Sul periodo di transizione

Tra le tante falsità scagliate contro il marxismo fin dal momento della sua apparizione, c'è anche quella di essersi solo limitato a critiche distruttive della società borghese senza offrire alternative convincenti per l'incapacità - ossia l'impossibilità, sottintendono gli ideologi borghesi - di delineare con sufficiente chiarezza i tratti della società comunista.

In realtà, le cose non stanno affatto così.

In più di un'occasione, infatti, Marx ed Engels sono intervenuti per puntualizzare quelle che dovranno essere le caratteristiche generali di una comunità umana che ha eliminato ogni forma di sfruttamento e di oppressione; e se si sono sempre rifiutati di cucinare suggestive ma fantasiose ricette per l'avvenire - alla maniera del socialismo utopistico - ciò va solamente a merito del materialismo storico, che non si è lasciato intrappolare in una visione idealistica e statica dell'agire umano.

Una volta tratteggiate le direttrici fondamentali del percorso rivoluzionario che dovrà portare al superamento del capitalismo, saranno i proletari in carne ed ossa che, sulle basea delle specifiche condizioni storiche in cui si troveranno a vivere, riempiranno di contenuti concreti quelle indicazioni, punti fermi indispensabili della strategia comunista.

Per questo il dibattito intorno alla fase post-rivoluzionaria non ha mai avuto per le forze autenticamente comuniste un carattere ozioso, cioè di astratta esercitazione letteraria, ma ha sempre rivestito un ruolo di primaria importanza: solo se si ha la massima chiarezza sui fini si può imboccare la via giusta per conseguirli.

Per esempio, non fu l'amore per la polemica puntigliosa e pedante che spinse Marx nel 1875 a criticare radicalmente il programma del neonato partito socialdemocratico tedesco nelle Glosse marginali al programma del Partito operaio tedesco, più conosciute come Critica al programma di Gotha. Che poi il suo intervento non abbia impedito alla socialdemocrazia tedesca e alla II Internazionale di agire sostanzialmente sulla base di quel programma, è un altro discorso che esula da questo lavoro; rimane comunque l'esigenza di tenere viva la discussione sulla fase di transizione dal capitalismo al comunismo. Anzi, la cosa ci pare tanto più necessaria in quanto la controrivoluzione staliniana ha profondamente inquinato e stravolto i termini della questione; non è un caso che, oggi, la quasi totalità delle forze "di sinistra" che, a vario titolo, si riconoscono in un non meglio precisato antagonismo, sguazzino in un tale pantano teorico-politico che, a paragone, il Programma di Gotha era limpida acqua di fonte.

Il presente lavoro, dunque, ben lungi dalla pretesa di risolvere un problema così complesso qual è quello del periodo di transizione, vuole essere un contributo alla discussione tra rivoluzionari, ripartendo dal dibattito interno alle ultra minoritarie "sinistre comuniste" degli anni trenta, che, da posizioni teoriche differenti, se non opposte, cercavano di mantenere viva nella classe operaia la prospettiva anticapitalista sotto il fuoco congiunto di fascismo, stalinismo e democrazia borghese.

Ma questa prospettiva, per essere tale, doveva necessariamente fare i conti con l'Ottobre bolscevico: è dalle valutazioni complessive sulla prima esperienza di potere proletario e sul suo corso degenerativo che si sarebbe misurata la fecondità rivoluzionaria delle diverse posizioni e, quindi, la legittimità - allora e dopo - di porsi come polo di riferimento per una coerente azione rivoluzionaria di lungo respiro.

Prenderemo dunque in considerazione le analisi prodotte dal "Comunismo dei consigli" - frutto dell'evoluzione "naturale" dell'Estremismo tedesco-olandese - e dalla nostra Frazione (1) che tra le due guerre mondiali, e in rottura netta col trotskysmo, denunciarono la controrivoluzione staliniana. Anzi, il consiliarismo, sviluppando fino in fondo i tratti fortemente idealistici presenti nel suo patrimonio genetico, criticò e respinse tutta l'esperienza bolscevica, giudicata una variante radicale della socialdemocrazia, bollando la rivoluzione d'ottobre come una rivoluzione borghese-giacobina.

È partendo da questi presupposti che il GIC olandese - Gruppo dei comunisti internazionali (2) - nel 1930 fece uscire un saggio in tedesco intitolato Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista (3) col quale intendeva delineare gli aspetti caratterizzanti la società comunista.

Dopo aver passato in rassegna le varie elaborazioni sul periodo post-capitalista dei teorici socialdemocratici e apertamente borghesi (Kautsky, Hilferding, ecc.) per "dimostrare" la stretta parentela del bolscevismo con costoro, il GIC espone gli schemi sui quali dovrebbe poggiare il comunismo. Ma già dalle prime battute il libro rivela uno dei suoi - tanti - difetti di fondo ossia il fatto che per gli internazionalisti olandesi sembra non esistere differenza alcuna tra il periodo di transizione propriamente detto e il comunismo. Nessun riferimento - se non in termini estremamente vaghi affioranti qui e là nel corso dell'esposizione - alle difficoltà che accompagnano il periodo successivo alla presa del potere da parte del proletariato, alla resistenza accanita opposta dalla borghesia col suo seguito di lutti e distruzioni, alle resistenze provenienti dai settori proletari più arretrati, quando non apertamente schierati sul fronte borghese, ecc.

