Il mondo senza confini

Il sogno che da sempre anima il pensiero dell'economista e dell'ideologo borghese è un capitale senza contraddizioni. Soprattutto nei periodi di crisi, egli avverte che gli sconvolgimenti di cui è testimone sono la prova migliore che la formazione sociale, che così profondamente ama, è destinata a crollare e viene colto da una sorta di horror per la realtà fino al punto che ciò che vede gli appare come una pura finzione o al massimo come uno sgradevole intervallo prima dell'approdo a un futuro Eldorado.

Fra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, quando apparve chiaro che la concorrenza anziché liberare gli uomini dalle antiche catene, trasformandosi nel suo opposto, il monopolio, andava generando forme di sopraffazione ancora più violente di quelle fino ad allora conosciute, dal seno della seconda internazionale si sviluppò una corrente di pensiero che nelle nuove tendenze vide, pur dopo averle descritte con sufficiente puntualità, il mezzo per il passaggio indolore e automatico da una società caratterizzata dall'anarchia dei rapporti di produzione a una società regolata, in cui non ci sarebbe più stato spazio per ogni sorta di conflitto.

È il socialdemocratico Hilferding, nel suo Il Capitale Finanziario pubblicato nel 1910 che avanza per primo questa ipotesi. Di fronte alla crescita dei cartelli e dei trusts e alla conseguente multinazionalizzazione delle imprese, egli ipotizzò una società retta da un unico cartello che avrebbe controllato l'intera produzione mondiale. Le contraddizioni fra capitale e lavoro; fra produzione e distribuzione, essendo la produzione sottratta alla concorrenza e perciò regolata e pianificata, sarebbero state in tal modo in gran parte superate.

Ci si può chiedere - scriveva nell'opera appena citata - [...] dove siano i limiti effettivi alla cartellizzazione. La risposta è che per la cartellizzazione limiti assoluti non ne esistono. (1)

E una volta data come vera questa premessa, che invece è sostenibile soltanto in via puramente teorica prescindendo dai processi reali di concentrazione e centralizzazione del capitale e dalle contraddizioni che li determinano, se ne deduce uno scenario verosimile in cui le contraddizioni del sistema si risolvono meccanicamente.

Risultato di questo processo è il costituirsi di un cartello generale. Tutta la produzione capitalistica viene consapevolmente regolata da un organismo, che decide del volume complessivo della produzione in tutti i settori. A questo punto la determinazione dei prezzi diviene puramente nominale, e implica ormai soltanto la distribuzione del prodotto totale tra i magnati del cartello da una parte, e la massa di tutti gli altri membri della società dall'altra. Il prezzo non è quindi più la risultante di un rapporto tra cose subìto dagli uomini, ma un puro e semplice metodo di calcolo per l'attribuzione di cose da persona a persona. Il denaro perde ogni funzione. Esso può anche sparire del tutto giacché si tratta di distribuzione di cose e non di attribuzione di valori. Assieme all'anarchia della produzione scompare il segno oggettivo; scompare l'oggettività del valore della merce, e quindi scompare il denaro. Il cartello distribuisce il prodotto. [...] Una parte del nuovo prodotto viene distribuita alla classe lavoratrice e agli intellettuali; il resto rimane al cartello che lo utilizza come meglio crede. Siamo dunque alla società retta consapevolmente in forma antagonistica. Ma questo antagonismo è antagonismo nella distribuzione. La distribuzione, d'altro canto, è regolata consapevolmente e perciò stesso la necessità del denaro è svanita. Il capitale finanziario, a sviluppo ultimato, si sradica dal terreno che lo ha nutrito. La circolazione del denaro è divenuta superflua, l'incessante sua rotazione ha raggiunto il suo scopo - la società regolata - ed il perpetuum mobile della circolazione finalmente si arresta.

È sorprendente notare come Hilferding, in questi passaggi, non tenga in alcun conto come la crescita del monopolio sia intimamente connessa con la caduta tendenziale del saggio medio del profitto. Scompare il fenomeno e scompare il profitto che diviene sic et simpliciter quella parte del prodotto che rimane al cartello che lo utilizza come meglio crede; eppure è lo stesso Hilferding a considerare la tendenza alla diminuzione del saggio medio del profitto come la linfa vitale che dei processi di cartellizzazione. La cartellizzazione cioè non soddisfa una teorica e astratta opzione di conservazione operata da occulti sacerdoti del capitale, ma risponde all'esigenza di realizzare extra-profitti capaci di operare in contro tendenza con la legge della caduta del saggio medio del profitto. Non riguarda, dunque, le cose intese come astratte cose in sé, ma le cose nel loro modo di essere prodotte e le relazioni fra gli uomini che quel modo di produrre determina. Ovvero riguarda i rapporti fra gli uomini divisi e uniti fra loro dalla diversa collocazione che hanno nel processo produttivo; riguarda il conflitto fra le classi sociali e. al loro interno, fra le diverse stratificazioni che le compongono. L'approdo a un unico cartello generale presuppone pertanto la sconfitta della maggioranza della borghesia mondiale per mezzo del capitale stesso e la riduzione del proletariato mondiale a un immensa batteria di polli da allevamento. E tutto ciò è necessariamente conflitto il cui esito non può essere dato per certo se non in via del tutto accademica. Ma l'horror dell'intellettuale borghese o sedicente marxista di fronte al conflitto è tale che lo induce, più o meno consapevolmente, a bendarsi gli occhi di fronte alla realtà, e a passare, con grande disinvoltura, dalla scienza alla fantascienza dove tutto è possibile.

