La crisi del Giappone e le preoccupazioni americane

La recente crisi finanziaria che ha colpito l’economia russa e che si è propagata a macchia d’olio in tutte le piazze borsistiche del mondo, ha riproposto all’attenzione degli economisti borghesi la vulnerabilità dell’intero sistema finanziario mondiale. Passata la sbornia neo-liberista, che ha dettato le linee di politica economica negli ultimi quindici anni, gli effetti della crisi stanno riportando in auge politiche economico-finanziarie incentrate su un più rigido controllo statale. Gli economisti, legati soprattutto alla sinistra borghese, levano pesanti critiche all’attuale politica economica ed auspicano un immediato ritorno ad una finanza “controllata”. Ma sono semplici richiami che non trovano attualmente ascolto nei centri del potere economico-finanziario. In questi ultimi mesi i mercati finanziari sono stati colpiti da violente scosse che hanno messo a dura prova la tenuta dell’intero sistema internazionale. Con una velocità impressionante alla caduta della borsa di Mosca e alla dissoluzione del rublo, è seguito il crollo di tutte le borse latinoamericane e di quelle asiatiche. Anche le roccaforti del capitalismo mondiale, Stati Uniti ed Europa, pur limitando i danni hanno visto scendere di molto i propri indici borsistici. Nell’era della globalizzazione del capitale, grazie alle interconnessioni esistenti tra le diverse aree economiche del pianeta che di fatto hanno creato un unico grande mercato mondiale in cui circolano masse enormi di capitali, gli effetti destabilizzanti di una crisi regionale inevitabilmente si espandono su tutto il sistema finanziario internazionale.

Con una regolarità svizzera il capitalismo internazionale nel corso degli anni novanta è stato colpito periodicamente da violente crisi finanziarie, che hanno provocato profonde lacerazioni sul piano sociale. Prima il Giappone, colpito agli inizi degli anni novanta dalla crisi del mercato immobiliare che ha causato il crollo della borsa di Tokyo; in seguito il Messico e i paesi dell’America latina, affossati dalla crisi finanziaria del dicembre 94; poi le tigri asiatiche, colpite lo scorso anno da una crisi economica i cui effetti non si sono del tutto manifestati, ed infine la crisi che ha colpito la scorsa estate la Russia rappresentano le punte avanzate di una crisi generale dell’intero sistema finanziario che rischia di travolgere l’intera struttura capitalistica. In pochissimi anni, a causa della voracità del capitale finanziario, interi continenti sono stati letteralmente scaraventati nella miseria più nera. Il crollo della Russia è forse il caso più emblematico di come si può distruggere un’economia che fino a qualche anno prima costituiva pur sempre la seconda potenza mondiale (leggere l’articolo apparso sul numero scorso di Battaglia).

La globalizzazione del capitale, se da un lato ha permesso ai grandi investitori finanziari di estorcere quote sempre più elevate di plusvalore al proletariato mondiale comprimendo fino all’inverosimile il costo del lavoro, dall’altro lato ha determinato la crescita a dismisura delle aree in cui la classe operaia vive sotto la soglia della povertà.

Ma la crisi, appunto perché è generale, non risparmia le aree più avanzate del capitalismo, anzi proprio in uno dei suoi paesi simbolo, il Giappone, rischia di trovare nuova linfa ed alimentare le dinamiche recessive in atto.

