Disoccupazione operaia

Tra decadenza del capitalismo e illusioni conservatrici del riformismo

Sembrerà paradossale, ma a lanciare il grido di allarme è la stessa borghesia: troppi disoccupati, troppi espulsi dai processi produttivi, troppo poche le occasioni di nuovi posti di lavoro anche in presenza di una ripresa forte e duratura. Certamente a tempi lunghi, almeno quattro anni, e con una intensità di rilancio della attività produttiva che non sia inferiore ad un incremento del Pil del 3% annuo, si ridurrà l'attuale tasso di disoccupazione, ma non di molto, di qualche unità percentuale. Il fenomeno verrà ridotto ma non risolto, la disoccupazione è destinata, nel futuro della società capitalistica a rimanere una costante con il rischio di aggravarsi ad ogni futura recessione. Lo dice la stessa borghesia per bocca dei suoi rappresentanti politici, dei suoi economisti più accorti, degli imprenditori e dei sindacati, ultimi arrivati sul terreno della conservazione capitalistica, ma forse per questo, ancora più sensibili e responsabili sulle alterne vicende delle crisi economiche, sulle condizioni favorevoli ai meccanismi della ripresa, sempre e comunque rispettosi delle compatibilità del capitale.

Non è un caso che da parte proletaria il problema disoccupazione venga subito quasi passivamente che denunciato o combattuto. La scarsa combattività e l’appiattimento nei confronti delle compatibilità del sistema economico, fatte salve alcune eccezioni locali tanto sporadiche quanto estemporanee e mai significative di un incipiente movimento di massa, ha due lontane origini. La prima risiede nel fatto che da decenni il proletariato non ha a disposizione una avanguardia politica sufficientemente forte ed organizzata nel mondo del lavoro in grado di omogeneizzare, canalizzare, far crescere e politicizzare tutte quelle istanze rivendicative e di lotta agli attacchi della borghesia che ormai quotidianamente nascono nell’ambiente della fabbrica e che nella fabbrica stessa si consumano e annichiliscono. La seconda, tanto più possibile quanto maggiore è il vuoto politico e di combattività creato dalla prima, consiste nella facilità con la quale la borghesia, attraverso i suoi strumenti di condizionamento politico e ideologico, riesce a trascinare enormi masse di lavoratori dietro il carro dei suoi interessi, imponendo di tutto, dalla sterilizzazione della scala mobile al blocco dei contratti, dalla ristrutturazione del costo del lavoro alla flessibilità del posto di lavoro, dalle pensioni alla disoccupazione giunta a livelli storici, senza che la pace sociale venga messa in discussione, senza che dalle schiere proletarie si alzi un sia pur timido grido di guerra. Politici, economisti, sindacalisti hanno il tempo e il modo di discutere e di confrontarsi sulle migliori metodologie di applicazione delle stangate sulle spalle degli operai senza che una schiena si levi in segno di sfida.

Nonostante questo la borghesia si pone il problema del controllo. Un simile esercito di disoccupati non può accamparsi all’infinito ai margini della società senza rivendicare prima o poi il diritto di rientrare. E a questo problema la borghesia deve trovare una risposta, non di come eliminarlo, il problema è capitalisticamente irrisolvibile, ma di come amministrarlo e, se possibile entro certi limiti, trarne dei vantaggi sul terreno della contrazione dei salari e sulla flessibilità del rapporto tra capitale e lavoro.

Nulla di nuovo, se non la vastità e la drammaticità di un problema che di crisi in crisi diventa sempre più ingovernabile. Niente di nuovo anche sul piano della prassi del coinvolgimento delle masse agli interessi del capitale che di ciclo di accumulazione in ciclo di accumulazione diventa sempre più vorace di plusvalore. Il discorso è sempre lo stesso: siamo tutti nella stessa barca, occorrono sacrifici e senso di responsabilità. È vero che siamo tutti sulla stessa barche, ma è anche vero che c’è chi rema e chi batte il tempo, chi produce plusvalore e chi se ne appropria.

Il punto da cui partire per comprendere il fenomeno della disoccupazione e le relative politiche anti operaie che ne discendono è nelle leggi che regolano i meccanismi di accumulazione del capitale, la concorrenza tra capitali e la rincorsa al plus valore relativo, ovvero a quella quota di plus valore che si ottiene dalle innovazioni tecnologiche.

Per il capitale l’innovazione tecnologica ha come obiettivo l’abbattimento dei costi di produzione attraverso la diminuzione del tempo di lavoro necessario, quindi attraverso la espulsione di forza lavoro che si trova in eccedenza rispetto alla fase precedente la ristrutturazione. In altri termini più produttività significa maggiore sfruttamento per chi rimane all’interno dei meccanismi produttivi e disoccupazione per chi non trova più posto all’interno della produzione. In termini ancora più semplici si può dire che l’effetto di una ristrutturazione tecnologica è che con un minor numero di operai si possono ottenere gli stessi quantitativi di merci e servizi o addirittura un quantitativo superiore. Ovviamente un simile fenomeno è sempre esistito, il capitalismo, dopo una fase originaria in cui ha rincorso il plus valore assoluto derivante dall’allungamento della giornata lavorativa, ha imboccato la strada della ricerca tecnologica, ovvero del plus valore relativo.

Con la “rivoluzione” informatica, la robotizzazione, l’uso delle fibre ottiche ecc.. nella produzione di merci e di servizi, il fenomeno si è ingigantito sino al punto di abbattere drasticamente i tempi di lavoro necessari rendendo masse di lavoratori sempre più inconciliabili con lo sviluppo dei mezzi di produzione in termini che per intensità ed estensione non ha paragoni nella recente storia del capitalismo.