Percorrendo la medesima china, nel 1914, Kautsky formula addirittura l'ipotesi secondo cui, grazie al monopolio e alla possibilità di eliminare con la costituzione di un unico cartello mondiale la concorrenza, si sarebbe potuta aprire un'epoca in cui il capitalismo violento avrebbe ceduto il posto a un capitalismo pacifico superando così la sua fase imperialistica per approdare a una sorta di ultra-imperialismo che avrebbe risolto tutti i problemi dell'umanità. Ritenendo che "una tale (ultra-imperialistica) fase del capitalismo è pensabile" (3), Kautsky di fatto rinviava sine die l'attualità della rivoluzione socialista e la sua pratica attuazione in netto contrasto con quanto andava sostenendo il marxismo rivoluzionario (Lenin), secondo cui nell'epoca dell'Imperialismo, in quanto fase suprema del capitalismo, l'unica alternativa alla crescente barbarie prodotta dalla decadenza del capitalismo è la rivoluzione socialista.

Lo scenario neo-liberista

Benché la storia abbia clamorosamente smentito le ipotesi di un nuovo stadio del capitalismo oltre quello dell'imperialismo, negli ultimi tempi cresce il numero di coloro che rispetto all'estensione dei fenomeni di globalizzazione dell'economia ripropongono una tale eventualità. Il ragionamento che sta alla base di questa riproposizione muove però da altre premesse. Per Hilferding e Kautsky era la fine della concorrenza il presupposto che rendeva possibile ipotizzare uno stadio pacifico del capitalismo; per gli economisti di oggi, al contrario, sarebbe il prossimo ineluttabile avvento di una economia transnazionale basata sulla concorrenza perfetta la levatrice del nuovo Eldorado.

Grazie alle nuove tecnologie basate sull'informatica e alla rivoluzione del sistema dell'informazione:

Il Paese verso il quale tutti si dirigono - aiutati lungo il cammino dall'esposizione alla lingua inglese, a Internet, a reti televisive come Fox Tv, Bbc, Cnn e Mtv e agli strumenti per la comunicazione interattiva - è l'economia globale di un mondo senza confini... Utilizzando un telefono, un fax o un personal computer collegato a Internet, per esempio, un consumatore giapponese di Sapporo è in grado di ordinare capi di abbigliamento alla Lands'End in Wisconsin o alla L.L. Bean nel Maine. La merce gli viene consegnata tramite Ups o Yamato, mentre l'importo dell'acquisto è addebitato ad American Express, Visa o Master Card... Inoltre, nonostante il rigoroso controllo esercitato in Giappone sull'attività bancaria, quel consumatore potrà telefonare o comunicare via fax con la First Direct in Gran Bretagna o con un numero infinito di istituzioni finanziarie statunitensi... per trasferire fondi da qualunque luogo a qualsiasi punto del globo ed evitare così i tassi di interesse artificiosamente bassi imposti dal governo a protezione delle banche nazionali... Così... il potere sull'attività economica migrerà inevitabilmente dai governi centrali degli Stati-nazione alla rete senza confini formata dalle innumerevoli decisioni individuali prese a partire dalla realtà del mercato. (4)

Se nel 1857 Kenichi Ohmae, l'autore appena citato, avesse visto Meucci comunicare con il primo telefono siamo certi che già allora avrebbe immaginato un mondo senza frontiere e telefoni in ogni dove. Nel 1995, dopo circa 140 anni, invece:

Oltre la metà degli abitanti della terra non aveva mai usato il telefono: in 47 paesi il numero delle utenze era inferiore a 1 su cento abitanti...

E, inoltre anche per quel "15 per cento circa della popolazione mondiale che possedeva i 3/4 circa delle principale linee telefoniche..." la diffusione del telefono non ha certo significato il trionfo del cosiddetto consumatore quanto invece quello del capitale monopolistico. Se un secolo e mezzo non è stato sufficiente perché il telefono arrivasse in ogni casa, figuriamoci, fermi restando i rapporti di produzione borghesi, quanti secoli ci vorranno perché la gran parte degli uomini possa collegarsi a Internet visto che si calcola che, a tutt'oggi, solo il 3 per cento della popolazione mondiale ha la possibilità teorica di accedervi. (5)

Il fatto è che per Ohmae, come del resto per quasi tutti coloro che si occupano del problema della mondializzazione, non sono le contraddizioni del processo di accumulazione del capitale che determinano la tendenza alla mondializzazione dell'economia; ma è la tecnica (il computer, i satelliti per le telecomunicazioni ecc.). Una volta assunta la tecnica al di fuori dei rapporti di produzione vigenti e quindi della realtà del contesto socioeconomico, tutto diventa possibile e Il futuro può essere immaginato come più ci aggrada. C'è chi, come Samuel Huntintgton, cancella le guerre sostenendo che eventuali conflitti potranno essere determinati solo dalle diversità culturali esistenti fra i popoli essendo venute meno le ragioni di ordine economico politiche e sociali e chi, come lo stesso Ohmae, arriva al mondo senza conflitti dopo aver fatto fuori quattro quinti dell'umanità a cominciare dai contadini giapponesi responsabili del fatto che egli è costretto a vivere "in un località che dista dai 40 ai 50 chilometri" dal suo ufficio di Tokyo mentre:

Se anche solo un quarto di queste terre [quelle coltivate da contadini attorno a Tokyo a suo dire in modo scarsamente produttivo o comunque antieconomico - ndr] fosse messo in vendita e destinate all'edilizia abitativa, le famiglie della zona di Tokyo [e fra queste la sua - ndr] potrebbero permettersi una casa di 120-150 metri quadri, contro la media attuale di 88. (6)

Dalla constatazione dell'esistenza di squilibri fra le diverse aree, anche di uno stesso stato, alla necessità del loro superamento mediante lo sganciamento di quelle più arretrate, il passo è breve e breve è anche il passo che porta al dissolvimento dello Stato-Nazione. Dovendo garantire il cosiddetto minimo civile a tutti i suoi abitanti, lo Stato Nazione costringerebbe, per dirla alla Bossi, gli abitanti della Padania a pagare più tasse di quanto dovrebbero impedendo l'inserimento del Nord nei processi di globalizzazione dell'economia.

