Il fenomeno migratorio tra continuità e cambiamento

Contributo a un’analisi di classe sul proletariato migrante nell’epoca della "mondializzazione" del capitale

La guerra nei Balcani ha deviato l’interesse, in genere strumentale, dei mezzi d’informazione da una questione che, se non aveva sempre l’onore della prima pagina, costituiva comunque un piatto forte della campagna di perenne disinformazione svolta dal giornalismo cartaceo e radiotelevisivo. Il riferimento è al "problema immigrazione", tradizionale cavallo di battaglia dei settori più biechi e reazionari della borghesia, che non si fanno scrupolo di strumentalizzare gli enormi disagi, le sofferenze, i lutti che caratterizzano l’esistenza del proletariato, in particolare quello migrante.

All’incirca una decina di anni fa, poco prima e poco dopo il crollo dell’impero sovietico, i primi immigrati provenienti dall’Europa orientale erano presentati dalla stampa quasi come degli eroi che con coraggio avevano rinnegato il "comunismo" e scelto il mondo libero; anche gli albanesi, diventati oggi sinonimo di delinquente, mancava poco che venissero accolti con ghirlande di fiori, salvo poi essere imbarcati con la forza e con l’inganno sugli aerei che li riportavano là da dove erano partiti. Senza dimenticarsi della ripugnante cinica sceneggiata interpretata dal cavalier Berlusconi, che, fingendo strazio e umana pietà, si è odiosamente servito della morte in mare di decine di immigrati albanesi, affondati da una nave militare italiana, per i propri lerci interessi di bottega: quale migliore occasione per mostrare al pubblico le sue lacrime di spietato coccodrillo borghese? Infatti, mentre esibisce ostentatamente un dolore che non c’è, il "Polo delle libertà", a gara con la non meno reazionaria Lega Nord, dipinge l’immigrato come un pericoloso disgregatore della ordinata civiltà borghese, a causa della sua propensione (dicono) al vizio e alla malavita, dunque un essere da sorvegliare strettamente se non da espellere.

Se i partiti della borghesia più canagliesca (ammesso che si possa compilare una simile graduatoria) per convinzione e per ragioni di propaganda presentano un’immagine distorta del fenomeno migratorio, dicendo a chiare lettere ciò che partiti della sinistra di governo mettono in pratica con volto "buonista", c’è un ampio settore del riformismo "di base" - anche se quasi sempre ha forti legami con la sinistra parlamentare - che non solo nutre profondissime illusioni sul modo di affrontare la questione immigrazione, ma travisa, in parte o in tutto, le cause di tale fenomeno. Partendo dal giusto presupposto che l’emigrazione è sempre stata uno dei caratteri costitutivi del capitalismo, spinto dalla generosa intenzione di accogliere umanamente tutti gli immigrati - cosa impossibile nella società borghese - questo riformismo ritiene, completamente a torto, che anche l’emigrazione attuale debba ripercorrere le stesse strade percorse dagli emigranti di cento o quarant’anni fa, quando i bastimenti e i "treni del sole" riversavano nei cuori pulsanti dello sviluppo capitalistico milioni di proletari che, assieme alla classe operaia locale, avrebbero alimentato le fasi ascendenti del ciclo di accumulazione del capitale. Non solo, superato il primo duro periodo di assestamento, il proletariato emigrato avrebbe goduto - ma solo delle briciole, sottolineiamo noi - delle ricchezze da lui stesso prodotte, partecipando al "benessere" generale. In realtà le cose non stanno affatto così e se, nella sostanza, il capitalismo è sempre quello, la sua evoluzione in questi ultimi decenni ha profondamente mutato il quadro in cui si colloca il fenomeno migratorio.