Capovolgendo l’assioma si potrebbe dire che la disoccupazione e l’inoccupazione (cioè l’espulsione di forza lavoro dai meccanismi produttivi, così come l’impossibilità per moltissimi giovani di avere accesso alla produzione per la prima volta) sono le condizioni sociali attraverso le quali si esprime la ristrutturazione tecnologica. In termini di capitale variabile, cioè di redditi da lavoro dipendente, significa che con un uguale monte salari si producono più merci e servizi, o che le stesse quantità di merci e servizi, o addirittura un numero superiore, vengono prodotte con una massa salariale inferiore. Ne consegue che nei meccanismi di valorizzazione del capitale, la diminuzione del tempo di lavoro necessario non può conciliarsi con una diminuzione dell’orario lavorativo a parità di salario pena un diminuito tasso di valorizzazione del capitale, una diminuita competitività produttiva sul mercato interno ed internazionale, cioè conseguenze limitative della massa dei profitti che sono palesemente in contraddizione con gli obiettivi della ristrutturazione tecnologica.

Chi pensasse che lo slogan “Lavorare tutti lavorare meno a parità di salario” abbia una minima possibilità di attuazione, fermi restando i modelli economici capitalistici, è un idealista che non conosce i meccanismi di valorizzazione del capitale e ingenuamente crede che attraverso il riformismo economico si possano pesantemente intaccare i rapporti con la forza lavoro, sino al punto da mettere in dubbio i meccanismi di creazione del plus valore, o di realizzare conquiste che solo nella fase socialista è possibile attuare.

Al capitale o si impongono in termini rivoluzionari i tempi della sua estinzione in quanto categoria economica capitalistica, oppure le sue leggi dominano incontrastate alla faccia di qualsiasi riformismo più o meno velleitario, che oltre ad essere inconcludente sul terreno concreto della lotta rivendicativa contribuisce a svirilizzare la lotta di classe. Sarebbe come tentare di convincere la classe operaia che sul piano rivendicativo sia possibile chiedere un salario pari alla quantità di forza lavoro effettivamente erogata, o che i profitti vengano equamente distribuiti tra imprenditori e lavoratori. Sarebbe come pretendere di immettere elementi di produzione e di distribuzione socialisti senza toccare i rapporti di produzione capitalistici, sarebbe cioè l’utopia del riformismo e la fine dell’antagonismo di classe.

Ma è la stessa società capitalistica che si incarica di dare a ogni cosa il suo posto e il suo significato. All’attuale disoccupazione le sue cause tecnologiche, al superamento di queste la prassi rivoluzionaria e non il velleitarismo radical riformista.

Un esempio su tutti quello della Fiat. In quattro anni dal 1990 al 1993, il gruppo è passato dai 303.238 dipendenti a 260.951. Nel 1994 nel solo settore auto, grazie alla robotizzazione di alcuni reparti o di alcune linee di produzione (la Punto) si sono persi migliaia di posti di lavoro: Dagli anni ottanta ad oggi si è passati dai 175 mila a 80 mila. A Melfi con un organico di 7000 unità si producono 450.000 auto all’anno, quando a Mirafiori, prima di essere dismessa, per produrre 500.000 autovetture occorrevano 30.000 operai, con una produttività per addetto che è passata da 45 auto a quasi 80, con una proporzionale perdita di posti di lavoro.

La beffa nella beffa è che a Melfi, oltre ad un aumento “giapponese” della produttività si sono decurtati i salari del 30%, ovvero si è assistito al massimo della ristrutturazione capitalistica dove, alla diminuzione del tempo di lavoro necessario si è aggiunta una consistente diminuzione dei posti di lavoro senza la decurtazione della settimana lavorativa e con salari ridotti del 30% e con l’obbligo di due Sabati lavorativi al mese.

Nella “grande” Germania, alla Volkswagen la settimana lavorativa per 100.000 dipendenti, a partire dall’aprile del 1994, è sì scesa a 29 ore settimanali ma con una decurtazione dei salari del 15%. In più i sindacati Dgb che raccolgono circa 10 milioni di lavoratori si sono dichiarati disponibili ad allargare l’esperimento della settimana corta con l’aggiunta della decurtazione dei salari e dei sabati lavorativi per vedere di salvaguardare l’occupazione nel rispetto della produttività e della efficienza degli impianti, quando sino a pochi giorni prima sembravano irremovibili sulla rivendicazione del lavorare tutti, lavorare meno a parità di salario. Anche in una situazione di ripresa economica nel settore industriale, nel breve periodo, l’occupazione continua ad essere una chimera difficilmente raggiungibile. Gli stessi analisti borghesi, quelli più accorti, ritengono che solo in presenza di una ripresa che duri almeno tre o quattro anni, con un tasso di crescita non inferiore al 3%, la disoccupazione riguadagnerà soltanto qualche punto percentuale lasciando pressoché inalterato il problema di fondo.

Il futuro del capitalismo è questo. L’ingresso dell’informatica nella ristrutturazione produttiva, l’utilizzo della robotizzazione, delle trasmissioni via cavo e della componentistica hanno reso più evidenti le contraddizioni insuperabili del sistema economico capitalistico. Da un lato l’enorme avanzamento delle capacità produttive riducendo il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di merci e di servizi invece di liberare tempo sociale ed individuale, crea disoccupazione e miseria. Dall’altro l’innovazione tecnologica elevando la differenza tra la quota di capitale investita in macchinari e tecnologia e quella investita in salari innesca la diminuzione del saggio medio del profitto, ovvero pone in essere un perverso meccanismo economico in base al quale il capitale complessivamente investito, nonostante il progresso tecnologico anzi a causa di esso, trova sempre maggiori difficoltà a valorizzarsi.

Perdurando il capitalismo, anche la tecnologia e la progressiva maggiore capacità di produrre, si trasformano in impoverimento di larghe stratificazioni popolari e nell’imbarbarimento sociale. La pauperizzazione, l’ingrossarsi dell’esercito dei diseredati sociali, quelli che sopravvivono al di sotto dei redditi considerati di minima sussistenza (40 milioni negli USA e 7 milioni in Italia) e i fenomeni della disoccupazione e della inoccupazione giovanile sono le uniche certezze che il capitalismo del duemila è in grado di garantire.

