Il clima reagisce al capitale - In margine alla conferenza di Kyoto

Ci accingiamo a scrivere questo articolo mentre è in corso la più grave catastrofe ambientale della storia Messicana. Milioni di ettari di boschi nel Sud Est del Chiapas con nel Nord negli stati di Nuevo Leon e Chihuahua, stanno bruciando producendo quantità mostruose di fumi che hanno raggiunto gli Stati uniti (il Texas). Vastissimi incendi hanno colpito altre zone del Centro col risultato che i fumi sul Centro America hanno perfino indotto la chiusura, per insufficiente visibilità, di diversi aereoporti in Honduras e Guatemala.

Qualche mese fa fu la volta dell’Indonesia a subire la distruzione per fuoco di enormi aree boschive e l’affumicamento del paese e i media dettero relativamente ampio spazio all’evento. Questa volta sta passando pressoché inosservato.

Contemporaneamente i primi di giugno uno spaventoso ciclone ha colpito lo stato indiano del Gujarat lasciando 420 morti e 150 disporsi (cifre ufficiali) e anche in questo caso scarso rilievo è stato dato dalla stampa e nessuno dalla televisione.

Lasciamo al lettore di immaginarsi le ragioni di questo sconcio comportamento dei pennivendoli e dei loro editori per limitarci al tema in oggetto: il clima, i suoi sconvolgimenti, le loro cause e i possibili (o impossibili) rimedi.

El Niño

È innanzitutto conosciuto e assodato dagli ambienti scientifici e ufficiali l’insieme di fattori che ha scatenato il disastro in corso in Centro America. La pratica del debbio da parte dei contadini, di bruciare cioè i campi per prepararli alle semine primaverili è sfuggita al tradizionale controllo a causa della più lunga e dura siccità subita dal Messico da 70 anni a questa parte. Il debbio si pratica da sempre nei campi messicani anche se circondati dalla foresta: bastava una striscia di terreno nudo all’intorno per evitare che il fuoco si estendesse al bosco: l’umidità dello stesso - si tratta delle foreste pluviali - bastava a soffocare le eventuali scintille. Se questa volta le fiamme si sono estese con tanta furia ciò è dovuto alla eccezionale siccità, a sua volta espressione delle gravissime perturbazioni climatiche legate a El Niño.

Questo è così chiamato da lungo tempo dai pescatori latino-americani nel Pacifico, perché è un fenomeno di innalzamento delle temperatura superficiale delle acque di quell’oceano e di inversione delle correnti che si avvertiva solitamente sotto Natale, ed El Niño viene chiamato quel che è qui da noi Gesù Bambino.

Il fenomeno di per sé è naturale, nel senso che è documentato sin dal 1567 ed è sempre stato ricorrente sebbene con periodi variabili dai 2 ai 7 anni. Ma l’importanza della sua influenza sulla meteorologia globale è venuta alla luce solo sul finire degli anni 1960, per essere sottoposta a studi sistematici solo nell’ultimo ventennio.

Ebbene l’ultimo El Niño iniziato già l’anno scorso è stato per la verità previsto per tempo dagli scienziati, ma già nel maggio 1997 questi stessi, riuniti in un Congresso, hanno concluso che:

Sembra un El Niño, si muove come un El Niño ma è troppo presto per dire quanto sarà grande e quanto ‘cattivo’.

E perché tanta incertezza, a fenomeno già in corso? Perché il fenomeno stesso è determinato da una interazione fra oceano e atmosfera alla loro interfaccia e il comportamento dell’atmosfera è ormai fuori controllo. (1)

È successo, secondo i meteorologi e climatologi più avvertiti, che le dinamiche nell’alta atmosfera e nella stratosfera sono radicalmente mutate, sconvolgendo i modelli comportamentali del clima precedentemente validi e che a fatica si erano finalmente conosciuti.

E ciò è dovuto al già avvenuto riscaldamento della Terra. Non solo il 1997 è stato l’anno più caldo registrato ma le "temperature globali nei primi mesi di quest’anno non hanno precedenti" ha ammesso l’8 giugno il Vice-Presidente Al Gore in una riunione di scienziati e giornalisti alla Casa Bianca.

Nella stessa riunione è stata comunicata dalla the National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) una nuova analisi che indica che i più rilevanti eventi El Niño sono diventati più frequenti e più severi negli ultimi due decenni e che i dati preliminari suggeriscono che tale fenomeno può essere connesso all’aumento delle temperature mondiali, sebbene non sia ancora conosciuta la eventuale esatta relazione fra i due fenomeni.