Anche per quest’ultimo il punto di svolta si colloca nei primi anni settanta, tra il 1973 e il 1974, quando Francia e Germania interrompono bruscamente la politica migratoria fino allora seguita, chiudendo le frontiere alle masse di migranti provenienti, in grandissima parte, dal bacino del Mediterraneo. È, in definitiva, un’altra faccia della fine del ciclo capitalistico cominciato all’indomani della seconda guerra mondiale. Stava per cominciare il grande processo di ristrutturazione industriale, caratterizzato dalla introduzione di nuove tecnologie produttive basate sull’elettronica, dagli sconvolgimenti operati sulla vecchia organizzazione del lavoro, dal progressivo declino delle grandi concentrazioni operaie e dal dilagare della disoccupazione strutturale. È quello che dal pensiero borghese viene chiamato, con buona dose di ideologismo, "post-fordismo", dove con questo termine più che alle trasformazioni intervenute nel sistema produttivo, si vuole alludere alla (presunta) scomparsa della classe operaia e alla fine del conflitto di classe. In realtà, né l’una né l’altro sono scomparsi, se mai, come si diceva, in parte mutati (la struttura della classe operaia) o passati completamente nelle mani del capitale (la lotta di classe). Certo è che, per esprimersi attraverso la sociologia accademica, "i sistemi produttivi post fordisti sembrano essere ostili alle migrazioni di massa" (1) ossia oggi il capitale non saprebbe (e non sa) dove collocare i grandi flussi di manodopera che dalle regioni economicamente depresse d’Italia e del Mediterraneo venivano risucchiate dai grandi distretti industriali d’Europa. È finita l’epoca in cui i governi trattavano fra di loro la vendita della merce più preziosa del sistema capitalistico, la forza-lavoro, stipulando al mercato del "bestiame" proletario accordi che prevedevano lo scambio di migliaia e miglia di braccia contro carbone o altri prodotti industriali. Tutta la politica migratoria europea, tra seconda metà degli anni quaranta e la fine dei sessanta, ha seguito questa prassi, ma, appunto, col sopraggiungere della crisi tutto ciò è cessato. Ora, nella metropoli capitalistica i "fattori espulsivi" sono più forti dei "fattori attrattivi" e le "Mirafiori" hanno perso migliaia di operai. Non a caso, oggi, una grossa quota della forza-lavoro immigrata è occupata, spesso in nero, nei settori meno qualificati del terziario o in agricoltura e nella pastorizia, in un "alternarsi di attività temporanee [...] massimizzando la propria flessibilità, adattandosi alle segmentazioni del mercato e alla mutevole domanda di lavoro". (2) Naturalmente, una parte trova ancora impiego nell’industria, spesso nelle lavorazioni più nocive e pesanti, ma non necessariamente nei settori tecnologicamente più arretrati; anzi, è proprio la ristrutturazione tecnologica, riducendo la necessità di manodopera qualificata, ad aprire le porte all’immigrato. Per esempio, stando ai dati di qualche anno fa, in Lombardia "sono molto spesso le imprese che presentano i livelli più elevati di investimento ad occupare il maggior numero di immigrati". (3)

Tuttavia, un atto amministrativo ossia la chiusura delle frontiere, non può (e nemmeno vuole) eliminare i fattori che da quando esiste il capitalismo hanno sradicato milioni di esseri umani dalla loro terra per buttarli nelle fucine del plusvalore. La povertà e la miseria, lungi dallo scomparire, stanno dilagando su tutto il pianeta, fin dentro le metropoli del capitale, e un altro aspetto della "mondializzazione" è che ormai i flussi migratori partono da ogni angolo della terra. (4)