Le cause della disoccupazione

Secondo i dati della Nomisma, in un secolo, in Italia, il PIL è aumentato di 13 volte con una diminuzione del 20% delle ore lavorate. Nel 1884 per ottenere il PIL (x) si sono lavorate 45 miliardi di ore, cento anni dopo, nel 1994, pur ottenendo un PIL di tredici volte superiore a (x) si sono lavorate soltanto 34 miliardi di ore. Sempre secondo i dati Nomisma, tra dieci anni, si raggiungerà un incremento del PIL del 25% con le stesse ore lavorate nel 1990. Questi dati non sono particolarmente interessanti perché non nuovi e forse errati per difetto, ne la proiezione al 2005 attendibile. Quello che gli analisti di Nomina non tengono in debito conto è che da un paio di decenni a questa parte, le società capitalistiche avanzate (Usa-Giappone-Europa), fatta eccezione per i paesi di nuova industrializzazione, hanno visto diminuire il loro saggio di incremento del PIL, per cui sarebbe errato calcolare l’ammontare presunto del PIL al 2005 con i tassi di incremento annui di quindici o venti anni fa. Ciononostante i dati statistici relativi al rapporto tra la massa di merci e servizi prodotti e il numero di ore lavorative socialmente necessario per produrle, ci consentono una prima riflessione.

Se alle ore in meno lavorate sostituiamo il relativo numero di lavoratori espulsi dai meccanismi produttivi, pur tenendo conto dell’allargamento della base produttiva e del teorico aumento degli addetti alla produzione complessiva, e che il fenomeno della innovazione tecnologica ha subito in questo ultimo ventennio una spinta “storica “per intensità e modalità d’impiego, ne consegue che l’uso della tecnologia rende superflua una massa sempre crescente di lavoratori.

Analogamente, riducendo la base da cui estrarre la massa di plus valore, e investendo proporzionalmente più in beni strumentali che in forza lavoro, si innescano due fenomeni irreversibili, anche se nel breve periodo possono manifestarsi fenomeni di contro tendenza, che sono destinati ad accompagnare la vita del capitalismo da oggi in avanti. Il primo, una sorta di cancro economico destinato a mettere sempre più in risalto la contraddizione tra il capitale e le sue necessità di valorizzazione, è la caduta tendenziale del saggio medio del profitto, l’altro è la disoccupazione.

Del primo problema non tratteremo, nemmeno in via subordinata data la vastità e la complessità del fenomeno, del secondo cercheremo di inquadrare le cause specifiche e quelle occasionali.

A prima vista e in modo del tutto superficiale, come è tipico dell’approccio borghese alla questione, può sembrare che la responsabilità prima della disoccupazione e della inoccupazione, risieda nello sviluppo tecnologico, nella crescente capacità del sistema produttivo ad abbassare il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre merci e servizi con il conseguente esubero di mano d’opera.

Proseguendo nella ipotesi, si troverebbe conferma in un ulteriore e disaggregato dato statistico, attinto sempre da Nomisma, e da una verifica pratica, questa volta osservata sul campo. Il dato si riferisce al numero di lavoratori, un milione e mezzo, espulso dai rapporti di produzione nell’arco della recessione 1990-93. Riferendo il dato disoccupazionale ai due PIL, quello del 1990 e a quello del 1994 si ha che, solo alla fine del 1994, dopo circa un anno di ripresa economica, si è raggiunta la stessa massa di merci e servizi del 1990, inizio della recessione, o se si preferisce, fine della fase di espansione precedente, ma con un milione e mezzo di lavoratori in mano. Grazie alla ristrutturazione che ha accompagnato la ripresa economica in alcuni settori trainanti dell’economia italiana, si è riusciti a raggiungere il PIL di cinque anni prima con il “risparmio” di ben 1.500.000 unità lavorative. In questo caso l’equazione : maggiore produttività uguale a maggiore disoccupazione sembrerebbe verificata appieno.

Stessa cosa per l’altro esempio, quello verificato direttamente sul campo: la FIAT di Melfi. Con l’introduzione della robotizzazione, e nemmeno in tutte le fasi della lavorazione, da due anni a questa parte, al decentrato insediamento FIAT, sette mila operai producono 450.000 autovetture, con una produttività di 69 autovetture per addetto, quando negli stabilimenti di Mirafiori, negli anni ottanta, pre ristrutturazione robottizzata, trenta mila operai non superavano le 500.000 autovetture, con una produttività per addetto di circa 18 autovetture all’anno. Senza dimenticare il “dettaglio” di salari inferiori del 30% e con l’obbligo di due Sabati lavorativi al mese.

Melfi a parte, nel biennio 1993-94, alla cuspide tra la fine della recessione e l’inizio della ripresa, con un 4,2% di ore lavorate in più si è avuta una contrazione dell’occupazione del 4,7%. E il discorso sembra essere sempre lo stesso: più tecnologia, più produttività e più disoccupazione, come se sempre e comunque la prima fosse la condizione inevitabile della seconda e che la seconda, al di là degli andamenti ciclici del mercato, non avesse che nella prima la sua base di determinazione.

In realtà lo sviluppo tecnologico in se non è la causa della disoccupazione, anzi in quanto capace di abbassare il tempo socialmente necessario alla produzione di merci e servizi, dovrebbe essere la salvezza dell’umanità; dovrebbe in teoria produrre tempo libero da dedicare ad altri bisogni o servizi sociali. In ogni caso l’aumento della capacità produttiva, il risparmio di tempo per la produzione, dovrebbero trasferirsi in un aumento della ricchezza sociale, nel miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, in una maggiore cura e disponibilità verso l’ambiente interno (fabbriche e luoghi di lavoro in generale) ed esterno come la natura e il rapporto tra essa e l’uomo. Invece no. Il capitalismo, le ferree leggi economiche che lo regolano, l’affannosa ricerca del profitto, il soggiacimento di tutta l’organizzazione sociale (produzione-consumo-sfruttamento delle materie prime-ambiente) hanno trasformato lo sviluppo tecnologico nel suo contrario. In una crescita della miseria, in disoccupazione e nel degrado ambientale e sociale.