Non solo, manca completamente qualsiasi accenno all'aspetto internazionale e internazionalistico sia della rivoluzione che del comunismo, tanto che, volendo giocare coi paradossi, si potrebbe anche credere che il GIC teorizzi il comunismo su... "una nuvola sola". Il semplicismo che regge l'intero discorso è davvero disarmante, anche se, naturalmente, non stupisce: ossessionati dal centralismo e dai "capi" (termini che per gli olandesi sono sinonimi sempre e comunque di prevaricazione e oppressione), individuano una delle cause, se non la causa dello stalinismo (o del bolscevismo, per loro non fa differenza) nella centralizzazione dell'economia operata dai comunisti russi che avrebbero espropriato la classe operaia del potere subito dopo l'insurrezione. Che i bolscevichi, in vana attesa dell'apporto indispensabile del proletariato dei paesi più progrediti nonché isolati in un mare di difficoltà e di contadiname piccolo borghese, cominciassero a muoversi su un terreno suscettibile di compromettere le sorti della rivoluzione dentro e fuori la Russia, già al tempo di Lenin, è fuori dubbio (4); ma nei Principi non c'è niente di tutto questo e il nodo cruciale della dittatura viene miseramente ridotto a una questione economicistica:

Il proletariato definisce il rapporto di base che deve intercorrere tra il produttore e il suo prodotto. Questo e soltanto questo [sottolineatura nostra - ndr] è il nocciolo della questione rivoluzionaria per il proletariato [...] La dittatura del proletariato serve per introdurre il nuovo tipo di calcolo della produzione e per portarlo a essere la base della produzione. (5)

Su che cosa si deve allora fondare questo nuovo tipo di calcolo? Sul tempo di lavoro sociale medio, la cui unità elementare è l'ora. Poiché tutti i beni in circolazione sono il prodotto del lavoro umano, introducendo come unità di misura il lavoro sociale medio si può calcolare esattamente - dicono gli olandesi - il "valore" di tutto ciò che entra ed esce nel processo produttivo:

il calcolo di quanto tempo di lavoro è contenuto nei loro prodotti [...] è la misura della loro partecipazione [dei produttori - ndr] al prodotto sociale. (6)

Dunque, l'operaio che lavora, mettiamo, otto ore, riceve in cambio tanti beni che contengono quasi lo stesso numero di ore di lavoro; il "quasi", è obbligatorio perché dal monte ore complessivo di quelle che il GIC chiama "aziende produttive" bisogna togliere quelle che vanno ad alimentare le cosiddette "aziende pubbliche" - scuole, ospedali, istituzioni culturali ecc. - e il fondo di accumulazione, necessario per la ricostituzione delle materie prime, la sostituzione del macchinario e via dicendo.

La partecipazione al processo economico complessivo è attestato dal rilascio di un buono o denaro-lavoro che, sulla base delle indicazioni di Marx (7), è una semplice unità di conto e non merce-denaro, equivalente generale del valore di scambio, cioè non circola. In tal modo, nessuno può appropriarsi del lavoro altrui attraverso la circolazione monetaria. Quindi, mentre i produttori utilizzerebbero il denaro-lavoro per soddisfare i consumi individuali, i servizi offerti dalle "aziende pubbliche" sono erogati senza ricevere nulla in cambio e, anzi, tanto più si sviluppa il comunismo quanto più le "aziende produttive" si trasformano in "aziende pubbliche", sebbene, secondo il GIC, anche nel comunismo pieno...

mentre la produzione viene sempre maggiormente socializzata, il tempo di lavoro continua a restare la misura della parte di prodotto sociale da distribuire individualmente. (8)

Queste ultime considerazioni sono però palesemente in contrasto con le indicazioni date da Marx, il quale ha specificato a chiare lettere che nel comunismo la misura della ricchezza - e della partecipazione alla ricchezza - è data non più dal tempo di lavoro, ma dal tempo disponibile poiché...

lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà [...] comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna. (9)

Lo sguardo pre-marxista del GIC non sa immaginare una società che, mutati radicalmente i rapporti sociali, sappia mettere l'intelligenza e l'energia di ogni essere umano a disposizione di tutta l'umanità; è ancora immersa nella logica del socialismo utopistico che non sapeva andare al di là del suo tempo. Non solo, quindi, il consiliarismo non riesce a considerare gli individui in altro modo che come produttori, quando invece nel comunismo questo sarà solo un aspetto della loro identità, ma, riflettendo specularmente l'organizzazione capitalista del lavoro, eleva l'azienda a perno su cui ruota la società comunista e lì vi inchioda l'operaio. Dato che, come abbiamo visto, il problema cruciale della rivoluzione è quello di introdurre un nuovo tipo di calcolo della produzione, ciò può essere agevolmente determinato, in quanto...

ogni azienda è guidata e diretta dalla sua “organizzazione” d'azienda come unità indipendente, proprio come nel capitalismo. (10)

Lasciando da parte ogni considerazione in merito al concetto economico di azienda, ancora una volta emerge potentemente l'idealismo della sinistra tedesco-olandese, perché insiste a mischiare o, meglio, a non chiarire le differenze fondamentali che intercorrono tra il periodo di transizione e il comunismo, dando per implicito che all'indomani della rivoluzione la classe operaia sappia prendere immediatamente in mano la direzione dell'economia e che non incontri (di nuovo) ostacoli di sorta.