Se prima, almeno in Europa, c’era generalmente un rapporto diretto tra immigrazione e luogo d’arrivo, nel senso che, per esempio, dalle ex colonie francesi si andava prevalentemente in Francia, oggi non è più così, prova ne sia che in Italia, pur non avendo questa mai avuto colonie in Marocco o in Pakistan, ci sono pakistani e marocchini. Di più, essendo il capitalismo, senza eccezione alcuna, il modo di produzione dominante in ogni angolo del globo, la sua politica economica è la stessa ovunque, qualunque siano i governi chiamati a gestirla. In questo modo le condizioni del proletariato mondiale tendono progressivamente a livellarsi, naturalmente verso il basso; si tratta, in pratica, del processo di svalorizzazione della forza-lavoro, perseguita accanitamente dal capitale per cercare di rianimare saggi del profitto quanto mai anemici. Imputare a determinati organismi, tipo il FMI, la responsabilità dell’immiserimento di miliardi di esseri umani in Africa, Asia, o nell’ex blocco sovietico, è cogliere solo l’aspetto "tecnico" della questione. In realtà, è la borghesia nel suo insieme, quindi anche quella del "Sud del mondo", che non ha altra via se non quella di spremere il più possibile la manodopera; è solo la quantità di plusvalore estorto e spartito che varia, ma questo dipende dai rapporti di forza esistenti tra la borghesia stessa:

Sempre più spesso i prezzi nazionali dei prodotti alimentari di base vengono fatti salire al livello che hanno sul mercato mondiale [...] Mentre i prezzi vengono unificati e portati a livelli mondiali, i salari nel Terzo Mondo e nell’Europa orientale sono 70 volte più bassi che nei paesi OCSE. (5)

Se a questo si aggiunge che dal 1989, fine della guerra fredda, ci sono stati circa sessanta conflitti armati che, oltre ai numerosissimi morti, hanno fatto circa 17 milioni di rifugiati (6) è facile capire come la crescente blindatura delle frontiere - pratica che accomuna tutte le metropoli del capitale (7) - non solo sia del tutto inefficace a fermare il flusso di immigrati, ma serva unicamente ad aggravare le difficoltà, già pesanti, del proletariato migrante. Irregolarità significa precarietà ossia accentuata ricattabilità, estrema disponibilità ad accettare, in linea di massima, ogni imposizione padronale. Infatti, "i lavoratori immigrati presentano già una loro utilità, garantendo un maggior grado di flessibilità del sistema", non solo e non tanto perché spesso e volentieri il marocchino o il ghanese sono assunti in nero, ma in quanto danno la "possibilità di inquadramento ai livelli minimi e di una maggiore flessibilità in termini di orario, turnazioni e condizioni di lavoro". (8)

D’altra parte è proprio con queste motivazioni che Cipolletta, capo ufficio studi della Confindustria, si è espresso più volte a favore della regolarizzazione attuata nel dicembre ’98 - che non significa affatto ingressi facili, tutt’altro - aggiungendo, anzi, che la forza-lavoro locale deve adeguarsi, cioè abbassarsi, alle condizioni di quella immigrata. (9)

Ma i vari "accordi di luglio", le finanziarie, i Patti sociali e i Piani per il lavoro (concordati tra padroni, governi e sindacato) che si sono succeduti in questo decennio, non hanno proprio questa finalità? Che cosa sono i Contratti d’area, se non un grimaldello per aprire le porte all’estensione di quelle norme sul piano nazionale? È dunque del tutto fuori luogo l’indignazione di certi settori del riformismo a proposito del parere favorevole espresso dalla CISL sulla proposta del sindaco di Milano di creare specie di gabbie salariali "etniche" per immigrati. Se nell’epoca del capitale mondializzato i miseri proletari del "Terzo mondo" devono vedersela con prezzi dei generi alimentari calcolati su base mondiale, il proletariato del "Primo mondo" tendenzialmente deve far precipitare le sue condizioni di lavoro e quindi di vita al livello più basso possibile. È la manchesterizzazione della classe operaia, vale a dire il ritorno massiccio di salari, ritmi, carichi e orari di lavoro in uso centocinquanta (o, in molte zone del Bel Paese, quaranta) anni fa. Ironia della sorte, certi slogan che riempivano le piazze dell’Autunno caldo si stanno concretizzando: "la Cina è - davvero - vicina" nelle migliaia di operai cinesi costretti a turni di 12-14 ore al giorno nelle fabbrichette più o meno clandestine della Toscana, del Lazio, dell’Emilia, o nelle ragazzine del Meridione che fanno orari quasi "manchesteriani" per 500.000 lire al mese nei sottoscala del Made in Italy. Il "Viet Nam è in fabbrica" sul serio, ma non perché la classe operaia abbia instaurato un fantomatico contropotere fatto di vittoriosa guerriglia quotidiana contro il padrone, bensì perché il padronato, con l’apporto determinante del sindacato, ha già percorso un buon tratto di strada nell’avvicinare le condizioni della forza-avoro "occidentale" a quelle del Viet Nam o della Thailandia. Oggi, non è più solo il proletariato migrante a essere alla mercè del capitale, ma anche quello indigeno. E non bisogna nemmeno essere dei rivoluzionari per accorgersene, sebbene solo dei rivoluzionari possano indicare la soluzione del problema:

La precarizzazione giuridico-economica dei migranti, non è che la manifestazione caricaturale di una evoluzione più generale. Frazioni sempre più grandi della popolazione lavoratrice sono progressivamente espulse dal rapporto salariale contrattuale stabile. (10)

Certamente, il proletariato migrante vive tutto questo in maniera più dura rispetto a quello "nativo", se non altro perché, dov’è presente, è il primo su cui il capitale scarica le sue difficoltà. Non a caso, i primi a essere licenziati a centinaia di migliaia, in seguito alla crisi devastante che ha colpito "tigri" e "dragoni" asiatici, sono stati proprio gli immigrati che, costretti a lavorare come bestie per salari da fame, molto spesso sono stati espulsi su due piedi senza nemmeno ricevere ciò che spettava loro. (11) La crisi del 1997 è un’ulteriore dimostrazione di quanto, nell’epoca attuale, le fasi di espansione, così come le riprese, siano sempre più brevi, convulse, parziali, prive di grande respiro e proprio per questo si sta imponendo ovunque la figura del lavoratore manchesteriano usa e getta, costretto a piegarsi all’andamento schizofrenico del mercato mondiale, alle necessità di accumulazione del capitale industriale e, non ultimo, a quelle via via crescenti della rendita finanziaria.

Ormai, però, il progressivo avvicinamento (materiale) tra le due sezioni del proletariato - locale/internazionale - rafforza l’urgenza e la necessità della loro ricomposizione politica, cioè della riappropriazione del programma comunista oltre e contro pregiudizi, diffidenze, se non aperti rancori. Questo sarà un processo sicuramente tormentato, dato che in parte non piccola il proletariato condivide i pregiudizi della piccola borghesia; la stessa sociologia borghese rileva che gli atteggiamenti più negativi verso gli immigrati sarebbero particolarmente diffusi tra i commercianti e le persone con basso titolo di studio (12) ossia tra i proletari. Solo chi ha una visione ideologica, cioè distorta, del proletariato può stupirsi di questo dato, in realtà i marxisti sanno che la classe o è rivoluzionaria o non è nulla, poiché normalmente assorbe idee e mentalità della classe dominante, senza considerare che l’immigrazione, portando forzatamente con sé anche problemi legati alla cosiddetta devianza - ma molto meno di quello che si vuol fra credere (13) - vive nei quartieri proletari, non certo borghesi. Va già bene - per così dire - che finora, almeno in Italia, non si siano verificati scontri sanguinosi sui posti di lavoro, come accadeva all’incirca un secolo fa, quando gli operai italiani erano massacrati dagli operai locali perché rompevano gli scioperi o lavoravano sottocosto. Sarà perché la lotta di classe di parte operaia è pressoché inesistente o perché finora gli immigrati occupano nicchie di lavoro in genere disertate dagli indigeni, ma non è escluso che con l’omogeneizzazione in atto tra i due settori e una ripresa della lotta di classe si ripresentino, purtroppo, episodi di scontri fratricidi. Per adesso, questo particolare tipo di sottomissione all’ideologia borghese si manifesta principalmente nell’idiotismo leghista, nell’ottuso fanatismo naziskin o nel bere senza battere ciglio i bollettini di guerra sulla "invasione" degli immigrati, dei profughi e dei clandestini di ogni specie.