Le aree più sviluppate del pianeta, come l'Italia Settentrionale, se non vogliono cadere nel baratro dell'esclusione e della povertà hanno come unica alternativa quella di dar vita a nuove realtà aggregate sulla base del reciproco interesse:

a elevare il tenore di vita della popolazione, attirando e impiegando al meglio i talenti e le risorse dell'economia globale ed evitando in tal modo di favorire il nascere di interessi particolari. (7)

Non più dunque stati centralizzati e opprimenti, ma:

nuovi Stati-Regione, vale a dire... unità geografiche come l'Italia Settentrionale; il Baden-Wurtenberg; il Galles; San Diego/Tijuana; Hong Kong/Cina meridionale; Silicon Valley/Bay Area in California; Pusan (all'estremo sud della penisola coreana) e la città di Fukuoka e Kitakyushu nel nord dell'isola giapponese di Kiushu. A queste zone si aggiungono il cosiddetto Grow Triangle di Singapore, Johor (lo stato più meridionale della Malaysia) e le vicine isole Riau appartenenti all'Indonesia (inclusa Batam, una vasta zona in regime di porto franco); il Research Triangle Park nel North Carolina; la regione francese del Rodano-Alpi, che gravita su Lione e vanta solidi legami commerciali e culturali con l'Italia; la regione della Linguadoca-Rossiglione; attorno a Tolosa, città strettamente collegata alla Catalogna; Tokyo e le zone circostanti; Osaka e la regione di Kansai; l'isola di Penangin Malaysia e anche l'emergente Greater Growth Triangle... che attraverso lo Stretto di Malacca congiunge Penang, Medan (città indonesiana dell'Isola di Sumatra) e Phuket in Thailandia. (8)

E gli altri? Una volta esclusi dagli Stati-Regione che fine faranno i newyorkesi, i parigini, i romani, i russi? Per non parlare dei siciliani, dei calabresi, dei polacchi? Per essere un mondo senza confini ci sembra davvero pochino; ma la rottura dello Stato-Nazione è solo l'inizio della lunga marcia verso un capitalismo nuovo e armonioso poiché gli Stati-Regione:

se otterranno un adeguato margine di autonomia, grazie alla loro capacità di mettere al primo posto la logica globale potranno rappresentare esattamente il tipo di agente del cambiamento di cui la nostra epoca ha bisogno: saranno efficaci motori della prosperità e di una migliore qualità della vita per i popoli dell'economia globale. (9)

Tutto dipenderà dagli esclusi, dalla loro volontà e capacità di diventare competitivi. Se vorranno, tramite gli Stati-Regione che:

rappresentano eccellenti porti di entrata per l'economia globale, poiché tendono a formarsi proprio in base ai criteri dettati da quell'economia,

potranno a loro volta inserirsi nella rete del nuovo paradiso. (10)

Così, per esempio:

Una volta che Hong Kong [già oggi Stato-Regione modello - ndr] sarà ritornata alla Cina nel 1997... le politiche che tengono conto della logica globale e mirano a trarne vantaggio contribuiranno a diffondere la sua ricetta per il successo economico anche nel resto del Paese. (11)

Certo, non tutti i problemi dell'umanità potranno essere risolti, anzi il passaggio dall'economia centralizzata basata sullo Stato-Nazione a quella decentrata e globalizzata basata sullo Stato-Regione ne creerà di nuovi; ma:

... essi potranno essere affrontati mediante nuovi, successivi interventi di riorganizzazione... si tratta, in ultimi analisi, di problemi organizzativi causati dalla natura umana, problemi che possono essere risolti... L'obiettivo, dopo tutto, non è legittimare questo o quell'establishment, questo o quel sistema di potere. È invece migliorare la qualità della vita della gente, della gente comune: di tutti noi, a prescindere da dove viviamo. (12)

L'economia globale supererà, seppure smontando e rimontando interi continenti come se fossero semplici tessere di un puzzle per bambini, i sistemi di potere, di tutti i poteri e si configurerà come l'economia della gente comune che affronta e risolve, con la propria laboriosità, tutti i problemi derivanti dalla natura umana. La reductio ad unum che per Hilferding consisteva nella nascita di un Cartello generale mondiale qui è data dalla nascita di un'economia globale intesa come un unico mare in cui i soggetti economici navigano verso i lidi del benessere. D'incanto le contraddizioni del capitale sono tutte superate. Sfruttati e sfruttatori, inesorabilmente sconfitti dalla globalizzazione, lasciano il posto a sua maestà il cittadino-consumatore che, forte del suo PC e di Internet, sarà in grado di battere tutti i particolarismi ivi compresi, evidentemente, anche gli interessi dei grandi gruppi monopolistici che oggi dominano l'economia mondiale. Dalla società regolata da un unico produttore, come potrebbe essere definita quella ipotizzata da Hilferding e Kautsky, siamo passati alla società regolata dal cittadino-consumatore. Non c'è che dire: il pensiero economico borghese ha compiuto passi da gigante e vola alto, tanto alto da scambiare le tegole che cadono dai tetti sulla testa dei comuni mortali con petali di rose che cadono dal cielo.

