da riprodursi in "vitro" secondo una legge immutabile e valida per ogni occasione. È però altrettanto utopistico e politicamente scorretto credere di ottenere dei risultati politici, anche se non a breve termine, appoggiando senza riserve, o con quelle riserve parolaie e di principio che nulla tolgono e nulla aggiungono allo svolgimento degli accadimenti, un movimento integralista perché oggi il convento non passa di meglio, nell'attesa della ricomposizione di un fronte comunista e rivoluzionario, che un domani sarà in grado di raddrizzare gli orientamenti tattici e strategici delle masse islamiche.

Il perché è molto semplice. Il fatto che all'interno dell'ideologia e della strategia politica dell'inte-gralismo ci siano le masse sfruttate islamiche, o buone parte di esse, non solo non è sufficiente a far si che, in mancanza di meglio, si debba dare loro un appoggio, ma è vero il contrario. La loro presenza è purtroppo il segno che la trappola è scattata, che le loro istanze e aspirazioni anti imperialistiche saranno vanificate, che qualsiasi sussulto di rivendicazione classista verrà represso e che ogni più banale istanza democratica di convivenza sociale sarà stroncata sul nascere. Non solo, una volta che l'integralismo si propone come soluzione ai mali e alle pene che le masse islamiche soffrono, prende corpo l'assunto che la futura società edificherà le sue fondamenta nel rispetto delle leggi della teocrazia, della sudditanza nei confronti del potere, e che lo stesso rispetto andrà portato ai rapporti di produzione capitalistici, immutabili nel tempo e nello spazio al pari della sharia che viene insegnata nelle madrase. Sarebbe come consegnare le speranze della ripresa del movimento comunista nelle mani del suo più viscerale nemico prima ancora che possa iniziare ad esprimersi, in una sorta di suicidio politico, peraltro già drammaticamente sperimentato nella storia del movimento proletario.

Al contrario le masse islamiche devono essere sottratte alla venefica morsa dell'inte-gralismo, questa e solo questa è la condizione perché si possa realizzare un principio di identificazione di classe, premessa necessaria a qualsiasi ripresa di lotta della classe stessa. Né vale la considerazione che, in mancanza di un partito che in loco possa svolgere il ruolo di polarizzazione delle istanze sociali e di decantazione delle strategie politiche, l'unico atteggiamento possibile sia quello di sostenere le lotte dell'integralismo, di spingerle sino alle estreme conseguenze, per poi usufruire dell'esplodere delle sue contraddizioni, il tutto nell'attesa che si formi un movimento comunista interno all'area islamica e su scala internazionale per poi procedere nel giusto verso della lotta di classe. Proprio qui sta il nodo. Se le masse sono oggetto del tranello borghese dell'integralismo, oltre ai fattori storici e politici precedentemente espressi, è perché manca sulla scena islamica un partito di classe che percorra la sua strada politica, non sovrapposta e nemmeno parallela a quella dell'integralismo. Allora il compito primario che si pone è quello di favorire la nascita delle prime avanguardie comuniste, premesse indispensabili alla costruzione del partito rivoluzionario di domani, e non quello di scegliere tattiche suicide che, pur di essere con le masse, inibiscono qualsiasi concreto passo in avanti verso la costruzione del partito di classe.

Le masse islamiche non hanno bisogno del sostegno, peraltro distante e platonico, di chicchessia voglia percorrere con loro un cammino politico contrario ai loro interessi contingenti e di prospettiva, bensì necessitano di una guida politica che, dalle condizioni economiche e politiche date, faccia loro intravedere l'unica alternativa possibile alle false mete che il condizionamento borghese propone. Se l'unica alternativa è la costruzione del partito rivoluzionario, questa non potrà mai nascere nel solco dell'anticomunismo integralista ma, al contrario, dallo scontro con esso, da subito, con determinazione e chiarezza delle rispettive, inconciliabili, prospettive future. Qualsiasi altra soluzione politica è solo annunciatrice di tradimento e di sconfitta di classe.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.