Ha detto D. James Baker, direttore del NOAA, nella suddetta riunione alla Casa Bianca:

L’inverno particolarmente più umido e più caldo del solito che abbiamo appena trascorso ci fornisce un idea della prospettiva che ci attende in un mondo riscaldato dall’effetto serra.

È dunque ormai accettato dai massimi esponenti della amministrazione politica della società che conosciamo (capitalistico borghese) quello che da vent’anni molti scienziati (ecologi, climatologi, metereologi) andavano dicendo: la continua massiccia emissione di anidride carbonica (CO2) e di altri gas "climateranti" (fra questi il metano e molti composti del fluoro) porteranno a un riscaldamento del pianeta con conseguenze per molti versi imprevedibili ma comunque catastrofiche sul clima.

Due scienziati, dalle conclusioni politiche dei quali dissentiamo profondamente, M. Scalia e G. Mattioli, scrivono:

La teoria rigorosa della stabilità... mostra che la ‘piccola’ perturbazione, indotta nel ciclo bio-genetico del carbonio - nel quale va iscritto l’effetto serra - dall’immissione continua della CO2 a causa delle molteplici attività delle società industriali, può comportare severe conseguenze in termini di mutamenti climatici. (2)

Tanto è entrato questo dato nella consapevolezza dei grandi e tale la pressione della comunità scientifica che le Nazioni Unite hanno creduto bene, a dieci anni dalla Conferenza sull’ozono, di tenere una specifica conferenza internazionale sui cambiamenti del clima. La assemblea si è svolta a Kyoto, l’antica capitale del Giappone, fra il 1 e il 10 dicembre del 1997.

Kyoto: il capitale si svela

Per quanto riguarda l’andamento di quella conferenza rimandiamo alla abbondante documentazione in cronaca 1, per soffermarci sui nodi essenziali del protocollo firmato a Kyoto dai 153 paesi presenti.

Lasciamo volentieri a Giorgio Nebbia il merito di una efficace sintesi:

la riunione di Kyoto si è conclusa con alcune dichiarazioni di buone intenzioni: alcuni paesi hanno promesso di diminuire, ma gradualmente, piano piano, in uno o due decenni le emissioni nell’atmosfera di anidride carbonica e degli altri "gas serra" riportandoli ai valori del 1990, lasciando che i paesi in via di sviluppo dilatino a piacere i consumi di energia e le conseguenti fonti di modificazioni climatiche. Tanto per avere un’idea si pensi che nel 1990 venivano immessi nell’atmosfera circa 25 miliardi di tonnellate all’anno di anidride carbonica; da allora a oggi circa altri 260 miliardi di tonnellate di anidride carbonica sono finiti nell’atmosfera; se le emissioni si stabilizzassero verso il 2020, c’è tempo per immettere nell’atmosfera altri 600 miliardi di tonnellate. Si pensi che la quantità totale di anidride carbonica presente oggi nell’atmosfera è di 2600 miliardi di tonnellate. Un aumento del contenuto di anidride carbonica nell’atmosfera da 2600 a 3200 miliardi di tonnellate in pochi anni provoca dei drammatici effetti non solo sul clima, ma sul ciclo delle acque, sull’agricoltura sugli equilibri geochimici e sulla produttività biologica dei mari. (2)

Aggiungiamo che a Kyoto, dopo lunghe discussioni, si è convenuto di rimandare ad una prossima riunione (dicembre 1998) la definizione dei termini di compravendita di quote inquinamento fra i diversi paesi coinvolti. Comunque il principio è passato.

In un mondo dove si completa la mercificazione della salute e del diritto stesso alla vita è normale che si mercifichi il diritto di emissione di gas serra. Il meccanismo sarebbe (sarà) questo: se un paese riesce a ridurre le sue emissioni al di sotto della quota assegnatagli, può vendere questa "eccedenza" a un altro paese, ovviamente in cambio di moneta sonante.

Grazie alla forte opposizione dei paesi periferici, capeggiati da India e Cina, essi non si sono visti assegnare per ora nessun obbligo di riduzione, nonostante la iniziale determinazione degli Usa a imporre il principio "egualitario": "se tagliamo noi devono tagliare anche tutti gli altri e nelle stesse proporzioni". Il giochino era semplice: poiché molti paesi hanno emissioni di gas-serra bassissime, potevano cedere la loro quota agli Usa (i maggiori divoratori di energia e inquinatori in tutti i sensi) che si sarebbero risparmiati i costi e i mal di testa di una sostanziosa riduzione di emissioni.

È stato abbastanza facile per India e Cina ottenere anche dall’Europa il sostegno nel rigettare quel balordissimo principio e applicare invece l’altro, in certo modo più equo, dell’obbligo di riduzione proporzionale alla responsabilità e alla quantità di emissioni per abitante.