Anche se l’immigrazione in Italia non supera, al dicembre ’98, il milione di persone, cioè uno dei tassi più bassi d’Europa, inferiore anche a quelli di Spagna e Grecia (14), lo spauracchio delle orde di stranieri che calerebbero sull’Italia è usato in abbondanza, come abbiamo visto, non solo per intontire le coscienze proletarie, ma anche per giustificare le mire imperialistiche, naturalmente nascoste dietro le immancabili ragioni umanitarie. In questa battaglia ideologica per la salvezza della civiltà ognuno sfodera le sue armi migliori e la Chiesa, pilastro della conservazione dell’ordine esistente, ha schierato le sue "teste di cuoio": i gesuiti. Poiché secondo Civiltà Cattolica:

Popolazione e istituzioni [...] sono in balìa dell’immigrazione clandestina, che nessuno riesce a controllare [...] l’esperienza dice che, col passaporto delle esigenze umanitarie, passa di tutto. Anche i malavitosi e i trafficanti di droga [che scoperta strabiliante! - ndr] è necessario adottare tutti i mezzi utili allo scopo e che siano leciti dal punto di vista sia morale, sia giuridico. (15)

Quali sono questi mezzi? La carità cristiana, il volontariato, tanto esaltato a desta e a sinistra? Suvvia, non scherziamo! Ai gesuiti si può dire di tutto, ma non che siano degli sprovveduti. Primo, perché "il nostro volontariato" non riesce a fronteggiare la situazione; secondo, ma non di importanza, le soluzioni sono ben altre. Da una parte bisogna rendere effettive e operative le espulsioni e sbattere in galera chi non è possibile espellere; ma anche questo non è sufficiente e poi costa troppo, dato che "la spesa per il mantenimento in carcere degli extracomunitari supera i 1000 miliardi all’anno, spese di giustizia e di ordine pubblico a parte". La soluzione vera è allora quella di "estendere il proprio controllo [da parte dello stato - ndr] anche alle frontiere (almeno) e al territorio (se necessario) del Paese da cui i clandestini provengono". Secondo una logica per così dire disinteressata, questa proposta non avrebbe senso, perché, appunto, gli immigrati provengono da ogni parte del mondo; secondo la logica del capitale, invece, tale approccio risponde perfettamente alle esigenze di controllo politico e/o militare delle regioni che più fanno gola a questo o a quel brigante imperialista. Infatti, le politiche migratorie dell’Unione Europea vanno nella direzione di stendere attorno ai propri confini un "cordone sanitario" composto da paesi terzi "sicuri", anche dal punto di vista del rispetto dei famigerati diritti umani, tipo alcuni stati est europei e la Turchia (!) verso i quali rinviare i profughi, i rifugiati politici ecc. ossia una buona fetta degli immigrati che tentano di entrare in Europa. (16)

Questi paesi dovrebbero creare centri di accoglienza - cioè i lager in uso in Europa e in Italia - e in ogni caso riceverebbero la "protezione" dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, dell’UE e, manco a dirlo, degli Stati Uniti. L’occupazione militare dell’Albania, la partecipazione italiana alla guerra nell’ex Jugoslavia, che ha prodotto una nuova enorme massa di rifugiati, povera gente senza speranze concrete di poter tornare a casa, non si sono d’altronde ipocritamente nascoste dietro le esigenze di soccorrere e fermare i profughi e gli immigrati clandestini? La benedizione dei preti rafforza questa turpe menzogna e offre a quest’ultimi il pretesto di mettere piede in "terra di missione":

Allo stato va offerta la disponibilità del volontariato cattolico, per organizzare e gestire i centri di accoglienza e di smistamento dei clandestini [...] istituiti nei paesi di origine e/o di provenienza.