Una delle caratteristiche del capitalismo moderno è quella di sommare ad una capacità produttiva senza precedenti nella storia la prerogativa di creare al proprio interno masse di diseredati sempre crescenti. Ad una potenzialità enorme di elevamento delle condizioni di vita fa riscontro il più preoccupante degrado sociale. Negli Stati Uniti su di una popolazione di 250 milioni di abitanti almeno 40 milioni sopravvivono sotto la soglia di sussistenza. Nove milioni in Italia su di una popolazione di 58 milioni, e le stesse proporzioni le troviamo in Francia ed in Inghilterra per non parlare degli ex paesi dell’Est, Russia compresa, vittime della medesima decadenza capitalistica, anche se a livello di capitalismo di stato.

Negli ultimi venti anni circa, dalla profonda crisi degli inizi degli anni settanta in poi, la classica divaricazione a forbice tra la concentrazione della ricchezza in poche mani e l’allargarsi della sfere della povertà, ha raggiunto livelli inimmaginabili. Secondo i dati recentemente forniti dagli stessi organismi statistici borghesi l’80% della ricchezza mondiale è nelle mani del 20% della grande borghesia e all’interno di questo 20% si ha una ulteriore distribuzione in base alla quale il 5% ne detiene il 75%.

Il fatto è che, nella fase di decadenza della società capitalistica, l’esasperarsi della contraddittorietà della sua base produttiva, mostra in tutta evidenza come lo sviluppo tecnologico segua gli schemi delle leggi del capitale e come queste siano inconciliabili con la piena occupazione, con una consistente riduzione della giornata lavorativa e con il miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice. Anzi si verifica esattamente il contrario. Il potere d’acquisto dei salari si è notevolmente ridotto sino ad essere ricondotto ai livelli degli anni settanta. La precarietà del posto di lavoro sta diventando una normale acquisizione della società capitalistica “post industriale”. Aumentano i disoccupati e gli inuccupati senza che si vedano concrete prospettive di riassorbimento se non in termini quantitativi estremamente limitati e per periodi brevi e a condizioni salariali e contrattuali inimmaginabili sino a qualche anno fa. La giornata di lavoro, invece di diminuire, si allunga in virtù degli straordinari obbligatori e dei sabati lavorati che ormai sono diventati un punto fermo nella progettazione dei nuovi contratti. Il rapporto capitale -lavoro invece di dilatarsi in favore della classe subalterna, pur all’interno della compatibilità del sistema capitalistico, si comprime al punto da restringere all’osso i margini di sussistenza per la stragrande maggioranza dei lavoratori. E, soprattutto la disoccupazione, da fattore episodico, legata all’andamento del ciclo economico, sta diventando strutturale e con dimensioni quantitative impressionanti da far scomparire i dati relativi della grande depressione del 1929-33. Ma se la gestione capitalistica della tecnologia e del progresso produttivo in generale è alla base del devastante fenomeno economico e sociale della disoccupazione, nel decorso contraddittorio del capitalismo moderno, altri elementi contribuiscono a renderlo ancora più grave e di difficile gestione.

Le cause accessorie della disoccupazione

Ancora per tutti gli anni 1980 il terziario ha rappresentato una piccola valvola di sfogo per la disoccupazione. Nelle fasi recessive, quando il settore della produzione reale si contraeva sotto il peso della crisi economica aprendo la strada a tutti i fenomeni di contorno quali la diminuzione degli investimenti, la diminuzione della produzione, la chiusura di imprese piccole e grandi, acquisizioni, accorpamenti e concentrazioni più o meno rilevanti, una parte sia pur minima di forza lavoro in eccesso veniva riciclata nel settore terziario in continua espansione dagli anni sessanta e apparentemente meno vulnerabile, anche se indissolubilmente legato all’andamento del ciclo economico. Ultimamente non è più così. Nel solito periodo 1990-94, mentre l’industria produceva disoccupazione a un ritmo del 4,7% annuo il terziario, invece di creare nuova occupazione, a sua volta espelleva forza lavoro con una media del 3,5%. La spiegazione sta nel fatto che anche il settore terziario la rivoluzione informatica ha abbassato i tempi e i posti di lavoro.

In settori come quello bancario e delle assicurazioni l’informatizzazione ha cancellato decine di migliaia di posti di lavoro che sono andati a sommarsi a quelli più quantitativamente consistenti dell’industria. Nelle comunicazioni le cose non sono andate meglio, con la prospettiva dell’utilizzazione multimediale di telefono, video e personal computer in allacciamento satellitare e via cavo, il cosiddetto terziario avanzato, invece di essere la fucina di nuove professioni, sarà lo strumento di falcidia di altri posti di lavoro.

Anche nel terziario dall’attuale situazione di espulsione di forza lavoro si potrà passare ad una fase di stabilità occupazionale o, di una contenuta, creazione di nuovi posti di lavoro solo a condizione che la ripresa duri almeno quattro anni, e sia superiore al 3% annuo in termini di Pil. Anche nelle prospettive più rosee, il terziario ha cessato di essere la valvola di sfogo del sistema economico per quanto riguarda il fenomeno della disoccupazione per allinearsi all’andamento generale del capitalismo del duemila.

Un altro settore, che sempre più stentatamente riesce nei periodi di crisi a riciclare una parte della disoccupazione, è la piccola e media impresa. Negli anni precedenti, grazie al lavoro nero, qualche migliaio di lavoratori espulsi dalle grandi concentrazioni produttive, trovavano posto, per periodi più o meno lunghi, all’interno di piccole imprese che, pur essendo colpite dalla crisi, trovavano un’ancora di salvezza usufruendo proprio di quella mano d’opera espulsa dalla grande industria, sfruttandola a dovere, sottopagandola e, soprattutto non pagando i contributi. Paradossalmente trattandosi di meccanismi pressoché automatici alla conservazione del capitalismo, piccoli segmenti di proletariato sfuggivano alle piaghe della disoccupazione sottoponendosi al giogo del lavoro nero.

Non è che oggi le cose non stiano più in questi termini o che il piccolo e medio capitale produttivo non voglia fare più ricorso al lavoro nero, alla forza lavoro sottopagata e al netto delle tasse e dei contributi, è che nel breve periodo, 1990-94, e per quanto ci è dato capire per il futuro, i margini per simili pratiche è andato e andrà assottigliandosi.