Gli Usa allora, almeno per un po’ dovranno mercanteggiare fra i paesi avanzati soggetti all’obbligo di riduzione, fra i quali, però, c’è la Russia che negli ultimi anni ha visto ridursi drasticamente il totale di emissioni antropiche, grazie alla chiusura di decine di migliaia di ciminiere, alla povertà dilagante e al generale passo indietro nella produzione.

Qualcuno, fra cui gli irrecuperabili riformisti di Le Monde Diplomatique (Lmd) ha plaudito al successo dei paesi poveri e alla sconfitta degli Usa. (3)

Noi non troviamo nulla di cui gioire: il nodo centrale non è neppure stato sfiorato e comunque il principio della mercificazione del diritto di disastrare il pianeta è passato. Quel che succederà nella riunione di dicembre sarà il consolidamente del principio e il mercanteggiamento concreto.

Intanto a Bonn, il 12 giugno si è chiuso un primo giro di negoziazione dei dettagli del Protocollo di Kyoto. Qui da una parte gli Usa sono stati criticati tanto dai delegati europei quanto dagli ambientalisti osservatori ai colloqui per la loro insistenza sulla necessità di definire il meccanismo di commercializzazione delle emissioni...

che l’amministrazione considera essenziale per contenere i costi per l’industria americana della riduzione di emissione richiesta. (4)

Dall’altra la stessa amministrazione Clinton è oggetto di attacchi e di critiche da parte delle potenti lobby dell’industria, che sono "riuscite" a conquistare la commissione del senato sul bilancio. Da questa è venuta la promessa di un No ai finanziamenti di 200 milioni di dollari proposti da Clinton all’iniziativa sul clima con la mostruosa affermazione che essa non è convinta "dell’esistenza, dell’entità o degli effetti dei mutamenti climatici globali" e che giudica "inappropriate" le proposte di tagliare le emissioni di carbonio avanzate a Kyoto. (5)

A dimostrare che i buoni propositi (quantunque insufficienti) di Kyoto si scontrano immediatamente e si infrangono di fronte agli imperativi del capitale viene la critica dell’industria dei combustibili fossili che sostiene che i tagli proposti alle emissioni devasteranno l’economia inducendo costi drammaticamente più alti dell’energia. Prontamente il "Comitato per la sopravvivenza della piccola impresa" (Sbsc) ha emesso un suo comunicato col quale critica il ritardo dell’amministrazione nel rispondere ai suoi quesiti che sostanzialmente chiedevano la pubblicazione dell’analisi econometrica condotta dalla Casa Bianca a supporto delle trattative e del protocollo di Kyoto. Anche questo organismo, in certo modo rappresentativo del "capitale diffuso", nega validità agli allarmi di Kyoto e strilla per la minaccia al businness. È interessante osservare che il Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca, capeggiato da certa Janet Yellen aveva già risposto che alcuni documenti di tale analisi potevano essere visionati dai membri del Congresso ma solo sotto la supervisione o sorveglianza dell’Ufficio del Consiglio di presidenza, e questo per "ragioni di sicurezza nazionale". L’Sbsc col suo comunicato protesta per questo "escamotage" dell’amministrazione e, anch’esso sostiene che:

il trattato causerà ingiusti, inutili danni senza precedenti alla piccola impresa statunitense e ai suoi lavoratori, mentre paesi non partecipanti all’accordo quali Cina, India e Messico evitano qualsiasi taglio obbligatorio dell’energia consumata in relazione a questo problema, ancora teorico. (6)

Ecco dunque la sostanza della situazione nella quale si trova il mondo, relativamente al suo futuro ambientale: da una parte l’intellettualità della borghesia si rende conto dei danni irreparabili che "le attività economiche dell’uomo" (in genere, intendono loro; il capitale diciamo noi) arreca all’ambiente; dall’altra il corpo attivo della borghesia nega il pericolo e corre alla catastrofe.

Ridurre le emissioni: i criteri usati dal capitalismo

Anche al di là delle cifre complessive a cui fa riferimento Nebbia nel brano più sopra, le emissioni propriamente umane sono oggi stimate in 7,1 miliardi di tonnellate per anno. Di queste 2 miliardi di tonnellate sono assorbite dalle superfici marine e 1,8 dalle superfici terrestri (in particolare dalle foreste, ammesso che ne rimangano). Restano 3,3 miliardi di tonnellate non riciclate che ogni anno si aggiungono e che invece dovrebbero essere fermate.