L'illusione Localistica

Ohmae costituisce, oggi, il punto di riferimento teorico per tutti quei movimenti localistici, quali la Lega Nord in Italia, che agitano le bandiere dell'indipendentismo locale come il toccasana che consente il regolare svolgimento dei grandi processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali in corso su scala planetaria senza che ciò comporti la proletarizzazione e l'impoverimento di ampie fasce di media e piccola borghesia, anche imprenditoriale.

Come al manager Ohmae, sfugge loro completamente il quadro delle contraddizioni che sono alla base dei processi di globalizzazione dell'economia. Avvertono che chi ne rimarrà fuori è destinato al peggio e, disposti a passare sul cadavere delle loro madri e dei loro figli, lottano con le unghie e con i denti per raggiungere l'agognata meta. Il nemico è il debole che non si mostra all'altezza della competizione e frena la grande corsa verso la libertà. Da chi? Da cosa? Questo non è affare che merita particolare attenzione: ciò che conta è togliersi da dosso ogni inutile fardello. E tale è l'accanimento che non odono il rullo compressore del monopolio che avanza cancellando in parte i confini geografici di un tempo; ma scavando e allargando quelli che dividono il lavoro dal capitale. Intravedono le grandi potenzialità delle moderne tecnologie e ne immaginano l'uso che più si confà alle loro aspirazioni. Ma il problema è proprio qui: è come metterle in produzione senza mettere in discussione i rapporti di produzione vigenti.

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in altra occasione (vedi Prometeo n. 9/95 I Capitali contro il Capitale), la concentrazione del capitale, rallentando o annullando, in vari modi, la caduta del saggio medio del profitto consente l'accoglimento, nell'ambito dei rapporti di produzione borghesi, dello sviluppo tecnologico che altrimenti risulterebbe impossibile. Senza il freno operato dai processi di concentrazione del capitale alla caduta tendenziale del saggio medio del profitto, il conflitto tra i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive anziché manifestarsi solo ciclicamente in maniera acuta (crisi), sarebbe risultato già da tempo insanabile e probabilmente il capitalismo avrebbe già tirato le cuoia. La concentrazione, ovviamente, non elimina la contraddizione, ma in qualche modo la assopisce riproponendola però su scala sempre più vasta. Gli attuali processi di globalizzazione obbediscono a questa logica e intanto hanno luogo in quanto puntano al rafforzamento delle posizioni monopolistiche e, ciò che più conta, del dominio del capitale finanziario ovvero dell'appropriazione parassitaria di plusvalore che è una delle più efficaci forze antagonistiche alla caduta tendenziale del saggio medio del profitto.

Pensare a questi processi come al chiavistello che rompe il potere del monopolio e restituisce potere al cittadino-consumatore è pura fantasia: il treno viaggia in direzione opposta. Non si va verso Stati-Regione,

tra i 5 e i 20 milioni di persone... abbastanza piccoli da consentire ai loro abitanti di condividere gli stessi interessi in quanto consumatori e, nello stesso tempo, sufficientemente estesi da giustificare non tanto economie di scala... quanto economie di servizio - ossia, le infrastrutture rappresentate dalle comunicazioni, dai trasporti e dai servizi professionali indispensabili per partecipare all'economia globale. (13)

Ma, come abbiamo visto nell'articolo Lo Stato a due dimensioni apparso su Prometeo n. 10/1995, verso nuova macchina statale che integrando lo stato nazionale in uno sovranazionale di dimensioni almeno continentali potrà meglio assolvere al suo compito storico.

Lo scenario neo-keynesiano

Diversamente da Ohmae, che interpreta i fenomeni della globalizzazione dal punto di vista del liberismo più estremo e del più feroce darwinismo sociale, il pensiero economico - che potremmo definire neo-keynesiano - coglie meglio le contraddizioni dei processi in atto e, avvertendone i limiti e i pericoli, non consiglia al principe di farsi da parte e affidare la soluzione dei problemi al mercato unico mondiale; ma al contrario gli suggerisce linee di intervento allo scopo di evitare l'esplosione o, meglio, l'implosione della società.

La globalizzazione dell'economia affidata a se stessa in definitiva non lascia che due scelte:

La prima è quella tra economia a retribuzione basse ed economie ad alta specializzazione... Un'altra... è quella tra bassa pressione fiscale e bassa distribuzione dei profitti o, in termini più ampi, tra contenimento della pressione fiscale e contributiva, e alti guadagni, da un lato, e una pressione fiscale e contributiva sostenuta abbinata a una bassa distribuzione dei profitti. (14)

Ora, entrambe le opzioni implicano: o disoccupazione generalizzata o bassi salari e la fine del welfare state per cui:

La globalizzazione economica... sembra essere associata a nuovi tipi di esclusione sociale. Innanzitutto le disuguaglianze in termini di reddito sono aumentate... Ma la nuova disuguaglianza è di un altro tipo. Sarebbe più corretto chiamarla sperequazione, ossia l'opposto esatto dell'appiattimento unificante: ad alcuni si spiana la strada verso le vette, ad altri si cerca di intralciare il cammino scavando buche o creando fendenti e crepacci. [Negli Usa] i Redditi delle fasce più benestanti della popolazione, quelle appartenenti agli ultimi dieci o venti percentili, stanno crescendo in maniera significativa, mentre i redditi delle persone appartenenti ai venti o magari anche ai quaranta percentili più bassi vanno calando. (15)

Con simili fratture all'interno del corpo sociale non c'è da farsi illusioni alla fine anziché approdare regno del cittadino-consumatore si finisce in una società dominata da pochi grandi banche "corporate tra loro e con l'industria tecnologicamente avanzata". (16)

In questo caso, la stessa democrazia borghese verrebbe messa in discussione: la rottura della coesione sociale porterà con se inevitabilmente quella della convivenza civile e nuove istituzione politiche prenderanno il posto di quelle attuali. Senza opportuni interventi correttivi alla fine anche le democrazie occidentali lasceranno il posto a un neo-autoritarismo sul modello di Singapore.