Ora è vero che oggi, probabilmente, al contrario del 1917 russo, è molto più difficile arrivare alla rivoluzione che non gestire la fase di transizione, sia perché il proletariato è anche numericamente la componente maggioritaria della società, sia perché la piccola borghesia (contadini, lavoratori autonomi e dipendenti a reddito medio-alto, ecc.) ha scarse possibilità di esercitare il suo ricatto economico sul potere proletario: un intermediatore finanziario può benissimo sparare addosso agli operai, ma coi suoi titoli di carta ormai privi di valore non può affamarli; tuttavia, rimane comunque il dato fondamentale che il modo di produzione capitalistico, con tutto ciò che ne consegue sul piano dei comportamenti individuali e collettivi, non può sparire dall'oggi al domani, gravando ancora per un certo periodo sulla classe operaia e condizionandone negativamente il processo di emancipazione dal capitale.

Il rischio che corrono i salariati di identificarsi con la logica aziendale, perdendo di vista gli interessi generali, è tanto più presente quanto più grandi sono le difficoltà materiali che insidiano le basi su cui deve sorgere una società diversa. Contrariamente alla fantasie consiliariste, tutto questo può essere verificato nel concreto svolgimento storico della rivoluzione russa:

Se i padroni abbandonavano le aziende e i Comitati di fabbrica diventavano padroni per forza di cose, allora questi si impadronivano spesso del punto di vista “padronale” e, dimenticando l'utilità economica generale, difendevano la loro fabbrica, anche se altre fabbriche erano più importanti per lo Stato e meglio equipaggiate. La concorrenza e la tendenza a contendersi le magre risorse che assicuravano la vita dell'azienda mettevano i Comitati di fabbrica in una situazione di “federazioni autonome” di tipo semi-anarchico. (11)

Un comportamento simile non era estraneo nemmeno all'Ungheria dei consigli:

I proletari che amministrano le aziende espropriate troppo facilmente cominciano a credere che le aziende siano una proprietà loro e non dell'intera società. (12)

Ci si potrebbe obiettare che le testimonianze sono interessate, in quanto provengono da due esponenti del "centralismo" che per di più in seguito passarono armi e bagagli allo stalinismo, ma, in ogni caso, rimane il fatto incontestabile che una coscienza comunista compiuta non appartiene alla "classe in sé", alla massa del proletariato e se, durante il processo rivoluzionario, diventando per la prima volta protagonista della propria vita, matura progressivamente livelli di coscienza sempre più alti, di fronte a difficoltà di natura materiale è sempre soggetta a essere risucchiata dai rapporti sociali borghesi non ancora del tutto scomparsi.

Per questo è imprescindibile la presenza del partito rivoluzionario che, unico, indica le prospettive generali di lotta al proletariato in quanto classe e non in quanto membro di questa o quella impresa.

Certamente, il partito da solo non basta e, anzi, chi confonde la dittatura proletaria con quella del partito si mette - sia pure senza volerlo - sulla pericolosissima china che porta allo stalinismo; ma nemmeno i soviet, in sé e per sé, possono spianare la strada al comunismo, quanto piuttosto alla sconfitta totale (ammesso e non concesso che un soviet completamente "immune" da influenze politiche possa mai esistere).

I consigli tedeschi del 1918, che rifiutarono i "capi" comunisti (13), furono docili strumenti della socialdemocrazia, e i Consigli di fabbrica italiani del 1920, ugualmente indenni dal "centralismo" bolscevico, si sottomisero al diktat della controrivoluzionaria CGL.

Ma il GIC, col tipico atteggiamento di chi vuole a tutti i costi costringere dentro i propri schemi ideologici una realtà che li smentisce, parlano di funzionamento spontaneo dei soviet (Trotsky era allora presidente del circolo del tennis?), evitando di affrontare la questione dello stato o, meglio, semi-stato proletario.

Nei Principi non c'è una riga in cui questo problema sia preso in esame, e del tutto coerentemente, in considerazione del fatto che il soviet si riduce ad essere una specie di consiglio di amministrazione riservato alle maestranze e un ente di ragioneria contabile, invece di essere, qual è, prima di tutto l'organo del potere proletario, che, pur partendo necessariamente dai luoghi di lavoro, si dispiega a livello territoriale. Se questo era vero allora, lo è tanto più oggi quando - e non solo in Italia - la classe operaia (intesa in senso lato) è sottoposta a un processo di frammentazione e di distribuzione sul territorio, a causa del ridimensionamento delle grandi fabbriche e delle trasformazioni nell'organizzazione del lavoro.

Ancora una volta, l'idealismo congenito dei consiliaristi li porta a queste semplificazioni esasperate, sempre intimamente connesse con l'ossessione anti-centralista, tanto che si arriva a rifiutare anche un ufficio centrale di statistica che coordini il censimento generale dei bisogni e delle risorse, in quanto inevitabilmente - a loro parere - diverrebbe un organo di oppressione del proletariato.

È ammesso solamente un organismo centrale - la Contabilità Sociale Generale, col compito di tenere il conto dei movimenti economici complessi - che però non deve in nessun modo interferire nell'autodeterminazione delle singole aziende. In tal modo, una volta che siano state stabilite le regole economiche generali e il relativo sistema di calcolo, il meccanismo sociale diverrebbe così perfetto da fare addirittura a meno dell'intervento degli esseri umani, che, come ci insegna ogni religione, sono soggetti a peccare:

Ogni tipo di economia in cui il rapporto tra produttori e prodotto non sia esatto, e invece sia determinato da persone, necessariamente si svilupperà come apparato di sfruttamento, anche una volta che fosse stata eliminata la proprietà privata dei mezzi di produzione.