Ridurle è un dovere urgente per la sopravvivenza delle generazioni che ci seguiranno. (7)

Lmd

E che si debba ridurle lo dice anche il protocollo di Kyoto. Ma, ed è un "ma" giustappunto vitale, l’obbiettivo della riduzione è dichiarato essere non già il riequilibrio ambientale e il ristabilimento di rapporti equilibrati fra uomo e natura, bensì la "promozione dello sviluppo sostenibile". (8) È questo un criterio ampiamente usato in tutti i consessi internazionali che trattano di ambiente e nelle rispettive risoluzioni, siano essi le Nazioni Unite o le riunioni in sede europea, o le diverse Commissioni nazionali. È anche il criterio adottato e difesa dalle associazioni e organizzazioni più o meno politiche ambientaliste e verdi.

Esso cerca e realizza, in teoria, il compromesso che vedremo impossibile fra urgenze ambientali e accumulazione capitalista.

L’accumulazione capitalista impone di continuare a produrre mezzi di trasporto individuali, cerchiamo di farli il meno inquinanti possibile; il capitale impone il carattere di merce all’energia, cerchiamo di produrla al minor costo ambientale possibile; la produzione di certe merci più o meno innovative implica l’impiego e la produzione a monte di sostanze pericolose, prendiamo tutte le precauzioni possibili; e via così.

Consideriamo a titolo di esempio la produzione di energia, che è insieme alla circolazione dei mezzi di trasporto a motore la principale responsabile dell’emissione di CO2. Nessun ambientalista o verde potrà mai obiettare alcunché agli esperti che dicono le fonti alternative essere certamente più costose della fonte oggi dominante (petrolio) e ancor meno hanno da obiettare alla natura di merce dell’energia stessa, e dunque alla necessità (per il capitale) della sua produzione per la vendita. Così è vero che:

Una tecnologia solare più sofisticata e più diffusa avrà un impatto benefico e potrà rendere meno gravi i problemi dell’inquinamento atmosferico e del cambiamento climatico globale. (9)

Ma è anche vero che si parla di problemi "meno gravi", ovvero di un possibile allungamento dei tempi del riscaldamento e del cambiamento climatico globale, non di una vera soluzione.

E comunque la diffusione della tecnologia solare avverrà solamente quando scenderà drammaticamente il suo costo.

Quali sono dunque le possibilità del compromesso fra urgenze ambientali e accumulazione capitalista? Nulle. C’è infatti un problema, evidenziato dagli stessi ambientalisti (di più dagli scienziati) e subito dimenticato, per la corsa dannata al compromesso che caratterizza tutti i "riformisti nel DNA". Il problema è così riassumibile: il danno all’ambiente corre più veloce delle misure di contenimento che la realtà capitalista consente.

Restando sull’esempio delle fonti alternative di energia e dell’energia solare (ma potrebbe essere quella delle biomasse o delle maree o quella eolica) il loro costo potrà raggiungere quello basso delle fonti tradizionali (combustibili fossili) solo sui tempi lungi o in presenza di una rapida e drammatica crescita del prezzo di queste ultime. Poiché, nonostante i gridi di allarme sulla progressiva diminuzione delle sue scorte, il petrolio "gode" ancora di prezzi bassi e poiché il computo delle scorte sta variando in "positivo" a seguito della individuazione di nuovi enormi giacimenti, le misure di contenimento delle emissioni definite sulla base delle compatibilità economiche del capitale non faranno a tempo a contenere il disastro.

Ad aggravare il quadro si aggiunge ora la lotta a oltranza che la "borghesia operativa" conduce alle misure di contenimento proposte che è ben esemplificata dalle polemiche in Usa di cui sopra e più ancora dall’incombente trattato multilaterale sugli investimenti (MAI). (10)

L’esasperato neo-liberismo cui la borghesia mondiale ricorre nel tentativo di far fronte alla crisi del saggio di profitto e del ciclo di accumulazione è l’espressione politica della ben concreta esigenza/tendenza dei capitalisti a risparmiare su tutti i costi della produzione: il costo della manodopera primo fra tutti, ma anche quelli delle materie prime e dei materiali complementari e quelli legati alle condizioni della produzione. E protezione ambientale e sicurezza del lavoro sono fra questi costi.

Altro che sviluppo sostenibile.

Ridurre le emissioni: i criteri umani

Rivediamo allora il nodo centrale:

La questione dell’economia non sta nel crescere o non crescere; la questione è come crescere e in vista di quale scopo. La crescita fine a se stessa spesso si dimostra contraria agli interessi umani: può deprimere la qualità della vita, anziché innalzarla. La crescita economica dovrebbe essere al servizio delle finalità umane e dovrebbe sussistere solo quando adempie tale funzione. (11)

Sono parole di Ervin Laszlo, consigliere dell’Unitar, l’Istituto delle Nazioni Unite per l’addestramento e la ricerca, non di un rivoluzionario internazionalista.