Ebbene - chiosa E. Scalfari - Non è terribile? Non è da incubo? (17)

Si - sostiene Dahrendorf - ma può essere evitato.

Noi desideriamo la prosperità per tutti: ciò significa che siamo disposti ad accettare le esigenze poste dalla competitività nei mercati globali. Aspiriamo a società civili capaci di mantenersi unite e di costituire il solito fondamento di una vita attiva e civile per tutti i cittadini. Auspichiamo lo stato di diritto e istituzioni politiche che consentano non solo il cambiamento, ma anche la critica e l'esplorazione di orizzonti nuovi... Le sfide della globalizzazione esigono risposte che minacciano la società civile... Che fare, allora, per preservare un equilibrio civile tra creazione della ricchezza, coesione sociale e libertà politica? (18)

È necessario:

In primo luogo... cambiare il linguaggio dell'economia pubblica. (19)

Ovvero superare il metro di valutazione della ricchezza e del benessere basato sulla crescita del Pnl integrandolo con...

altre informazioni concernenti le linee di tendenza della sperequazione sociale, delle opportunità misurabili, nonché dei diritti umani e delle libertà; alla cifra nuda e cruda, e spesso fuorviante, deve subentrare un'analisi più appropriata della ricchezza. (20)

Una volta che ci si darà un nuovo metro di valutazione del benessere risulteranno più evidenti le linee d'azione da seguire per il suo raggiungimento. La disoccupazione, per esempio, è chiaramente un indice di povertà e di degrado sociale. È evidente che qualora essa interessasse una parte consistente della forza-lavoro il livello di benessere non potrebbe che essere basso. In tal caso l'attenzione dovrà essere rivolta al mercato del lavoro piuttosto che a incentivare la crescita della produzione industriale. Specificatamente si dovrà tener conto che “nell'arco della propria vita le persone avranno dei periodi di lavoro e dei periodi di disoccupazione”. Pertanto si dovrà promuovere “una pratica efficace del tirocinio e diffonderla in tutti i paesi dell'OCSE”, in modo che i giovani possano essere posti nelle condizioni di “vivere un'esperienza di addestramento professionale legata a occupazioni reali e destinata con un periodo di impiego regolare”. (21)

Dopo aver introdotto questa forma di apprendistato permanente, visto che il lavoro regolare sarà solo per certi periodi di tempo, si sarà evitato alle generazioni future le sicura esclusione; ma che fare degli attuali svantaggiati, di quelle fasce di sottoproletariato create dai processi di ristrutturazione passati?

Chiaramente limitarsi a offrire loro delle opportunità non basta: in assenza di incentivi più forti non le coglieranno. È impopolare dire che per alcuni individui veramente svantaggiati la mancanza di motivazioni rappresenta un ostacolo al ritorno al mercato del lavoro e alla società in generale; ciò non toglie che effettivamente molti di essi sono diventati abulici e si sono abituati a una vita marginale. Tutto quello che si può fare per recuperare gli esclusi, si deve farlo... Ma è senz'altro utile anche distogliere l'attenzione della gente dal problema di come rimediare al presente per orientarla a quello di preparare un futuro migliore: pensare non tanto ad aiutare il sottoproletariato di oggi quanto a impedire l'emergere di quello di domani. Invocare delle conferenze internazionali è sempre una scappatoia; ma indubbiamente un'agenzia appropriata troverebbe attraente l'idea di raccogliere competenze e proposte creative su questo tema. (22)

Se questa è la soluzione con cui si dovrebbe quadrare il cerchio e superare quella che è forse la più drammatica contraddizione che il capitale sta vivendo, è evidente che il futuro che si prospetta per il proletariato mondiale è davvero drammatico. Né appaiono più convincenti le altre, come egli le definisce, modeste proposte che Dahrendorf avanza per governare nella direzione del benessere i processi di globalizzazione. Si va dalla valorizzazione del "potere locale", come antidoto contro il rischio di distruzione che correrebbe la società civile in conseguenza del fatto che “la globalizzazione significa centralizzazione”, “un processo che nello stesso tempo individualizza e centralizza” (23), alla cosiddetta economia degli stakeolder ovvero alla partecipazione alle scelte aziendali non solo degli azionisti ma anche di “forza-lavoro, comunità locale... banche, e perfino fornitori e clienti che in qualche misura fanno tutt'uno con le aziende a cui sono legati”. (24)

In definitiva, Dahrendorf avverte che affidarsi ai cosiddetti spirits animals del mercato potrebbe condurre alla rottura del sistema e avanza l'ipotesi di un nuovo compromesso sociale con il concorso determinante dei governi.

L'accettazione del fatto che gli attori sul mercato globale siano le aziende transnazionali e l'affermarsi della preferenza per il caos creativo della società civile sembrano comportare l'esclusione dei governi, ma è chiaro che essi non esulano affatto da questo quadro, né si può dire, come vorrebbero certi teorici liberali, che siano semplicemente i guardiani delle regole del gioco: come minimo i governi determinano il tono dell'economia e della società in genere. Ma a parte questo, i governi hanno speciali responsabilità nella sfera pubblica.