È per questo, dunque, che:

nel comunismo di Stato [leggi URSS - ndr] dove l'intera vita economica è determinata da persone mediante la statistica, anche il controllo appare come una funzione personale,

mentre il controllo come lo intende il GIC:

considera separatamente gli elementi della produzione, riproduzione, accumulazione e distribuzione e, in un certo senso, funziona automaticamente. (15)

Tutto questo in considerazione del fatto che:

la dittatura economica [è] l'arma più potente del proletariato vittorioso,

il quale nel processo rivoluzionario avrà ben poco da fare, poiché:

La realizzazione della rivoluzione sociale [...] è per buona parte un compito che spetta alla contabilità sociale generale. Questo compito sarà regolamentato dalle nuove leggi economiche che allora vigeranno. (16)

È curioso osservare come sistemi ideologici tanto diversi possano ritrovarsi sullo stesso terreno di mascheramento della realtà. Il comunismo "senza persone" del GIC assomiglia stranamente all'immaginario "mercato autoregolato" dell'ideologia borghese, che, se preservato dall'azione perturbatrice degli uomini, assicurerebbe al genere umano benessere e felicità; o, ancora, ricorda da vicino l' "impersonale" comunismo del bordighismo, dove gli individui in carne ed ossa si dissolvono nella "Specie"...

Quali conclusioni trarre, dunque? Finché il GIC si attiene letteralmente alle indicazioni più volte espresse da Marx ed Engels sui criteri generali caratterizzanti la produzione e la distribuzione della società comunista (17) non c'è nulla da obiettare, ma allora i Principi non aggiungono niente a quanto il proletariato rivoluzionario dispone già da un secolo e mezzo circa. Quando invece si staccano dalla solida base del materialismo storico e camminano da soli, non solamente si rivelano inutili, ma diventano anche pericolosi, perché condurrebbero inevitabilmente alla catastrofe quella classe operaia che, disgraziatamente, li prendesse a fondamento della propria azione rivoluzionaria.

Ben altra aria si respira, invece, nello studio che Mitchell, membro della Frazione belga, pubblicò a puntate su Bilan, la rivista della Frazione italiana (18).

Sebbene questo lavoro non sia esente da limiti anche gravi - come vedremo - ha il grande merito di collocarsi sul terreno dell'analisi materialista della realtà così com'è, e non come è raffigurata nell'immaginario idealistico del consiliarismo. Mitchell, infatti, affronta il tema della transizione nella sua interezza ovvero nei suoi aspetti politici, sociali ed economici, colti nel loro sviluppo dialettico, dunque senza cadere nell'errore di appiattire la complessità della lotta di classe in un ingenuo e semplificatorio economicismo.

Significativamente, nelle righe d'introduzione si legge, in polemica col GIC, che:

noi [non] ci abbandoneremo a investigazioni nelle nebbie dell'avvenire o [non] tratteggeremo soluzioni ai molteplici e complessi compiti che si imporranno al proletariato eretto in classe dirigente [...] lasciamo ad altri, ai “tecnici” e ai fabbricanti di ricette, o agli “ortodossi” del marxismo, il piacere di lasciarsi andare alle anticipazioni, di passeggiare lungo i sentieri dell'utopismo o di gettare in faccia ai proletari formule prive della loro sostanza di classe... Per quanto ci riguarda, non si tratta di costruire degli schemi-panacee valevoli una volta per tutte e che, meccanicamente, si adatterebbero a ogni situazione storica. Il marxismo è un metodo sperimentale e non un gioco a quiz o di pronostici. (19)

Per cominciare, quindi, Mitchell colloca correttamente la rivoluzione e il conseguente periodo di transizione nel loro contesto internazionale e internazionalista - cosa che, come abbiamo visto, manca completamente nel saggio dei comunisti olandesi - criticando radicalmente uno dei cardini teorico-pratici del menscevismo, compresa la sua ala radicale ossia il consiliarismo, che, interpretando il marxismo in maniera meccanicista, non arriva mai ad afferrare fino in fondo la natura dell'imperialismo e le sue implicazioni per la lotta di classe rivoluzionaria. Se il menscevismo e l'idealismo in genere - di cui Gramsci è stato senz'altro uno dei maggiori esponenti - rifiutò la rivoluzione d'Ottobre in quanto "rivoluzione contro il Capitale" (20), cioè una rivoluzione volontaristica che avrebbe smentito Marx andando contro il normale (?) sviluppo capitalistico, anche...

certi compagni dell'opposizione comunista hanno tuttavia basato la loro valutazione della Rivoluzione russa sul criterio della “maturità” economica. (21)

In nome di questa interpretazione meccanicistica dello sviluppo capitalistico, il consiliarismo ha negato - sbagliando profondamente - il carattere proletario dell'Ottobre, cioè la possibilità di una rivoluzione comunista anche nei paesi meno sviluppati, purché l'aggettivo comunista si intenda correttamente come riferito al programma del rivolgimento rivoluzionario, alle forze sociali e politiche che lo dirigono e alla prospettiva internazionale in cui è e deve essere inserito. Paul Mattick, uno dei massimi rappresentanti del menscevismo radicale, nella prefazione all'edizione italiana dei Principi, parlava di:

paesi capitalisti a sviluppo avanzato, cioè nei paesi in cui è possibile la rivoluzione socialista,

come se oggi (cioè da più di un secolo) tutti i paesi, avanzati e arretrati, non facessero parte dell'unica catena imperialista che stringe il mondo intero. Per questo, Mitchell rileva che:

tutte [le componenti nazionali dell'economia mondiale - ndr] sono storicamente mature per il socialismo, ma_ nessuna _di loro è matura al punto da riunire tutte le condizioni materiali necessarie all'edificazione del socialismo integrale, qualunque sia il livello di sviluppo raggiunto [quindi è] astratto porre la questione dei paesi “maturi” o “non maturi” per il socialismo, poiché il criterio di maturità è da respingere sia per i paesi a sviluppo superiore che per i paesi ritardatari. (22)