Evidentemente la Chiesa rimpiange i tempi in cui preti e suore accompagnavano le baionette del feroce colonialismo "bianco", espressione dell’evoluzione in senso imperialista del capitalismo. Quell’epoca si chiuse con l’Ottobre bolscevico, che scatenò gli entusiasmi e le ardenti speranze tanto della classe operaia dei paesi sviluppati quanto dei pochi nuclei proletari e delle immense masse semi proletarie "coloniali". E se questa sfasatura tra i diversi gradi di "maturità" capitalistica giocò un certo ruolo nel contribuire alla sconfitta del primo assalto complessivo al sistema borghese, oggi non è più così. Ambiguità nazionalistico-borghesi sono state spazzate via in modo definitivo e chi, nella sinistra che si pretende rivoluzionaria, vi si attarda è completamente disabilitato alla rivoluzione (ma quanti ce ne sono...). Ma soprattutto - lo ricordiamo ancora una volta, date le implicazioni estremamente importanti - la mondializzazione del capitale significa anche la compressione a scala planetaria dei salari al disotto del loro valore; in tal modo, però, tendenzialmente rende omogenee le condizioni degli operai di New York e di Hanoi, del giovane apprendista lombardo con quelle dell’operaio ghanese assunto - se "in regola" - ai minimi contrattuali. Ciò non vuol dire, naturalmente, che il cammino verso la rivoluzione si privo di ostacoli, al contrario, ma che mai come oggi l’aggettivo internazionalista, riferito alla strategia rivoluzionaria, è così pieno di senso.

Celso Beltrami

(1) C. Bonifazi, L’immigrazione straniera in Italia, Bologna, Il Mulino 1998, pag. 52.

(2) Bonifazi, cit., pag. 160 e pag. 162.

(3) Bonifazi, cit., pag. 192.

(4)Bonifazi, cit., pag. 23 e pag. 69.

(5) M. Choussudovsky, La globalizzazione della povertà, Torino, Ed. Gruppo Abele, pag. 36.

(6) I. Ramonet, Nouveau siècle (Nuovo secolo) in Le Monde diplomatique, gennaio 1999.

(7) Bonifazi, cit., pag. 171 e Alain Morice, Emploi flexible du travailleur étranger (Impiego flessibile del lavoratore straniero) in Manière de voir n. 35, pagg. 40-41, settembre 1997.

(8) Bonifazi, cit., rispettivamente pag. 193 e pag. 194.

(9) CARTA (supplemento a Il Manifesto) n.4, marzo 1999, pag. 4.

(10) Morice, cit., pag. 40.

(11) S. Kane - L. Passicousset, Cyclone sur les soutiers du Sud - Est asiatique (Ciclone sui fuochisti del Sud - Est asiatico) in Le Monde diplomatique, aprile 1998, pagg. 14-15. Si calcola che le migrazioni inter asiatiche siano sull’ordine dei 35 milioni di persone, soprattutto donne.

(12) Bonifazi, cit., pag. 224.

(13) CARTA n.6, maggio 1999, pag. 22.

(14) Il Manifesto, 24-04-1999.

(15) V. Spicacci S.I., Coscienza civile, coscienza cristiana e immigrazione clandestina in Italia, Civiltà Cattolica n.3569, marzo 1999. Tutte le citazioni tra virgolette sono tratte da questo articolo.

(16) J. Van Buuren, Quand l’Union européenne s’entoure d’un cordon sanitaire (Quando l’unione europea si circonda di un cordone sanitario) in Le Monde diplomatique, gennaio 1999, pagg. 6-7.

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.