Essi dovranno assicurare, seppure dopo aver trovato "un nuovo equilibrio... sulla linea di confine tra vincoli globali e opportunità locali o addirittura nazionali" (25), la continuità del welfare-state. In ultima istanza, è la riproposizione, riveduta è corretta del modello keynesiano. Certo, non è più lo Stato del finanziamento in deficit della spesa pubblica, ma continua a svolgere un ruolo fondamentale nella mediazione di classe garantendo i servizi pubblici fondamentali quali la sanità, l'istruzione, la previdenza ecc. Ma qui sfugge il fatto che la globalizzazione, essendo innanzitutto globalizzazione del mercato del lavoro, implica la tendenza alla costante riduzione del valore della forza-lavoro tanto che il temuto modello Singapore si è affermato proprio grazie a un costo del lavoro bassissimo oltre che per i miseri salari anche per l'assenza di ogni forma di protezione sociale. E sfugge altresì che l'aggregazione delle diverse realtà nazionali in nuovi blocchi regionali che "potrebbero rappresentare il futuro prossimo del mondo" (26) non è un assemblaggio sulla base di presunte affinità di valori ma è il passaggio obbligato imposto dai processi di concentrazione capitalistica ovvero è l'espressione della lotta sempre più accanita per il controllo del pianeta. Modello asiatico, modello europeo e modello anglosassone, pertanto, non potranno che assomigliarsi sempre di più cosicché il prevalere dei valori che ispirano l'uno o l'altro modello non implica una modificazione delle prospettive che si vanno delineando. E l'idea che si possa parlare di “prosperità per tutti, di creazione della società civile ovunque e di libertà politica per chiunque” solo perché “è una componente essenziale dei valori europei l'imperativo di non perdere mai di vista la natura veramente internazionale e, in questo senso universale, del progetto per il prossimo decennio” (27) è altrettanto illusoria quanto il regno del cittadino-consumatore di Ohmae.

Gli scenari neo-riformisti

Tuttavia l'idea che sia possibile un capitalismo universale e pacifico non trova credito solo fra economisti e intellettuali di ispirazione neo-liberista o neo-keynesiana. Anche molti intellettuali ed economisti che si pretendono di "sinistra" come per esempio quelli del gruppo di Lisbona, a cui si ispira una buona parte di quell'area politica che va da alcune frange del Pds a Rifondazione Comunista, passando attraverso Il Manifesto, ipotizzano, per i processi di globalizzazione dell'economia, sbocchi altrettanto fantastici. Essi, pur ritenendo per il prossimo futuro ( dieci, venti anni) più probabile uno scenario caratterizzato "dalla frammentazione del mondo... in un contesto quasi generale di economie privatizzate, deregolamentate e liberalizzate..." (28 ) e senza il trionfo del cittadino-consumatore di Ohmae, non ne escludono uno...

basato sul riconoscimento che i problemi mondiali sono così complessi che l'unica maniera di affrontarli è disegnare nuove regole e nuove strategie e creare ai vari livelli appropriati quei meccanismi, quelle procedure e quelle istituzioni che permettono un effettivo "governo" globale... [in modo che] i valori comuni mondiali [comuni a chi? ndr] - solidarietà umana, ripartizione della ricchezza, responsabilizzazione globale sociale e ambientale, dialogo delle culture, rispetto per i diritti dell'uomo, tolleranza universale - sono gradualmente trasferiti nella vita quotidiana a livello delle imprese, delle città, delle nazioni, dei continenti e delle istituzioni mondiali... [e] l'imperativo della competitività nel libero mercato è sostituito dall'imperativo di un'economia cooperativa socialmente ed ambientalmente responsabilizzata.

E di tutto questo ben di dio vi sarebbero anche le prime avvisaglie:

è il caso, per esempio, della United Nations Conference on Environment and Devolopment tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992 e che ha rappresentato... il primo tentativo di negoziato mondiale sulle condizioni e i mezzi per la produzione e la distribuzione della ricchezza a livello mondiale. La conferenza di Rio ha prodotto l'Agenda 21 che... rappresenta un piano per lo sviluppo dell'economia mondiale nell'interesse di tutti i paesi e che, se applicato, darebbe origine ad una nuova generazione di istituzioni per il “governo mondiale”. (29)

Peccato che non sia applicato! Ma la fantasia non ha limiti e buone probabilità di realizzazione vengono assegnate anche al cosiddetto scenario della pax triadica che, benché non sia negli auspici dei nostri autori visto che:

come nel caso della “pax romana”... implicherà una divisione fra i cittadini (cioè, coloro che sono riconosciuti come in possesso del privilegio di essere membri del mondo integrato) e i barbari (gli esclusi)... (30)

presenta lo stesso tratti di idilliaca armonia.

La “pax triadica” significa che il nuovo “ordine mondiale” che emergerà nei prossimi venti anni sarà fondato su un consenso tacito ed esplicito fra le regioni della Triade sul loro interesse convergente a co-governare l'economia e la società mondiale per assicurare la stabilità politica maggiore possibile e il grado di sviluppo socio-economico più alto possibile. La “pax triadica” sarà il risultato di un equilibrio fra le attuali potenze mondiali. In effetti, nessuna potenza mondiale, per quanto grande e forte essa sia, sarà in una posizione tale da permetterle di imporre la sua volontà sugli altri... Le guerre commerciali che continueranno a segnare le relazioni fra li Usa e il Giappone o il Giappone e l'Europa o l'Europa e gli Usa, coesisteranno con un superiore interesse comune e con un forte tasso di interdipendenza fra le tre super-potenze. In questo senso la “pax triadica” tenderà a rafforzare i processi di integrazione fra i membri della Triade. (31)

Benché limitato alle aree più industrializzate del mondo anche questo scenario ipotizza un capitalismo pacificato e, seppure in funzione della propria conservazione, interessato a garantire il più alto sviluppo socio-economico possibile ed è quindi a pieno titolo assimilabile, insieme al precedente, a quelli di Ohmae e Dahrendorf.