Insomma, il problema non è di natura economica, ma politica ossia non si può prescindere dalla saldatura della rivoluzione proletaria in quel determinato paese con la rivoluzione mondiale. In tal modo viene posta nei suoi giusti termini anche l'altra questione, "risolta" come sempre in modo estremamente semplicistico da consiliarismo, riguardante la capacità di tutto il proletariato di pervenire a un grado di coscienza anticapitalistica compiuta prima della rivoluzione e di gestire l'apparato economico-amministrativo senza le difficoltà caratterizzanti la fase di transizione:

D'altra parte, subordinare lo scatenamento della rivoluzione alla capacità pienamente realizzata dalle masse di esercitare il potere, vorrebbe dire rovesciare i termini del problema storico così come si pone, a negare insomma la necessità dello Stato di transizione e del partito. (23)

E questo vale tanto per il proletariato dei paesi arretrati quanto quello dei paesi sviluppati; non entrano in gioco, infatti, solamente i dati "tecnici" del grado di sviluppo economico e quindi tecnologico - pur sempre di primaria importanza - quanto, ancora una volta, quelli politici. Rifacendosi ai passi fondamentali della _Critica al programma di Gotha (24), rileva che se, per una serie di cause che qui non elenchiamo...

gli operai russi hanno avuto effettivamente le officine in mano e non hanno potuto gestirle...

non se ne deve dedurre che gli operai "occidentali" saranno esenti da difficoltà, perché:

è loro impossibile forgiare, nell'ambiente pestilenziale del capitalismo e dell'ideologia borghese, una coscienza sociale “integrale” che permetta loro di risolvere, “da sé stessi”, tutti i problemi. Storicamente è il partito che concentra questa coscienza sociale e ancora non può svilupparla che sulla base dell'esperienza; vale a dire che non apporta soluzioni preconfezionate, ma che le elabora al fuoco della lotta sociale, dopo (soprattutto dopo) come prima della Rivoluzione. E in questo compito colossale, lungi dal contrapporsi al proletariato, il partito si confonde con lui, perché senza la collaborazione attiva e crescente delle masse deve egli stesso diventare preda delle forze nemiche. (25)

A questo proposito, Mitchell, nel corso della sua esposizione, a nostro parere lascia sussistere dubbi sul significato reale dell'espressione "dittatura del proletariato", in quanto a volte la identifica nella dittatura del partito, il che sarebbe non solo inaccettabile, ma anche contraddittorio con altri passi in cui l'essenza della dittatura proletaria è correttamente indicata nella parola d'ordine:

tutto il potere ai Soviet. (26)

Nonostante queste ambiguità, individua una delle cause primarie della degenerazione del potere sovietico nell'identificazione che si venne a creare tra stato proletario e partito, intrecciata perversamente al progressivo svuotamento degli organismi di massa proletari:

Ma lo Stato sovietico non fu considerato dai bolscevichi, attraverso terribili difficoltà contingenti, un “flagello che il proletariato eredita e di cui dovrà attenuare i più spiacevoli effetti”, ma come un organismo che si poteva identificare completamente con la dittatura proletaria, vale a dire col Partito [...] Sebbene Marx, Engels e soprattutto Lenin avessero più volte sottolineato la necessità di opporre allo Stato proletario il suo antidoto proletario, capace di impedire la sua degenerazione, la Rivoluzione russa, lungi dall'assicurare il mantenimento e la vitalità delle organizzazioni di classe del proletariato, le sterilizzò incorporandole nell'apparato statale e così divorando la sua propria sostanza. (27)

Infatti, proprio perché nella fase di transizione permangono sopravvivenze economiche, sociali e giuridiche della società borghese, lo stato proletario, a differenza delle forme statali delle società divise in classi, assume un carattere contraddittorio, dualistico, di organismo, cioè, che mentre esercita la repressione di classe allo stesso tempo deve portare all'estinzione ogni forma di sfruttamento e di oppressione. Quindi, in quanto strumento di potere, è continuamente esposto al rischio - sottolinea Mitchell - di diventare polo di attrazione di ogni forma di privilegio ossia delle sopravvivenze di cui sopra; questo pericolo incombente, che per primo Lenin denunciava già pochi mesi dopo l'insurrezione (28), si concretizzò pienamente nella valanga staliniana che travolse ogni cosa.

Si è detto delle sopravvivenze borghesi. Infatti, la transizione non è un atto ma un processo e ciò vuol dire, lo ricordiamo, che il capitalismo non scompare immediatamente, come ingenuamente si immagina il GIC, il quale arriva a pensare che il denaro possa essere abolito nel giro di due mesi (!) di dittatura proletaria (29).

