D'Alema e Cofferati pari son!

La politica dei tagli non è una scelta, ma un percorso obbligato per chiunque è chiamato a governare

Forse D'Alema e Amato avranno fatto anche marcia indietro, forse avranno lasciato nella penna con cui hanno scritto il Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria) del prossimo anno qualcosina sulle pensioni di anzianità; ma prendendo visione delle cifre e della impostazione non pare proprio che i passi indietro siano poi davvero tanti. Stando al Dpef appena approvato, la prima finanziaria del nuovo millennio, che sarà messa a punto il prossimo settembre, dovrà, infatti, prevedere tagli alla spesa per circa 15.000 miliardi di cui 11.500 per contenere il deficit di bilancio entro i parametri previsti con il trattato di Maastricht e 3.500 miliardi per ridurre la pressione fiscale a carico delle imprese e rilanciare lo sviluppo.

Certo, D'Alema ha dovuto abbassare il tono della polemica e ribadire che in ogni caso la famosa fase due, (quella, appunto, delle riforme del cosiddetto stato sociale che, consentendo il taglio della spesa previdenziale dovrebbe favorire lo sviluppo), dovrà farsi con il metodo della concertazione, insieme cioè ai Sindacati e alle altre parti sociali; ma ha anche detto che indietro non si torna e ciò senza che nessuno, neppure l'odiato dr. Cofferati, abbia avuto nulla da obbiettare. Il problema vero, infatti, è che la politica economica incentrata sullo smantellamento del stato sociale non ha alternative; essa è un passaggio doloroso ma necessario per assicurare al capitale, in special modo al grande capitale finanziario, saggi di profitto sufficientemente remunerativi.

Lo Stato, d'altra parte, contrariamente a quanto sostiene l'ideologia dominante, non è e non può essere neutrale rispetto agli interessi contrapposti e inconciliabili delle classi sociali in campo, ma è lo strumento di cui si serve la classe dominante per far prevalere e imporre i propri interessi. Le forze politiche chiamato a gestirlo, dunque, non possono che rendersi promotori di politiche coerenti con la difesa di questi interessi. La stagione dello Stato sostenitore della domanda, mediante il finanziamento in deficit della spesa pubblica, è stata possibile fino a quando la crescita dei profitti era garantita dall'allargamento costante della produzione industriale, ma da almeno venti anni a questa parte non è più così o, almeno non è più solo così. Prima, lo Stato assicurando la stabilità e l'espansione della domanda aggregata, assicurava stabilità ai cicli produttivi e quella pace sociale senza la quale la programmazione capitalistica della produzione su vasta scala non sarebbe stata possibile. Oggi che la stabilizzazione e l'allargamento della domanda non bastano più ad assicurare profitti sufficientemente remunerativi, è necessario un sostegno diretto al capitale o creando nuovi ambiti di realizzazione dei profitti (privatizzazioni ivi comprese quelle dei servizi sociali) o con il trasferimento diretto di risorse. Il taglio alla spesa pubblica e in particolare a quella previdenziale e sanitaria, ha, dunque, valenza strategica per la conservazione del sistema e perciò non può essere eluso dalle forze politiche borghesi indipendentemente dalla loro collocazione parlamentare; né è vero che esso è necessario per favorire la crescita economica e quindi quella dell'occupazione. Quando viene prospettato questo scambio in nome della modernità e delle promesse salvifiche della mondializzazione dell'economia in realtà si fa solo della propaganda per fare ingoiare ai lavoratori e agli strati sociali più deboli della società il peggioramento delle loro condizioni di vita.

Da un punto di vista macroeconomico, infatti, la riduzione di 3.500 miliardi della spesa sanitaria e/o di quella previdenziale da impegnare nella riduzione della pressione fiscale, per avere effetti positivi dovrebbe generare una crescita del Pil superiore alla inevitabile contrazione che si verificherà a seguito del taglio della spesa. Ora, pur essendo vero che una variazione nella struttura della spesa può essere in una certa misura utile in funzione anticiclica; non è vero che essa possa determinare un'inversione del trend economico.

I sostenitori di ciò, con in testa D'Alema e il ministro del Tesoro Amato, portano a esempio l'esperienza statunitense e della Gran Bretagna, ma senza mai il conforto di un numero che non sia falso e che dimostri che in quei paesi ciò sia realmente accaduto.