Ed esprimono bene il pensiero di qualunque essere pensante che consideri innanzitutto gli interessi umani.

Si tratta allora di dover rimediare a guasti già fatti e già operanti in negativo su frazioni consistenti dell’umanità (non vanno mai dimenticati, oltre a quelli citati in apertura, fenomeni come il processo di desertificazione in atto in vastissime zone della Cina, il grave sfoltimento delle foreste centroeuropee a seguito delle piogge acide, lo sconvolgimento delle dinamiche dell’alta atmosfera che, a fronte di perfezionate tecniche di rilevamento dati ed elaborazione che metterebbero in grado i meterologi di fare previsioni accurate, limitano la portata delle previsioni stesse a non più di tre-quattro giorni). Si tratta quindi di tagliare subito quei 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica eccedenti quanto la natura può riciclare.

Scrive ancora G. Nebbia:

Il rimedio è uno solo: fermare il flusso nell’atmosfera dei gas responsabili dell’effetto serra [sottolineatura nostra].

Ora è evidente che occorrerebbe agire sui due fronti: ridurre drasticamente e subito le emissioni e potenziare le capacità di riciclo della natura: rimboschimenti, invece di distruzione delle foreste; recupero delle antiche capacità di assorbimento da parte dello zooplancton oceanico invece che sua distruzione ad opera dell’inquinamento delle acque, che a sua volta accresce enormemente la quantità di "alghe velenose", eccetera.

Ridurre le emissioni è reso possibile solo da un drastico taglio alla produzione di energia elettrica da petrolio. Limitandoci al caso italiano, esso sarebbe possibile, senza gravi cali di produzione di energia elettrica, solo riattivando e potenziando le decine di centrali e centraline idroelettriche dell’arco alpino e attuando tutte le forme alternative di produzione di energia elettrica già disponibili. E negli altri paesi che molti, privi del senso del ridicolo, chiamano "in via di industrializzazione" non sarebbe logico, giusto, umano, saltare la fase delle centrali termoelettriche a combustibile fossile, invece che consentirgli un aumento delle emissioni senza limiti? E negli Usa, prima potenza economica e tecnologica, ci si vuol far credere che, indipendentemente dalle considerazioni economiche, non potrebbero fare a meno del petrolio e produrre energia con le altre tecnologie pulite?

Il fatto è che porre tutto questo come obiettivo in un imprecisato futuro di una lunga marcia attraverso le compatibilità capitalistiche significa solo continuare ad eccedere le capacità di riciclo della natura e ad aggiungere danno al danno già fatto, provocando ben più rapide e drammatiche risposte della natura sul pianeta - è bene tornare a sottolinearlo.

Sul lato del potenziamento delle capacità di cattura e riciclo dell’anidride carbonica, tanto più necessario quanto minore è il taglio alle emissioni si tratterebbe innanzitutto di dare il bando assoluto al taglio e al danneggiamento delle foreste grandi e piccole. È vergognoso che i paesi scandinavi possano vantare un raddoppio dell’area forestale sui loro paesi grazie a intelligenti politiche di sfruttamento mentre le industrie produttrici di carta (anche in quei paesi!) importano la più economica cellulosa tratta dal legname della foresta amazzonica indiscriminatamente attaccata. Come è vergognoso che per creare pascoli per le sterminate mandrie di bovini delle grandi catene di hamburger si rada ogni anno al suolo migliaia di ettari di quella stessa foresta.

Occorrerebbe poi passare al recupero e alla riforestazione delle aree desertiche nuove nelle diverse regioni del mondo (dalla Cina al Sahel africano).

Gli oceani hanno ancora una certa capacità di recupero se non ulteriormente tormentati dall’inquinamento. Occorrerebbe allora fermare subito l’enorme flusso di inquinanti che lungo i fiumi giungono a mari e oceani: rigidi controlli a tutte le emissioni industriali e blocco di quelle inquinanti. Le tecniche di controllo e anche molte di depurazione già esistono e se non vengono applicate è per i soliti motivi di compatibilità economica: lo stato difende questi, non gli interessi umani.

Se i governi operassero pro bono publico, nell’interesse dei cittadini, della vita, della natura delle generazioni future, non ci sarebbe stato bisogno della Conferenza di Rio del 1992 [vi ricordate il "Vertice della terra"?] né della recente conferenza di Kyoto, e non ci sarebbe bisogno di quelle che verranno. (12)

Verissimo. Ma perché è così?