Il lavoro, quindi, nella prima fase post-rivoluzionaria conserva ancora le sue caratteristiche di merce e il salario corrisponde alla remunerazione della forza-lavoro e non del lavoro ossia permane la differenza...

tra la quantità di lavoro erogata per la riproduzione di questa forza [il lavoro necessario - ndr] e la quantità totale di lavoro che questa stessa forza fornisce in un tempo determinato. (30)

Sussistono dunque ancora il valore di scambio e il denaro, ma in un contesto di progressivo deperimento, a condizione che il proletariato eserciti realmente e non formalmente la dittatura attraverso i suoi organismi di massa e livello locale e internazionale. Che cosa significa tutto questo? Che:

la politica del partito, stimolata dall'attività rivendicativa degli operai, attraverso i loro organi sindacali [noi diremmo, invece, il partito più i soviet, non i sindacati - ndr] deve precisamente tendere ad abolire la contraddizione tra forza-lavoro e lavoro [...] sviluppata all'estremo dal capitalismo. In altri termini, all'uso capitalista della forza-lavoro in vista dell'accumulazione di capitale deve sostituirsi l'uso “proletario” di questa forza-lavoro verso bisogni pienamente sociali [...] Nell'organizzazione della produzione, lo Stato proletario deve dunque ispirarsi,_ prima di tutto_, ai bisogni delle masse, sviluppare le branche produttive che possano soddisfarli. (31)

Quindi orientare la produzione verso i bisogni significa mettere eventualmente un freno allo sviluppo delle forze produttive o, detto meglio, sviluppare solo quelle utili all'umanità (il vero "sviluppo sostenibile"), ma vuol dire anche alterare via via la legge del valore fino alla sua totale scomparsa. Contrariamente agli olandesi, Mitchell ritiene inoltre che in questa primissima fase sia giocoforza mantenere categorie salariali diverse, pena il caos produttivo; tuttavia, osserva giustamente che quanto più si sviluppa la produttività del lavoro sulla spinta delle innovazioni tecnologiche, tanto più diventa agevole il cammino verso una riduzione (verso l'alto, naturalmente) del ventaglio salariale. Insomma, già negli anni 1920 se il proletariato "d'Occidente" avesse preso il potere, si sarebbe risparmiato quegli ostacoli disseminati come macigni sulla strada del proletariato russo:

In questi paesi [Germania, Inghilterra, ecc. - ndr] le categorie salariali potranno avvicinarsi ben di più che in URSS, in virtù della legge secondo la quale lo sviluppo della produttività del lavoro tende al livellamento delle qualità di lavoro. Ma i marxisti non possono dimenticare che “l'asservente subordinazione degli individui alla divisione del lavoro”, e con essa il “diritto borghese”, non possono scomparire che sotto la spinta irresistibile di una tecnica prodigiosa messa al servizio dei produttori. (32)

Già, il "diritto borghese". Anche questo concetto è usato polemicamente contro i consiliaristi, i quali, come abbiamo cercato di dimostrare, ritengono che l'esistenza delle classi e, quindi, lo stesso concetto di valore, spariscano una volta che alla base della produzione e della distribuzione comuniste sia stata posta l'ora di lavoro sociale medio. Richiamandosi direttamente a "Gotha" (33) e facendo riferimento alla fase inferiore del comunismo, Mitchell osserva che:

quando Marx parla di un principio analogo a quello che regola lo scambio delle merci e di un quantum individuale di lavoro [tanti beni contro tante ore di lavoro - ndr] sottintende inevitabilmente il lavoro semplice, sostanza del valore, il che significa che tutti i lavori devono essere ridotti a una misura comune per poter essere comparati, valutati e di conseguenza remunerati in applicazione del diritto che è proporzionale a lavoro fornito. (34)

Ma essendo gli individui naturalmente diversi, ciò che riceveranno in cambio - defalcati naturalmente i beni per chi non può lavorare e per la ricostituzione delle scorte, dei macchinari, ecc. - non sarà uguale alla quantità di lavoro effettivamente erogata, quindi la distribuzione sarà diseguale. Certo, non ci sarà comunque lo sfruttamento, dato che i mezzi di produzione apparterranno realmente alla collettività non più divisa in classi, e nessuno si impadronirà del lavoro altrui attraverso il denaro, perché il "denaro-lavoro" non circolerà, ma sarà strettamente personale. In ogni caso, dice Mitchell, il concetto di valore e il diritto borghese spariranno solamente nel comunismo pieno, quando la società potrà...

scrivere sulle sua bandiere: Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni. (35)

Vista la necessità di una base economica sviluppata su cui far crescere il socialismo, Mitchell mette però in guardia dal considerare lo sviluppo delle forze produttive come un elemento che possa caratterizzare, in sé e per sé, la fase di transizione. Posto che:

i compiti del proletariato vittorioso, in rapporto alla sua propria economia, sono subordinati alla necessità della lotta di classe internazionale... (36)

la politica economica rivoluzionaria...

consiste nel modificare il fine della produzione e non nell'accelerare il suo ritmo sulla miseria del proletariato, esattamente come avviene nel capitalismo. (37)

L'aumento delle forze produttive non può dunque avvenire a spese della classe operaia attraverso l'aumento forsennato del pluslavoro mediante l'allungamento dell'orario e l'intensificazione parossistica dello sforzo lavorativo; al contrario, il processo rivoluzionario deve:

fissarsi delle norme di ritmo e di durata de lavoro compatibili con l'esistenza di una vera dittatura del proletariato, (38)

che non può fondarsi, aggiungiamo noi, su masse abbrutite, alienate da un lavoro massacrante e stressante, private, oltre a tutto il resto, del tempo materiale per alimentare con una presenza diretta e attiva gli organismi di classe del proletariato. È evidente che ci si riferisce sia all'industrializzazione forzata, imperniata sullo sfruttamento coatto e "volontario" di milioni di persone, sia all'opposizione trotskysta, che in quegli anni, prima di essere massacrata in nome del "socialismo" nazionale, aveva in gran parte capitolato di fronte allo stalinismo, abbagliata dal tragico equivoco dei piani quinquennali, nella cui attuazione credeva di vedere - seppure in modo violento ed esasperato - l'attuazione della propria piattaforma economica.