Per l’immediato, sia nel periodo della crisi che nella fase della recente ripresa, la piccola e media impresa, quella che si è abbondantemente giovata della svalutazione della lira e che ha visto gonfiare i propri profitti grazie all’esportazione, non intende reinvestire gli utili, allargare la base produttiva, vive alla giornata con ambizioni economiche a breve. Pochi o tanti profitti, maledetti, ma subito. Il che non ha certamente favorito l’ulteriore allargamento dell’impiego di mano d’opera occasionale riciclandola dall’enorme esercito di disoccupati.

In prospettiva, quando la nuova normativa del lavoro interinale giungerà a regime, favorendo la nascita di agenzie di affitto della forza lavoro, imponendo contratti a brevissima scadenza a salari bassi, bassissimi come mai si era visto nella recente storia del capitalismo, facendo del mercato del lavoro una sorta di usa e getta, non solo si restringeranno i margini per simili operazioni di sfruttamento, ma per la classe operaia il lavoro nero sembrerà una condizione da rimpiangere. Sta di fatto che quando la precarietà verrà istituzionalizzata, e con essa regolamentato il flusso in uscita ed in entrata della forza lavoro in nome della flessibilità e dell’andamento economico dell’impresa, per buona parte del proletariato la disoccupazione e lipersfruttamento temporaneo, quindicinale, settimanale, o addirittura giornaliero, saranno assolutamente reali e senza possibilità di scampo. Ad aggravare l’attuale situazione occupazionale, da parte del capitale si fa sempre più ricorso al lavoro straordinario, spremendo al massimo chi è all’interno dei meccanismi produttivi e lasciando poche possibilità di lavoro a chi ne è rimasto fuori. Le ragioni sono le solite, insolita è invece l’arroganza con la quale il mondo dell’imprenditoria impone, a volte fuori e contro gli stessi contratti, un numero di ore straordinarie confacenti alle esigenze delle imprese, pena il licenziamento.

Per il capitale l’ora straordinaria costa mediamente il 60% in meno di un’ora aggiuntiva nuova. Ne consegue che, nei momenti in cui il mercato tira sulla base di una domanda sostenuta, il capitale preferisce far ricorso agli straordinari che non assumere nuova mano d’opera. Secondo i recenti dati trimestrali dell’Istat, dal gennaio 1994 al gennaio 1995, cioè in piena ripresa economica, l’occupazione non soltanto non è aumentata ma ha visto una ulteriore flessione con una perdita di 322 mila posti di lavoro. Più precisamente dall’ottobre 1994 al gennaio 1995, si sono persi 307 mila posti di lavoro mentre la produzione industriale è salita mediamente dell’8%, con una punta del 12,3% nel gennaio di quest’anno. Il fenomeno si spiega non soltanto con il ricorso agli straordinari tradizionali, allungamento della giornata lavorativa, ma anche con la costrizione dei sabati lavorativi. I recenti accordi tra i Sindacati e la Fiat li hanno istituzionalizzati includendoli nel contratto in nome della flessibilità, delle imprescindibili necessità della ripresa economica e del tasso di competitività delle imprese sia sul mercato interno che su quello internazionale. Dopo gli accordi di Termoli e della Teksid di Carmagnola, anche alla Piaggio di Pontedera e alla Fiat auto di Mirafiori, Rivalta e Termoli si sono introdotti i 18 turni e i Sabati strutturali. Stesso discorso al sud negli stabilimenti di Melfi e di Pratola Serra. Così si è avuto che, mentre hanno ripreso a marciare i meccanismi di valorizzazione del capitale con una espansione della produzione industriale, si è allungato il periodo medio lavorativo per addetto del 2,8% con un incremento della disoccupazione del 5% che ha portato i disoccupati al tasso del 12,2 della forza lavoro. Un record, come quello di 35 milioni di disoccupati nella sola area dei paesi Ocse. Ma il dato più preoccupante è fornito dal fatto che nel futuro del capitalismo il ricorso all’allungamento della giornata lavorativa, ovvero il tentativo di rincorrere i guasti della caduta del saggio medio del profitto, sommando al plus valore relativo quote derivanti anche dal plus valore assoluto, è diventato una impellente necessità dalla quale il capitale intende derogare sempre di meno. Il che, come è ovvio, non potrà che aggravare il fenomeno della cosiddetta disoccupazione tecnologica che tante vittime ha già mietuto tra i prestatori di forza lavoro, contribuendo a rendere il fenomeno della disoccupazione un elemento fisiologico del capitalismo, e non, come avveniva nei decenni precedenti, un accidente di percorso legato all’andamento del ciclo economico. Per avere una idea del fenomeno in chiave prospettica è sufficiente guardare all’esperienza giapponese. Nel paese del miracolo economico post bellico, una delle componenti che lo possono spiegare, accanto all’aumento dell’estorsione del plus valore relativo dovuto all’alta produttività del lavoro sociale e alla politica dei bassi salari, è quella dell’allungamento della giornata lavorativa.

In Giappone da anni, nei settori chiave della produzione, la classe operaia lavora, straordinari compresi, dalle otto alle dieci ore al giorno, almeno due fine settimana al mese, con ferie che mediamente non superano le due settimane all’anno. Non illuda il basso tasso ufficiale di disoccupazione che da anni si aggira attorno al 2-3%. In Giappone le statistiche non tengono conto della presenza di milioni di lavoratori saltuari o interinali, perlopiù stranieri provenienti dall’Asia continentale, che gonfiano o sgonfiano il sacco della produzione ma non quello delle statistiche sulla disoccupazione. La giapponesizzazione dell’economia ha fatto scuola, ma come vedremo non soltanto nel campo del lavoro straordinario e dell’allungamento della giornata lavorativa.

Tra gli elementi accessori alla questione disoccupazione, uno spazio è occupato dal progetto di allungare l’età pensionabile. Anche in questo caso siamo in presenza del modo contraddittorio, antisociale e barbarico dell’ essere della società capitalistica. Uno sviluppo delle forze produttive che avesse come obiettivo il soddisfacimento delle esigenze sociali, la migliore produzione e distribuzione della ricchezza dovrebbe creare migliori condizioni di vita sociale, consentire agli anziani di ridurre il periodo lavorativo da dedicare alla società, lasciando che i giovani, l’elemento più forte e più produttivo, li rilevi nell’atto fondamentale della produzione.