Da ormai sette anni l’economia giapponese vive una profondissima crisi dalla quale non riesce a tirarsi fuori. Si parla sempre con maggiore insistenza di “triple dip”, termine utilizzato dagli economisti borghesi per spiegare un fenomeno nuovo nelle dinamiche del moderno capitalismo. Infatti, a differenza del passato, l’attuale fase recessiva si lega senza soluzione di continuità alle due precedenti cadute congiunturali; dopo l’effimera ripresa del 96 l’economia del Giappone è pericolosamente ripiombata nella recessione. La crisi che ha colpito lo scorso anno le tigri asiatiche, per le strettissime relazioni commerciali esistenti, sta producendo dei danni irreparabili nell’economia giapponese. Se consideriamo che nel 1997 la regione del sud-est asiatico ha assorbito il 41% delle esportazioni e il 23% dei suoi flussi di investimento, possiamo ben comprendere le conseguenze negative della crisi economica asiatica sul Giappone. Da tre trimestri consecutivi il prodotto interno lordo nipponico è in diminuzione e lo stesso Fondo Monetario Internazionale prevede per il 98 una caduta del Pil del 2,5%. Gli ultimi dati statistici disponibili danno un’immagine di un paese economicamente allo sbando; nel solo mese di agosto la produzione industriale è stata inferiore del 10% rispetto a quella dello stesso mese dello scorso anno, mentre i consumi negli ultimi dodici mesi sono scesi mediamente del 5%, con punte, come nel comparto delle auto, del 14%.

L’attuale crisi economica sta aggravando ulteriormente la già pesante situazione in cui versa il sistema bancario giapponese. Il crollo degli scambi con i paesi del sud-est asiatico e il relativo blocco dei pagamenti delle banche e delle imprese, ha aggiunto circa 250 miliardi di dollari di crediti dubbi ai 550 miliardi già previsti nei bilanci delle banche nipponiche. Un mare di crediti esistenti solo sulla carta, ma che nelle realtà difficilmente potranno essere riscossi dalle varie banche giapponesi. Le difficoltà del sistema bancario giapponese sono esasperate dai continui crolli della borsa di Tokyo, scesa in questi ultimi giorni sotto la soglia psicologica dei quattordicimila punti dell’indice Nikkei. La discesa della borsa sta colpendo soprattutto i titoli bancari, vittime della bolla speculativa dei primi anni novanta. Le banche giapponesi, forti di una liquidità che non trovava riscontro nel resto del mondo, finanziavano di tutto, con mutui che coprivano il 100% del prezzo per l’acquisto di case e terreni. Quando è esplosa la bolla speculativa il valori dei beni immobiliari si è ridotto del 60-70%, trasformando i mutui ipotecari in semplici pezzi di carta privi di qualsiasi valore reale. Il contestuale crollo del valore degli immobili e del valore delle azioni ha di fatto azzerato il patrimonio delle banche giapponesi, le quali per evitare la bancarotta anziché finanziare le imprese accumulano liquidità. Si assiste così al paradosso che malgrado la banca centrale riduca continuamente il tasso di sconto, attualmente è tra lo 0,25 e 0,5%, le banche non prestano più denaro determinando la cosiddetta trappola della liquidità, con pesanti conseguenza sulla domanda interna.

Ma, a differenza degli altri paesi finora colpiti da crisi finanziarie, il Giappone non rappresenta un’area periferica ma il centro dell’intero sistema finanziario internazionale. Stati Uniti e membri europei del G7 aspettano che Tokyo dia un impulso alla ripresa della propria domanda interna; anche nell’ultimo vertice G7, svoltosi nei primi giorni di ottobre a Washington tra i ministri economici, sono state fatte delle pressioni sul Giappone affinché rilanci la propria economia per ridare slancio a tutto il sud-est asiatico.

I programmi approntati dal primo ministro giapponese Obuchi prevedono per i prossimi anni una riduzione della pressione fiscale di 50 miliardi di dollari e un piano di investimenti pubblici superiore ai 70 miliardi di dollari. Inoltre il Giappone dovrà finanziare un gigantesco programma di riacquisto dei crediti irrecuperabili delle banche che, secondo stime governative, richiede un impiego di qualcosa come trecento miliardi di dollari. Su questo terreno si giocheranno i destini del sistema finanziario internazionale. Se finora il capitalismo è riuscito a circoscrivere le varie crisi regionali difficilmente potrà arginare un crollo del sistema bancario giapponese, visto che proprio le banche giapponesi finanziano il grosso del debito pubblico americano.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.