Perché i governi non sono espressione del pubblico, ma della classe dominante i cui interessi di conservazione entrano oggi in diretta collisione con gli interessi dell’umanità.

Questo è il dato che non riesce a entrar bene nella testa di ambientalisti e verdi riformisti e anche quando sembra entrare viene subito snaturato dal pensiero che si possa fare a tempo, premendo sul capitale, a correggerlo in senso ambientalista.

Rivoluzione e socialismo

Come spiegare altrimenti le seguenti proposizioni?

... non va sottovalutata l’importanza del fatto che per la prima volta un accordo internazionale impone vincoli ambientali alle attività economiche, stabilendo così il principio che i mercati devono tener conto anche delle conseguenze ambientali delle proprie attività... (13)

I vincoli di quell’accordo:

  1. sono del tutto insufficienti, ridicoli rispetto alle urgenze;
  2. anche quelli non sono certi, perché attendono la ratifica degli stati e dalla Casa Bianca è già arrivata la notizia che non è certo questo il momento per presentare al Senato il programma relativo.

L’applicazione dei criteri umani di cui sopra comporta quale condizione ineludibile il radicale cambiamento del quadro politico e la eliminazione della borghesia quale classe dominante.

Sino a che tale condizione non si verifica, il mondo capitalista continuerà a correre verso la catastrofe ambientale.

Una volta verificate quelle condizioni, una volta cioè che il proletariato riesce a distruggere il capitalismo e il capitale e ad amministrare non più l’economia ma la produzione per i bisogni dell’uomo, nuove grandi possibilità si aprono nel senso di un riequilibrio fra uomo e natura.

Intanto viene a cadere la ragione prima della dannosità della produzione di energia, cioè il suo carattere di merce. (14)

Ciò significa che si andrà a produrre energia in funzione della sua necessità e non in funzione della sua distribuzione appunto come merce. Il che apre la possibilità, liberati dal vincolo del costo economico, di adottare le tecnologie più adatte e rispondenti alle condizioni ambientali.

Parentesi sull’energia e la fisica

Ma a questo proposito vale la pena aggiungere qualcosa a proposito del... nucleare.

Molti ricorderanno lo scalpore a suo tempo (1989) suscitato dall’esperimento di due scienziati elettrochimici che dissero di aver realizzato la fusione fredda.

La fusione è il processo di unione di due nuclei atomici di un elemento chimico a formare un altro nucleo di elemento chimico diverso. È in certo modo la chimerica "trasmutazione" della materia" degli alchimisti medievali.

La moderna fisica atomica postula questa possibilità nelle sole condizioni del plasma: una nuvola di protoni e neutroni alla temperatura di alcuni milioni di gradi centigradi. Nella pratica,

la comunità della fusione calda cerca, senza riuscirvi, di aumentare l’energia cinetica dei nulcei di deuterio a tal punto da superare con la velocità la considerevole barriera che si frappone alla loro fusione, e per far ciò cerca di raggiungere temperature che sono almeno cento volte quelle che si stima esistano all’interno del sole. (15)

Tale processo di fusione libera quantità notevoli di energia perché per esempio, il contenuto energetico di due atomi di idrogeno è largamente superiore al contenuto di un atomo di elio che si formerebbe dalla fusione dei due.

Ebbene, a tutt’oggi, l’energia consumata per il mantenimento del plasma per un tempo sufficiente a che una qualche fusione nucleare si verifichi è di molto superiore alla quantità di energia liberata dalla fusione stessa.

Il problema non è da poco, sia per i fisici sia per le industrie produttrici di energia.

Il Prof. Rubbia sta dirigendo un piano poliennale di ricerca, presso i mega-laboratori del Cern a Ginevra, finanziato da alcuni miliardi di dollari annui della Comunità europea, e finalizzato alla soluzione di quel problema.

Fleischmann e Pons, i due "elettrochimici" di cui sopra, con il loro esperimento hanno messo in serio dubbio l’utilità e la validità di tali dispendiose ricerche, ma hanno anche messo in dubbio la validità del più complessivo impianto teorico della fisica moderna. Ed hanno aperto una possibilità, tutta ancora da esplorare, davvero rivoluzionaria e dunque strumento utile al rivoluzionamento della società. La possibilità entusiasmante è quella di produrre energia in modo quasi assolutamente pulito (senza scorie) e di produrla nelle quantità e nei luoghi ove serve, fin nelle singole unità abitative, mediante attrezzature di semplice produzione e a basso costo sociale. Intendiamo per costo sociale di un bene o servizio la somma di:

  • quantità di energia consumata;
  • quantità di materie prime e quantità di lavoro necessarie;
  • impatto degli agenti inquinanti sull’ambiente e dei rifiuti di produzione;
  • impatto sull’ambiente del bene o servizio una volta dismesso come rifiuto.