Nel capitalismo, invece, avviene esattamente il contrario. Nonostante lo sviluppo tecnologico e la diminuzione del tempo di lavoro socialmente necessario a produrre la ricchezza sociale, si tende ad allungare e drasticamente l’età pensionabile. Si costringono i lavoratori a rimanere all’interno dei meccanismi produttivi per trentacinque o quarant’anni con ritmi di sfruttamento sempre più pesanti, mentre i giovani rimangono a casa sopravvivendo con il salario dei genitori. La legge della massimizzazione del profitto, resa ancora più imperativa dalla caduta del saggio medio del profitto e della ossessiva concorrenza di mercato non consentono alternative al capitalismo. I vecchi a lavorare, i giovani a spasso con il rischio di finire, prima o poi, nelle file della mala vita organizzata. L’insanabile contraddizione tra l’allungamento dell’età pensionabile e la disoccupazione giovanile, è un modo di essere del capitalismo decadente, di un capitalismo cioè, che esaurita la sua spinta propulsiva, e l’ha esaurita già da tempo, non riesce a fare altro che inasprire le proprie contraddizioni, mostrando il suo aspetto antistorico e antisociale. Mentre l’allungamento di fatto della giornata lavorativa attraverso gli straordinari e i sabati lavorativi sembra legata all’incertezza e alla precarietà della fase iniziale della ripresa economica, l’allungamento dell’età pensionabile, la riforma previdenziale e le loro ripercussioni sulla occupazione, mostrano di avere un carattere necessario e duraturo.

Quali le soluzione borghesi

Il fenomeno della disoccupazione è talmente imponente che la stessa borghesia ha cominciato a interessarsene in modo preoccupato. Al fondo del suo interessamento nei confronti della disoccupazione c’è la preoccupazione che un simile esercito di diseredati possa diventare, prima o poi, una sorta di mina vagante la cui esplosione potrebbe avere degli effetti destabilizzanti ed incontrollabili. L’approccio alle questione si risolve, da una parte nel tentativo di controllare il fenomeno in modo da disinnescarlo o di renderlo meno pericoloso, dall’altra nel trarne economicamente tutti i vantaggi possibili sul terreno dei contratti e del contenimento del costo della forza lavoro.

Le metodiche di controllo passano sempre dai medesimi canali. Le forze della neo socialdemocrazia, la sinistra stalinista ed ex stalinista, l’apparato sindacale istituzionale con la sua appendice radical riformista. Da sempre la borghesia sa che le politiche dei sacrifici, alle quali la classe lavoratrice periodicamente viene sottoposta, il super sfruttamento e la disoccupazione hanno maggiore possibilità di passare, o di registrare la minore resistenza possibile, se proposte ed amministrate in loco dalla cosiddetta sinistra e dal suo armamentario sindacale. È il solito gioco con le varianti del caso dovute alla situazione specifica e alla sua gravità, ma proprio per questo più subdolo e pericoloso.

L’altro aspetto è ancora peggiore, vigliacco e premeditato. Consiste nel gabellare come soluzioni alla disoccupazione, in modo particolare a quella giovanile, il più feroce attacco alla classe lavoratrice mai praticato dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, usufruendo dell’ enorme esercito di riserva di forza lavoro che mai si è dato a vedere nella storia del capitalismo moderno. Di fronte a questo scenario, da parte del capitale e con il solito supporto dei Sindacati, si sono proposte, legislativamente ottenute e adesso praticate tutte le formule possibili, dai salari d’ingresso al lavoro interinale, passando sporadicamente dai contratti di solidarietà, atte a fare della disoccupazione e della contrapposizione occupati-disoccupati il trampolino di lancio per l’aggressione ai salari e al livello di contrattualità della forza lavoro.

Un primo approccio lo si è avuto con i contratti di formazione e i salari d’ingresso. L’obbiettivo dichiarato è quello di contenere la sempre crescente disoccupazione tra i giovani, che rappresenta circa il 30% della disoccupazione generale con punte del 55% nel sud, l’obiettivo reale è quello di avere a disposizione, per la medesime mansioni produttive, una mano d’opera il cui costo è inferiore del 40% con picchi di riduzione del salario che arrivano al 55-60% a seconda del settore e della durata dell’impiego.

Anche la borghesia francese ha praticato in un recentissimo passato, la medesima strada. In terra di Francia il capitale ha imposto i salari d’ingresso nelle grandi concentrazioni industriali con una decurtazione retributiva che mediamente è arrivata al 40-50% con punte del 70%, ben al di sotto dei salari minimi stabiliti per legge. Per fortuna la risposta del proletariato giovanile non si è fatta attendere e le piazze di Parigi e di Nantes si sono riempite di giovani proletari inferociti, che pur nella più assoluta mancanza di punti di riferimenti politici ed organizzativi classisti, completamente isolati dal resto del mondo del lavoro francese e fatalmente ancorati alla mera rivendicazione economica, hanno pur tuttavia dato vita a uno dei pochi episodi di lotta contro l’arroganza del capitalismo in tutto il continente europeo.

In Italia, anche sulla scorta di quella esperienza, i salari d’ingresso, pur continuando a esistere e ad essere considerati come uno dei mezzi più efficaci per attingere al serbatoio della disoccupazione giovanile, non si sono moltiplicati a dismisura e non hanno toccato i vertici salariali negativi che hanno innescato gli episodi di piazza francesi.

Altra grossolana mistificazione nei confronti della disoccupazione giovanile è il contratto di apprendistato. Il contratto si rivolge ai giovani tra i 15 e i 20 anni, cioè dalla fine della scuola dell’obbligo per i cinque anni successivi. Nel testo della legge si dice che è facoltà dell’impresa rinnovare il contratto o licenziare a seconda delle necessità e delle aspettative dell’impresa stessa. Nessuna garanzia per il giovane lavoratore la cui prestazione non solo è di assoluta precarietà, ma molto spesso, in contraddizione con la stessa normativa che disciplina l’orario di lavoro alle otto ore e non oltre, è costretto ad accettare gli straordinari, pena l’immediato licenziamento. Il salario, naturalmente, è inferiore a quello percepito da un normale operaio del 55% come minimo, sino a un massimo dell’80%. Con simili gabelle di tipo contrattuale e salariale sembra di essere tornati agli albori del capitalismo quando a salari di mera sussistenza corrispondeva una giornata lavorativa lunga e senza margini di garanzie sul posto di lavoro che non fossero quelli ottenuti dal duro e quotidiano scontro di classe.