D'altra parte, però, è giusto nella individuazione della natura sociale dell'URSS che Mitchell non sviluppa fino in fondo le premesse teorico-metodologiche della sua analisi, evitando di caratterizzare l'ex paese dei soviet come paese a capitalismo di stato. La cosa è, in un certo senso, sorprendente, perché egli stesso aveva giustamente osservato, sulla scorta dell'Anti-Duhring di Engels, che statizzazione dei mezzi di produzione e di distribuzione non significa affatto socialismo, in quanto occorre prima di tutto...

cogliere la natura e la funzione delle forze sociali che agiscono sulle forze produttive. (39)

Ma di fronte all'Unione Sovietica, pur denunciando più di una volta - come abbiamo visto - il carattere antioperaio dello stalinismo, afferma che:

in URSS il processo di lavoro è capitalista nella sostanza salvo che per i suoi aspetti sociali e i rapporti di produzione [dato che tale processo si svolge su ] un enorme apparato produttivo che resta proprietà collettiva. (40)

Non importa, dunque, che la burocrazia...

in quanto classe disponga dell'economia e della produzione e si appropri il pluslavoro,

ossia presenti tutte le caratteristiche della classe capitalista: rimane il fatto che la ricchezza prodotta resterebbe proprietà collettiva e non si trasformerebbe in proprietà privata. Mitchell, insomma, si fa invischiare nel falso problema delle forme giuridiche, dopo aver descritto brillantemente i meccanismi di sfruttamento del capitalismo di stato. Allora, "l'enigma russo" si spiega innanzi tutto con l'isolamento politico del proletariato di quel paese da quello europeo e con l'adozione da parte del "Centrismo" [lo stalinismo - ndr] di una politica di chiusura entro i confini nazionali che presuppone l'abbandono della prospettiva internazionalista. Da ciò ne consegue la necessaria integrazione nel concerto imperialistico mondiale, quindi lo sviluppo di un'economia di guerra ossia i piani quinquennali - per non essere sopraffatto nell'arena imperialistica mondiale - basata inevitabilmente sullo sfrenato sfruttamento della classe operaia. Il pluslavoro ad essa estorto in forme sempre più bestiali alimenterebbe perciò non solo e non tanto la burocrazia, quanto, appunto, l'economia di guerra che caratterizza tutti i paesi capitalisti; la mostruosità del "socialismo in un solo paese" è frutto del rifiuto di considerare la strategia rivoluzionaria in un'ottica strettamente internazionalista germogliato sull'erronea valutazione in merito alla "stabilizzazione" capitalistica degli anni 1920. Cogliendo solo parzialmente alcuni aspetti del processo controrivoluzionario, gira attorno al nocciolo della questione, finendo in contorcimenti teorici che stridono fortemente con la lucida intelligenza politica per molti altri versi dimostrata da questo e altri compagni della Frazione; si registra così come quei compagni non si fossero ancora scrollati completamente di dosso (e alcuni non vi riusciranno mai) le "macerie della Terza Internazionale".

Ma non è che il GIC, nonostante le apparenze, possa vantare - come fanno i suoi epigoni - maggiore chiarezza; se è vero che nei Principi sostiene a volte l'equazione capitalismo di stato=counismo di stato, è a quest'ultima espressione che ricorre più frequentemente, Ora, il "comunismo di stato" è una contraddizione in termini: se c'è il comunismo non c'è lo stato e viceversa; ma questa ambiguità si fonda, a sua volta, sull'equivoco - lo stesso in cui sono impigliati Mitchell e la Frazione - riguardante la parola socializzazione, che anche i consiliaristi confondono con la statalizzazione:

l'apparato produttivo potrebbe essere una proprietà sociale, ma fungere ancora da apparato di sfruttamento. (41)

Questo "comunismo di stato" sarebbe dunque un regime...

oppressivo [e fin qui ci siamo - ndr] che è ancora più difficile da combattere del capitalismo. (42)

Il che significa, se le parole hanno un senso, che il "comunismo di stato" e il capitalismo sono due cose diverse. A onor del vero, però, alla metà degli anni trenta pochissime figure dell'antistalinismo, che, in un modo o nell'altro, si richiamava al comunismo, avevano elaborato un'analisi corretta e compiuta della degenerazione dell'Ottobre in capitalismo di stato, e, tra queste, Onorato Damen (43).

Siamo così giunti al termine di questa sintetica ricapitolazione delle analisi sul periodo di transizione prodotte dalle "sinistre comuniste", che, in misura diversa e a volte anche in negativo, hanno fornito spunti interessanti.

Indubbiamente, però, oggi i termini della questione sono parzialmente mutati, cioè adeguati alle caratteristiche della nostra epoca. Certi nodi teorici sono stati dal nostro partito da gran tempo risolti un volta per sempre, (rapporto partito-consigli, sindacati e lotta di classe, ecc.); la prospettiva delle rivoluzioni nazional-popolari (cioè borghesi) appartiene ormai solo agli ultimi non riciclabili rottami della Terza Internazionale già intaccata dal riflusso rivoluzionario, mentre le innovazioni tecnologiche possono semplificare sensibilmente gli aspetti più strettamente economico-amministrativi della transizione. Con questo non si vuol dire - nella maniera più assoluta - che il comunismo sia meccanicisti-camente determinato dal grado di sviluppo tecnico-scientifico dell'apparato produttivo: dando la parola ancora una volta a Mitchell, ricordiamo che:

è dal punto di vista di una maturazione storica degli antagonismi sociali risultante dal conflitto acuto tra le forze materiali e i rapporti di produzione, che il problema deve essere affrontato, (44)

quindi, come sempre, dall'ottica della lotta di classe internazionale.