Va da sé che la esperienza di Fleischmann e Pons, quantunque ripetuta in diversi centri di ricerca nel mondo, Italia compresa, è stata dapprima bollata come un falso - e i due sperimentatori tacciati di cialtroneria - poi è stata semplicemente negata in base al mancato ripresentarsi di alcuni fenomeni accessori, ma solo nella fusione calda, infine semplicemente ignorata e messa da parte dalla scienza ufficiale. In realtà è questa ad essere gravemente messa in questione dagli ormai consolidati successi degli esperimenti di fusione fredda e dai progressi fatti anche nel controllo del fenomeno.

In sostanza si tratta di questo. Agli inizi di questo secolo (epoca di scontri ciclopici fra le classi ancor oggi antagoniste, prima, durante e subito dopo quel grandioso evento che fu la Rivoluzione d’Ottobre - quantunque poi tragicamente sconfitta) una straordinaria vitalità delle scienze portò quelle novità che rimandano ai nomi di Nernst, Plank, Einstein, Heisenberg. In quella che si affacciava come nuova visione del mondo,

i due sistemi irriducibili della fisica classica, particelle e quanti, quelle paradigma del discreto, questi del continuo, vengono in qualche modo, arcano e incomprensibile, a fondersi in un ‘unicum’ in cui la discontinuità del quanto e la continuità del campo si trasmutano incessantemente l’una nell’altra, a seconda dell’interazione con l’osservatore. (16)

Questo è fissato nel principio di indeterminazione di Heisenberg, che i fessi vogliono presentare in chiave anti-marxista e anti-determinista, sol perché egli, politicamente, era un fior di reazionario.

Ma da allora ci si è fermati,

dopo circa un secolo queste idee non sono ancora maturate in una visione del mondo compiutamente antipodale a quella meccanicistica della fisica classica. (17)

Il capitale ha vinto, si è ripresa l’Urss dalla seconda metà degli anni 1920, si è ‘stabilizzato’ ed ha ovunque rafforzato la sua presa diretta sul mondo scientifico, sui "facitori di scienza".

Da più di settant’anni nulla viene seriamente a turbare l’equilibrio della società data, ed è questa, nelle sue molteplici manifestazioni, che decide della validità "seria" e dunque della praticabilità di una teoria o di un paradigma scientifico.

Ne deriva che non potrà mai pacificamente affermarsi qualunque teoria che in qualche modo rompa o metta radicalmente in questione il rapporto fra scienza e capitale. Nel campo delle scienze fisiche è l’establishment accademico con l’insieme dei centri di ricerca finanziati dal capitale a svolgere le funzioni del guardiano. I dissidenti possono solo gettare le basi di una rifondazione delle scienze e del loro metodo, che potrà manifestarsi come sapere sociale quando la società stessa si sarà liberata dalle catene del capitale. E a loro va tutto il nostro incoraggiamento.

Ancora su socialismo e ambiente

La rapida eliminazione delle emissioni di gas serra dalla produzione di energia non sarebbe ancora sufficiente a ricostruire il corretto rapporto uomo ambiente se dovesse sussistere l’attuale trend di crescita del trasporto individuale a motore a scoppio. Sono ridicoli i discorsi sul risparmio energetico e la combustione "non inquinante" di nuove e possibili tecnologie motoristiche, a fronte dei piani di motorizzazione di indiani e cinesi. A un meno 30 per cento di consumo e di inquinamento del singolo mezzo corrisponderebbe comunque un più 70-80 per cento di mezzi circolanti con le ovvie risultanze sull’inquinamento globale.

È necessario dunque ripensare radicalmente, e sempre a partire dai bisogni veri dell’uomo, mobilità e trasporti. Il mezzo individuale è ammissibile alla sola condizione che:

  1. sia generalizzabile a tutti;
  2. sia assolutamente non inquinante e non emittente di gas-serra (sia dunque mosso da qualcosa di diverso dai motori a scoppio o elettrici, se questo vuol dire produzione massiva di energia con i metodi odierni);
  3. sia utilizzato eccezionalmente rispetto alle forme collettive o pubbliche di trasporto.

In buona sostanza si tratta di ripensare daccapo le forme della mobilità umana. È questo un terreno di ricerca capace di appassionare schiere di ricercatori, una volta che fossero liberati dal vincolo del costo economico in termini borghesi e "condizionati" solo dal costo sociale così come lo abbiamo definito sopra. E poiché il movimento è una forma di energia si tratta "solo" di utilizzare la forma di energia più adeguata e prodotta nel modo più utile da trasformare in movimento del mezzo.