Ma al capitalismo moderno tutto ciò non è sufficiente. Nella sua fase di decadenza, caratterizzata tra l’altro dalla necessità di contrapporsi alla caduta del saggio del profitto, i tradizionali metodi di contenimento del costo del lavoro devono non solo intensificarsi, ma anche adeguarsi alle impellenti necessità di un capitale che mostra di avere sempre maggiori problemi nei suoi meccanismi di valorizzazione. Quando il capitalismo vede il suo obiettivo economico primario, il profitto, sempre più difficilmente realizzabile in termini di massa che di saggio, deve allora assolutamente trovare qualcosa che vada a rivoluzionare il tradizionale rapporto con la forza lavoro in modo da rendere il prelievo di plus valore più facile, automatico e soprattutto il più possibile sganciato dai lacci e laccioli dei vecchi contratti definiti eccessivamente garantisti sia sul piano salariale che su quello del mantenimento del posto di lavoro. Questo qualcosa di nuovo ha un nome, si chiama lavoro interinale o lavoro in affitto.

La sua genesi è recente, anzi recentissima. La sua entrata sulla scena del mondo del lavoro è stata preceduta da una serie di atti preliminari che ne hanno spianato la strada. Artefici, tra gli altri, i Sindacati. Dallo storico accordo del luglio 1993 in poi gli attacchi alla classe lavoratrice si sono susseguiti ad un ritmo impressionante. Cancellata la scala mobile, ovvero depurato il salario da qualsiasi possibilità di difesa dall’inflazione, riportati i livelli salariali al potere d’acquisto degli anni 1970 (un recente studio del Economist pone l’Italia tra i paesi ad alta industrializzazione con il costo del lavoro più basso, nel 1993 in Germania il salario orario medio si aggirava sui 25 dollari, mentre in Italia era solo a 15 dollari) si è avuta una pioggia di contratti capestro che hanno inchiodato la classe operaia a livelli di subordinazione al capitale come mai era successo negli ultimi cinquant’anni. I contratti di apprendistato, di formazione lavoro, a tempo determinato, la precarietà e la flessibilità del lavoro e del rapporto di lavoro non sono stati altro che l’anticamera del lavoro in affitto, l’ultimo e più grave attacco alla classe operaia.

La prima legge sul contratto di lavoro interinale risale al 1994, ministro del lavoro Giugni, poi nuove proposte migliorative sono state aggiunte dal governo Berlusconi, sino ad arrivare a quelle più complete, e per il capitale più funzionali e meno dispendiose, del governo Dini, appoggiato dai Sindacati e dal Pds.

Il lavoro interinale o lavoro in affitto si basa su di un nuovo rapporto tra il capitale e la forza lavoro e l’eventuale loro contrattazione. Chi gestisce direttamente la forza lavoro, chi la colloca in fabbrica e chi la ritira sono le Agenzie private di collocamento. Queste centrali del caporalato industriale, a cui la società capitalistica ha conferito il ruolo di drenaggio nel mare della miseria e della disoccupazione, gestiscono una mano d’opera usa e getta, senza che tra capitale e lavoro intervengano altri fattori che non siano quelli relativi al mero sfruttamento. Affittano alle imprese gli operai necessari per il tempo necessario, che può variare dalla singola giornata lavorativa a qualche mese, poi il prestatore d’opera ritorna all’Agenzia che lo può ricollocare da qualche altra parte, a condizione che ci sia richiesta, altrimenti ritorna al suo stato normale di disoccupato, senza problemi, interferenze di tipo sindacalistico o di vertenze con la controparte. In questo senso il lavoro interinale è l’ideale strumento di arruolamento e di sfruttamento della forza lavoro. Per le imprese non c’è che da prendere, sfruttare e gettare, a seconda delle necessità economiche, dell’andamento del mercato commerciale, del contrarsi o del dilatarsi della domanda, ovvero la massima flessibilità possibile a costi molto più bassi di prima.

Per il lavoratore, ovviamente, il lavoro interinale presenta solo svantaggi e condizioni di sfruttamento inusitate, non soltanto per la novità quanto per la crudezza e l’intensità. Innanzitutto il lavoratore in affitto non ha nessuna garanzia del suo posto di lavoro, che per definizione è saltuario, occasionale e precario. Analogamente non ha nessuna garanzia sulla continuità salariale. Se lavora percepisce un salario, altrimenti non ha nessuna forma di reddito sino alla prossima chiamata da parte dell’Agenzia, sempre che ci sia necessità in qualche altra impresa. Il lavoratore può essere licenziato in qualsiasi momento senza la clausola della “giusta causa” e a completa discrezione del datore di lavoro che lo può allontanare per scarso rendimento o per disaffezione al lavoro offertogli.

I tassi di sfruttamento saranno certamente superiori a quelli medi, sia perché il lavoro in affitto andrà a soddisfare i periodi di eccezionale produzione nei settori della media e grande industria ad alto contenuto tecnologico, sia nelle piccole e medie imprese industriali e agricole, sostituendo i lavoro in nero, quello stagionale e il cottimo. Di questo supersfruttamento trarranno vantaggio non soltanto le imprese affittuarie ma anche le stesse Agenzie, le quali non potranno fare altro per alimentare il loro parassitismo, camuffato da servizio sociale contro la disoccupazione in generale e contro la disoccupazione giovanile, che spartirsi le quote di plus valore derivanti dallo sfruttamento intensivo ed estensivo del lavoro interinale.