Non importa dove avvenga la rottura rivoluzionaria, non importa se i proletari lavorano su macchinari computerizzati o su "delocalizzati" macchinari "fordisti", purché questa rottura sia il punto di partenza della rivoluzione mondiale. Marx, che non si faceva intrappolare in assurdi schematismi ideologici, per primo indicò la strada della "rivoluzione contro il capitale":

Se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda, allora l'odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico. (45)

Era il 1882.

Celso Beltrami

(1) Per le notizie sulla Frazione vedi Prometeo, n. 2 e n. 4, IV serie, 1978-1980; per il comunismo dei consigli, vedi P. Bourrinet, Alle origini del comunismo dei consigli, Genova, Graphos, 1995. Abbiamo inoltre già trattato la questione attraverso una rilettura dei classici del marxismo, in "Strumenti di BC n. 2", La transizione dal capitalismo al comunismo.

(2) Cfr. Bourrinet, cit., parte terza.

(3) Gruppo comunisti internazionali olandesi (G.I.K.H), 1930: Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista, Milano, Jaka Book, 1974.

(4) Per queste questioni, vedi F. Damen, I nodi politici ed economici dello stalinismo nel nostro libro I nodi irrisolti dello stalinismo alla base della Perestrojka, edizioni Prometeo, 1989.

(5) Principi, cit., rispettivamente pag. 62 e pag. 63.

(6) Principi, cit., pag. 74.

(7) K. Marx, Il Capitale, Roma, Ed. Riuniti, 1980, libro primo, pag. 127, nota 50; libro secondo, pag. 374.

(8) Principi, cit., pag. 127.

(9) Vedi rispettivamente, K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica (Grundrisse) , Torino, Ed. Einaudi, 1977, pag. 721, Il Capitale, libro terzo, cit. pag. 933, Critica al Programma di Gotha, Ed. Riuniti, 1976, pagg. 29-32.

(10) Principi, cit., pag. 97.

(11) A. Pankratova_, I consigli di fabbrica nella Russia del 1917,_ Roma, Savelli, 1973 pagg. 66-67.

(12) E. Varga, I problemi politico-economici della dittatura della proletariato, Vienna, 1920, citato a pag. 168 dei Principi.

(13) Al primo congresso dei Consigli degli operai e dei soldati che si riunì a Berlino dal 16 al 21 dicembre 1918, la proposta di far assistere Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht alle sedute, con voto consultivo, venne respinta due volte a schiacciante maggioranza. Dei 489 delegati, solo 21 erano comunisti, di cui 10 provenienti dallo spartachismo e 11 dai gruppi di Amburgo, Dresda, Brema ecc.

(14) Principi, cit., pag. 126.

(15) Principi, cit., pag. 167.

(16) Principi, cit., pag. 190.

(17) Vedi i passi del Capitale e dei Grundrisse citati e Il Capitale, cit., libro primo, le pagg. 110, 577-78, 648; libro secondo, pagg. 139, 331; libro terzo, pagg. 231, 967.

(18) Lo studio Problemi del periodo di transizione (d'ora in avanti, Problemi) apparve sui numeri 28-31-34-35-37-38 da febbraio-marzo 1936 a dicembre-gennaio 1937 di Bilan; per le notizie su Mitchell, vedi Prometeo V serie, n. 12, 1996.

(19) Problemi, cit., pag. 935.

(20) Questo articolo di Gramsci (che, dalle suddette posizioni idealistiche, aderì però alla rivoluzione russa) apparve sull'edizione milanese dell'Avanti! il 24 novembre 1918.

(21) Problemi, cit., pag. 943.

(22) Problemi, cit., 942.

(23) Problemi, cit., pag. 1035.

(24)

Quello con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica, che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le “macchie” della vecchia società dal cui seno è uscita.

Critica al programma... cit., pag. 30

(25) Problemi, cit., pag. 1229.

(26) Problemi, cit., pag. 1038.

(27) Problemi, cit., pag. 1038

(28) Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, 28 aprile 1918, in Opere Scelte, Roma, Ed. Riuniti, 1965, pagg. 1116-1118.

(29) Principi, cit., pag. 225.

(30) Problemi, cit., pag. 1158.

(31) Problemi, cit., pag. 1260.

(32) Problemi, cit., pag. 1161.

(33) Critica al programma..., cit., pagg. 30-32.

(34) Problemi, cit., pag. 1158.

(35) Critica al programma..., cit., pag. 32.

(36) Problemi, cit., pag. 1220.

(37) Problemi, cit., pag. 1260.

(38) Problemi, cit., pag. 1260.

(39) Problemi, cit., pag. 1224.

(40) Problemi, cit., pag. 1263.

(41) Principi, cit., pagg. 70-71.

(42) Principi, cit., pag. 115.

(43) Vedi il nostro opuscolo: Onorato Damen, Scritti scelti, Ed. Prometeo, 2000, pag. 12; A. Peregalli - S. Saggioro, Amadeo Bordiga - La sconfitta e gli anni oscuri (1926 - 1945), Milano, Cooperativi Colibrì, 1998, pagg. 203-204.

(44) Problemi, cit., pag. 942.

(45) K. Marx, prefazione alla seconda edizione russa de "il Manifesto del Partito Comunista", in K. Marx - F. Engels, India, Cina, Russia, Milano, Il Saggiatore, 1960, pag. 245.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.