Il dominio del capitale finanziario

Il fatto che autori di scuole così diverse fra loro immaginino come possibile sbocco dei processi di globalizzazione dell'economia, un capitalismo universale, più o meno pacificato e capace di assicurare libertà e benessere per tutti può stupire; ma se si tiene conto che essi tutti indagano il fenomeno della globalizzazione economica prescindendo dalle leggi che determinano i processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali o sottovalutandone tutte le implicazioni, si capisce che il paradosso è solo apparente.

Assumere la globalizzazione o, meglio, la mondializzazione dell'economia al di fuori di questi processi impedisce di coglierne la sua vera natura e fa apparire ora una ora l'altra delle tendenze che essa mette in luce come l'unica tendenza in atto cosi che il fenomeno che è determinato appare determinante e a questo punto ogni ipotesi può essere formulata. Il mondo può essere scomposto e ricomposto dividendo e mettendo insieme uno staterello di qua e uno di là, quindi unificato nel mercato globale grazie a un computer e una linea telefonica, Internet e la televisione come fa Ohmae; oppure riorganizzato in blocchi regionali omogenei come Dahrendorf o addirittura trasformato nel palcoscenico ideale per l'affermazione di un'economia cooperativa che se non è il socialismo poco ci manca senza che i rapporti di produzione vigenti vengano posti in alcun modo in discussione. La realtà, invece, è più complessa.

Trattandosi di un fenomeno determinato dal processo di concentrazione e di centralizzazione dei capitali, la mondializzazione attiva inevitabilmente, e contemporaneamente, sia la tendenza alla unificazione che quella alla separazione. Il processo implica infatti capitali che si scontrano fra loro per il dominio del mondo e pertanto vinti e vincitori, integrati ed esclusi. Non vi è una tendenza che alla fine risulta vincente; ma il risultato è piuttosto l'esito dello scontro fra le diverse tendenze. Il mondo degli Stati-Regione di Ohmae, per esempio, è verosimile solo e in quanto proiezione in astratto di una sola tendenza (quella della separazione in base all'efficienza tecnologica o della riunificazione in forza della tecnica e della libera concorrenza); ma non di probabile realizzazione perché ignora completamente alcuni dati della realtà e quanto meno che:

  1. l'eventuale unificazione del mercato mondiale dovrebbe aver luogo mediante il trionfo di un regime di libera concorrenza puro. Solo in un tale regime infatti il cittadino-consumatore potrebbe avere il potere che gli assegna Ohmae; ma al di là del fatto che un tale regime esiste ed è esistito solo nei manuali scolastici di economia, a causa dei processi di concentrazione in atto, fra qualche anno, per l'acquisto di un'automobile, per esempio, si calcola che potrà scegliere fra non più di quattro o cinque marche e per quello di un pneumatico fra non più di due o tre;
  2. le linee di integrazione ed esclusione non si muovono solo lungo i meridiani e i paralleli, ma anche trasversalmente alla società polarizzando sempre più ricchezza e povertà cosicché la figura sociale più diffusa non potrà essere il cittadino-consumatore cibernetico, ma il proletario disoccupato o sottopagato;
  3. l'esclusione di aree del mondo così importanti e vasta porterà e quindi, molto probabilmente, alla più grande depressione economica che sia stata mai registrata.

Altresì, l'aggregazione per blocchi regionali, pur essendo lo sbocco più probabile dei processi di mondializzazione in atto, deve scontare il rischio che le fratture economico-sociali che tagliano trasversalmente i vari paesi interessati possano esplodere generando violentissimi conflitti. In ogni caso il mondo dei blocchi regionali, implicando poderosi processi di concentrazione a livello continentale e transnazionale, non segnerà il passaggio verso un'epoca di pace e di prosperità, ma al contrario verso un'epoca segnata dalla lotta sempre più accanita fra i grandi gruppi monopolistici superstiti per il controllo del mondo. La centralizzazione dei capitali infatti obbedendo alla necessità di massimizzare l'extra-profitto e quindi, in ultima istanza, la rendita finanziaria spinge verso l'espansione del monopolio; pertanto la concorrenza pur affievolendosi all'interno di ciascun area monopolizzata si fa sempre più intensa fra le diverse aree. E quanto più esse saranno grandi tanto più il conflitto, e non la pace, si universalizzerà.

In realtà, come si vede, se si assumono le contraddizioni reali della società capitalistica come motore di tutte le modificazioni in atto, così come di quelle che si sono storicamente già prodotte, ci si accorge non solo che un nuovo rinascimento sociale per mezzo del capitale è pura fantasia; ma che gli approdi dei processi in atto non potranno essere che quelli in cui risulteranno esaltate proprio le forme più violente del dominio del capitale.

Il capitalismo sta vivendo già da tempo la sua parabola discendente ed è nell'ambito di questa che vanno collocati i processi di mondializzazione dell'economia, se davvero li si vuole comprendere. Ne sono la conferma più chiara i dati relativi all'andamento della crescita dell'economia in questi quaranta anni. Tra il 1950 e il 1970, il PNL mondiale è cresciuto alla media del 5 per cento all'anno. Nel decennio successivo del 3,4 per cento; negli anni 80 del 2,9 per cento e negli anni 90 solo dello 0,9 per cento. Di contro, la produttività del lavoro, nel corso dell'intero quarantennio, è cresciuta mediamente a un tasso del 4 per cento all'anno. (31)

Però, se si tiene conto che negli ultimi quindici anni, ovvero quando l'economia mondiale è cresciuta sempre meno, la produttività del lavoro è aumentata a un tasso compreso fra il 15 e il 20 per cento e anche più, a secondo dei metodi di calcolo usati, appare ancora più evidente che i processi di mondializzazione dell'economia si collocano nella fase del declino del ciclo di accumulazione del capitale avviatosi dopo la seconda guerra mondiale. Un'ulteriore conferma di ciò ci è data dalla crescita registrata negli ultimi 15 anni della massa di capitali che hanno abbandonato la produzione, fino al punto che ormai il movimento dei capitali attivato dalla speculazione finanziaria supera di gran lunga quello legato alla produzione e alla circolazione delle merci.