L'esperienza italiana prova invece l'esatto contrario. L'introduzione dell'Irap che ha sgravato le imprese più grandi e le banche, di qualcosa come circa 11mila miliari di imposte, per unanime riconoscimento non ha prodotto un solo occupato e un solo investimento in più. La crescita degli occupati, di cui tanto si vantano Fazio e il ministro dell'Industria Bersani e che trattiamo a parte in questo stesso numero di Bc, non è altro che il prodotto di un artificio statistico, così come lo sarebbe quella prodotta dall'introduzione dello sharing job, che il Dpef si prefigge di sviluppare prevedendo lo stanziamento di fondi a favore delle imprese che lo praticheranno, poiché non si tratta d'altro che della divisione di un medesimo posto lavoro fra due lavoratori. Lo sviluppo, se le parole hanno ancora un senso, dovrebbe consistere invece nella crescita dei posti di lavoro.

In realtà, riducendo la spesa previdenziale si punta, da un lato, alla estrema flessibilizzazione del mercato del lavoro e dall'altro a favorire lo sviluppo dei fondi pensione. Eliminando le pensioni di anzianità si costringe anche chi ha già lavorato una vita a rimanere sul mercato fino ai fatidici 65 anni costituendo un'offerta supplementare di forza-lavoro che determina una riduzione dei salari. I lavoratori tutti, in tal modo e in considerazione che già oggi l'offerta di forza-lavoro supera di gran lunga la domanda, vengono consegnati mani e piedi alle esigenze del capitale senza colpo ferire. Inoltre poiché è difficilissimo accumulare contributi sufficienti a garantirsi una pensione dignitosa, i lavoratori saranno costretti a ricorrere alla pensione integrativa determinando così un allargamento del mercato finanziario e in particolare dei costituendi fondi-pensioni. Il salario per via dell'elevato costo della pensione integrativa subirà così un'ulteriore riduzione e i profitti del grande capitale finanziario cresceranno tanto più che la pensione integrativa diventa di fatto obbligatoria come oggi lo è l'assicurazione nel ramo automobilistico. Non diversamente le cose vanno con la spesa sanitaria. Si dice che, consentendo alle regioni di creare appositi fondi per l'integrazione della copertura delle prestazioni non assicurate più dal servizio pubblico, si introduce una razionalizzazione del sistema con grande beneficio per i malati; ma in realtà si sa bene che non è così. I privati, avendo come fine il profitto, si guardano bene dallo sviluppare quelle prestazioni complesse e costose che in genere sono richieste dalla malattie più gravi come per esempio quelle oncologiche e quando lo fanno i costi sono talmente elevati che solo uno stretto numero di pazienti (i più ricchi) possono accedervi. In genere, il privato sviluppa un'assistenza di immagine e tendenzialmente pericolosa per la salute pubblica perché fortemente motivata a moltiplicare le prestazioni inutili, ma più redditizie. Di contro però chi non ha i mezzi per accedere alle cliniche private più prestigiose subisce una decurtazione del salario per consentire alle regioni di costituire il fondo integrativo e nello stesso tempo, non trovandole più presso il servizio pubblico, è costretto per numerose prestazioni a rivolgersi al settore privato che così accresce il proprio mercato e le occasioni di profitto semmai operando di appendicite anche chi ha solo un mal di pancia.

Sia nel caso dei tagli alla previdenza che in quelli alla spesa sanitaria le conseguenze sulla crescita economica sono del tutto astratte e quindi astratte sono anche quelle ipotizzate sulla crescita dell'occupazione. Contro questa astrattezza si concretizzano, invece, benissimo gli innumerevoli vantaggi che ne trae il capitale.

Il fine del capitale è il profitto e lo stato, data la sua natura di classe, non può non tenerne conto. Ieri lo ha fatto riuscendo, almeno nei paesi maggiormente industrializzati, a ridistribuire una quota della ricchezza anche a favore di vasti strati di lavoratori; oggi che tutto ciò non è più possibile, eccolo che lo ritroviamo a fare il Robin Hood alla rovescia.

L'epoca del riformismo è chiusa per sempre e D'Alema lo sa perfettamente e lo sa anche chi lo contrasta nel timore di perdere potere. In realtà D'Alema e Cofferati pur in polemica fra loro pari sono; solo liberandosi dell'influenza nefasta dell'uno e dell'altro il proletariato può sperare di contrastare il suo inarrestabile impoverimento.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.