Nell’ipotesi, non peregrina, che per anni si emette ancora più di quanto la natura può assorbire e riciclare, resterebbero ancora da potenziare le capacità di assorbimento della natura. I sistemi sono già oggi indicati dagli ambientalisti, sebbene nella chiave stupidamente riformistica che li caratterizza: grandi opere di rimboschimento, disinquinamento di fiumi, laghi, acque sotterranee e oceani. Loro, i verdi, vedono tutto ciò come grande occasione di occupazione nell’ambito dei rapporti di produzione capitalistici. A sostenerle in questi vaneggiamenti c’è tutta l’ala radical-riformista che in Italia si riunisce in e attorno a Rifondazione. Tralasciano tutti costoro, un particolare: il rimboschimento e il disinquinamento non dà profitto se pensato una volta per tutte. L’eco-business ha senso come tale proprio perché presuppone un mercato in crescita: si forniscono tanti più mezzi e servizi quanto più cresce l’inquinamento stesso. Ma un mercato del disinquinamento del pianeta non è ammissibile neppure sul piano teorico più spinto, perché una volta raggiunto l’obiettivo del disinquinamento stesso, verrebbe meno il mercato.

Di più: il rimboschimento è un tipico intervento pubblico in cui lo stato paga un servizio alla collettività, attingendo dai suoi fondi. La grande occasione di occupazione ha dunque una qualche possibilità solo nel caso di larghe disponibilità statali. Chiunque dotato di buon senso sa perfettamente che non è il caso d’oggi, dello stato borghese di oggi e di domani. A meno di pensare a un nuovo ciclo di accumulazione che sappiamo possibile solo dopo le immani distruzioni di una nuova guerra mondiale.

Le operazioni di pulizia del pianeta e di riequilibrio fra uomo e natura sono invece fra le possibilità e fra i doveri prioritari del semi-stato operaio.

Il censimento degli interventi necessari, la loro organizzazione in una scala di priorità, lo studio dei mezzi di intervento e del loro costo sociale, la pianificazione della produzione e dell’impiego di lavoro per effettuarli, sono compiti che possono e devono essere svolti dall’organizzazione orizzontale e verticale dei consigli a scala internazionale, con l’utilizzo di tutte le competenze scientifiche e tecniche che si metteranno a disposizione, una volta che il proletariato si sia elevato a soggetto agente della storia e abbia, nei fatti rivoluzionari, aperto nuovi orizzonti alla voglia di fare.

La classe operaia ha non più solo un mondo da liberare, ma avrà un mondo da ripulire, e tanto più da ripulire quanto più ritarda la propria emancipazione dal capitale e dal lavoro salariato.

Mauro jr. Stefanini

(1) Vedi Hillary Mayell History of El Niño: Tracking a global mystery, Environmental News Network, settembre 1997.

(2) Vedi Media e governo senza energia nello speciale energia titolato La battaglia di Kyoto de Il Manifesto del 14 dicembre 1997.

(3) In particolare è degno di nota Lo speciale energia di cui alla nota precedente.

(4) Ibidem.

(5) Vedi Les enjeux de la conférence de Kyoto in Le Monde Diplomatique di gennaio 1998.

(6) Clinton’s climate plan under attack, articolo di agenzia di H.J. Hebert dell’Associated Press del 12 giugno 1998.

(7) Ibidem.

(8) No response to FOIA request, comunicato stampa dello Small Business Survival Committeee del 9 giugno 1998.

(9) Vedi Les enjeux... cit.

(10) "...in order to promote sustainable development.." Articolo 2 del protocollo di Kyoto.

(11) William Hoagland Energia solare in Energie pulite, Quaderno n. 96 di Le Scienze, p.47.

(12) Vedi Bc 3/1998.

(13) Obiettivi per l’umanità, Quinto rapporto al Club di Roma, Biblioteca della EST, Mondadori 1978, p. 161.

(14) G. Nebbia, op. cit.

(15) Ermete Realacci, presidente di Lega Ambiente sullo speciale de Il manifesto citato.

(16) Abbiamo trattato più diffusamente di questo nel saggio Uomo, ambiente, capitale sul n.7 di questa serie di Prometeo.

(17) Cfr. Giuliano Preparata, Dai quark alla fusione fredda, intervento alla Conferenza di Lagopesole sulla fusione fredda, 6 ootobre 1996.

(18) Cfr. Giuliano Preparata Un’altra ‘Rivoluzione tradita’:la fisica dei quanti, 2 maggio 1998 in attesa di pubblicazione.

(19) Ibidem.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.