Ogni giorno - ci informa Gregory J. Millman - gli operatori in valute muovono mille miliardi di dollari in tutto il mondo alla velocità della luce. Sommando tutto il petrolio saudita, le auto giapponesi, il frumento americano e gli aeroplani europei e aggiungendo il resto dei prodotti che i paesi comprano e vendono fra loro, si ottiene solo una piccola parte di questi mille miliardi di dollari... In un passato non molto remoto gli economisti ritenevano che il paese che avesse delle imprese manifatturiere efficienti e competitive e un governo in gradi di gestire le finanze in modo oculato potesse godere, teoricamente, del privilegio della stabilità monetaria. Ma adesso, per quanto efficienti e competitive possano essere le aziende industriali di un paese, sono gli operatori finanziari a determinare, almeno nel breve periodo, il valore delle divise attraverso i loro tentativi di accaparramento. E dal momento che sono i valori monetari a determinare i prezzi ai quali i produttori venderanno i loro prodotti sui mercati mondiali, gli operatori monetari possono decidere indirettamente se i lavoratori dell'industria automobilistica americani, giapponesi o tedeschi continueranno a costruire vetture o rimarranno disoccupati. (33)

Ciò che significa anche che nel mondo della produzione deve essere estorta una quota crescente di plusvalore appannaggio della rendita finanziaria.

La globalizzazione è, dunque, insieme, mondializzazione del mercato del lavoro per consentire, tramite la riduzione del valore della forza-lavoro, l'incremento delle quote di plusvalore destinate alla rendita e mondializzazione finanziaria per consentire al capitale finanziario di appropriarsene. Ma proprio per essere in qualche modo separato dalla produzione, per la sua grande mobilità e flessibilità, il capitale finanziario tende a concentrarsi con grande facilità e rapidità per cui la mondializzazione dell'economia non potrà non essere contrassegnata dal rafforzamento del dominio del capitale in ogni attività escludendo per ciò stesso l'ipotesi che da essa possa scaturire un nuovo stadio del capitale oltre quello dell'imperialismo. Certo - come rilevava Lenin polemizzando con il super-imperialismo o capitalismo pacifico di Kautsky:

in astratto... è possibile pensare una nuova fase del capitalismo che segua quella dell'imperialismo... [ma] dal punto di vista teorico questo atteggiamento significa non basarsi sugli sviluppi reali del presente, staccarsi da essi in nome dei sogni... Prima che si giunga a un singolo trust mondiale, prima che i capitali finanziari dei vari paesi abbiano formato un'unione mondiale “ultra-imperialistica”, l'imperialismo dovrà inevitabilmente scoppiare, e il capitalismo si trasformerà nel suo opposto. (34)

E ciò a maggior ragione per tutte quelle ipotesi di riduzione all'unità del capitalismo mantenendo il mercato, sinonimo di molteplicità e conflitto.

Giorgio Paolucci

(1) Il Capitale finanziario - Rudolf Hilferding - Ed. Feltrinelli 1972 pag. 308.

(2) Ibidem.

(3) Tratta dalla Prefazione di Lenin a L'economia mondiale e l'imperialismo di N. Bucharin - Ed. Samonà e Savelli - 1966.

(4) Kenichi Ohmae - La fine dello Stato - Nazione Ed. Baldini & Castoldi - 1996 - pag. 67-69.

(5) Le Monde Diplomatique - Maggio 1996 - I mercati del ciberspazio.

(6) K. Ohmae - pag. 82-83.

(7) Op. cit. - pag. 152.

(8) Op. cit. - pag. 129-130.

(9) Op. cit. - pag. 232.

(10) Op. cit. - pag. 145.

(11) Op. cit. - pag. 224.

(12) Op. cit. - pag. 231.

(13) Op. cit. - pag. 145

(14) Ralf Dahrendorf Quadrare il Cerchio - Ed. Laterza - 25-26.

(15) Op. cit. - pag. 34.

(16) Op. cit. - In appendice E. Scalfari - Potere e Libertà - Metà della Metà.

(17) Op. cit. - pag. 73.

(18) Op. cit. - pag. 57-58.

(19) Ibidem.

(20) Op. cit. - pag. 60.

(21) Ibidem.

(22) Op. cit. - pag. 62-63.

(23) Ibidem.

(24) Op. cit. - pag. 65.

(25) Op. cit. - pag. 67.

(26) Op. cit. - pag. 68.

(27) Op. cit. - Ibidem.

(28) Gruppo di Lisbona - I limiti della competitività - Ed. Manifestolibri - pag. 130.

(29) Op. cit. - pag. 133-134.

(30) Ibidem

(31) Op. cit. pag. 131-132.

(32) Marco Revelli - Economia mondiale sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo. In appunti di fine secolo - di P. Ingrao e R. Rossanda - Manifestolibri - 1995.

(33) Gregory J. Millman - Finanza Barbara - Ed. Garzanti - pag. 14-15.

(34) Lenin - op. cit. pag. 93.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.