Secondo una indagine del Ministero del lavoro francese, su di un valore base di 230 lire che l’imprenditore deve sborsare per ogni singolo addetto, solo 100 vanno in tasca al lavoratore, mentre le restanti 130 si scompongono tra contributi e profitti della Azienda. Il lavoro interinale è stato fortemente voluto da tutti i settori dell’imprenditoria, Confindustria in testa, dai futuri gestori delle Agenzie di collocamento, cioè dal capitale da investimento e da quello speculativo, che dalla nuova formula regolamentatrice il rapporto tra capitale e lavoro, si aspettano soltanto vantaggi economici, flessibilità, sgravi fiscali, e soprattutto quella tanto invocata mobilità della forza lavoro che dovrebbe rappresentare il futuro della moderna società capitalistica.

Come è già stato ampiamente sperimentato in Giappone e negli Stati Uniti, anche in Europa, a tempi ormai brevissimi, si andrà configurando un mercato del lavoro completamente nuovo. Da un lato una classe operaia, in qualche modo garantita per quanto concerne il posto di lavoro e il salario, anche se basso, il più basso possibile rispetto alle necessità di valorizzazione del capitale, dall’altro una massa di diseredati destinata ad aumentare, o a stazionare su livelli percentuali enormi attorno al 10%. In mezzo una massa fluttuante di forza lavoro che saltuariamente, in sintonia con i cicli economici e con i ritmi del processo di accumulazione del capitale. Una sorta di magma sociale che, per periodi brevi, a volte brevissimi, assurge al ruolo di sfruttato e che per il resto della propria esistenza ricade nella disperata condizione di diseredato sociale alla mercé di qualsiasi soluzione alternativa che sia in grado di assicurargli la sopravvivenza.

Oggi in Italia il fenomeno è agli inizi e per molti versi si presenta ancora sotto una veste sperimentale. Negli Stati Uniti il lavoro interinale, ha già mosso i primi passi, ha già prodotto numerose Aziende tra cui la Sintex e la Manpower che agiscono su di uno spettro di mercato internazionale. La Manpower, per esempio, ha 2000 filiali e oltre 4 miliardi di dollari di fatturato, movimentando decine di milioni di lavoratori. Ma il nuovo rapporto tra il capitale e la forza lavoro nei termini del usa e getta, non va visto con gli occhi di oggi rispetto all’attuale situazione del capitalismo italiano e internazionale. Per capire la enorme portata del lavoro in affitto, dei suoi devastanti riflessi sul proletariato e più in generale nei confronti della società, occorre spostare l’indagine in una scenario futuro. È sufficiente proiettare lo sguardo in avanti di 10-15 anni, ovvero dopo un altro paio di recessioni con relative ristrutturazioni ad alto contenuto tecnologico per avere una idea di quale dimensione sarà il problema della disoccupazione, e con quale tenacia il capitale continuerà, migliorandolo ulteriormente, ad amministrare il suo rapporto con la forza lavoro, grazie alla istituzionalizzazione del lavoro in affitto.

Le presunte risposte alla disoccupazione che provengono dalle proposte della sinistra istituzionale e dai settori del radical riformismo

Sin qui ci siamo limitati ad affrontare il fenomeno della disoccupazione sul terreno della osservazione empirica dei dati, della contraddittoria dinamica dei rapporti di produzione capitalistici e sull’uso ideologico e strumentale che ne fa’ la borghesia al solito fine di ricavarne il massimo vantaggio possibile in termini di abbassamento dei salari reali, di mobilità della forza lavoro, di depurazione del costo del lavoro. Ora è importante analizzare l’atteggiamento della sinistra, che per comodità di discorso continuiamo a chiamare tale, anche se ha perso e non da oggi, ogni concreto legame con gli interessi contingenti e storici con la classe operaia, e che dividiamo tra una sinistra istituzionale che si muove all’interno del sistema economico e sociale, ne accetta incondizionatamente la forma produttiva, ne rispetta tutte le compatibilità, riservandosi come unico obiettivo raggiungibile la meno dolorosa possibile sottomissione della forza lavoro alle necessarie, quanto immodificabili leggi della valorizzazione del capitale.

Per questa sinistra l’ agire all’interno della classe operaia, sia sul terreno sindacale che su quello più squisitamente politico, ha come punto di partenza e di arrivo la conservazione e il potenziamento dei meccanismi che regolano l’estorsione di plus valore, e come mezzo per raggiungerli, l’opera di convincimento presso i lavoratori della necessità e della ineluttabilità di tutte le politiche dei sacrifici, quelle passate, quelle attuali e tutte quelle a venire.

Pds e Sindacati, che sono la struttura portante di questa sinistra istituzionale, conservatori per attitudine ideologica, obiettivamente antioperai per prassi politica, portano sulle spalle la responsabilità di tutte le storiche, rovinose, conseguenze del più grande attacco che la borghesia abbia mai scatenato nei confronti della classe operaia.

Negli ultimi cinque anni, sotto la loro gestione è passato tutto. Una volta sposata la compatibilità delle necessità del sistema, hanno fatto in modo che nulla, assolutamente nulla potesse andarne al di là, nemmeno in via puramente teorica. Dall’annullamento della scala mobile in avanti, passando dalle “forche caudine” della variegata politica dei sacrifici, sino al lavoro in affitto, al capitale è stato concesso tutto, sia in via di principio che nella pratica quotidiana. Anzi, sul secondo terreno, quello operativo la sinistra istituzionale ha fornito le sue migliori prestazioni lavorando nel cuore della classe operaia di più e meglio di qualsiasi altra formazione borghese. Da parte loro non una parola contro l’annullamento della scala mobile giudicata un male necessario. Non una parola contro la falcidia dei contratti capestro che sono caduti a pioggia sulla testa dei lavoratori. Contratti peraltro firmati driblando le assemblee sindacali pericolose. Nulla da ridire sul lavoro in affitto, che ha visto oltretutto, un ex sindacalista dare i ritocchi opportuni, vigorosamente richiesti da tutto il mondo imprenditoriale.

Il ruolo di questa componente politica e sociale, del tutto borghese, priva di qualsiasi atteggiamento di sinistra, se per sinistra banalmente si intende un qualche afflato nei confronti della difesa degli interessi di classe, gonfia di pronunciamenti e di prassi sinistre nei confronti del proletariato si è ridotto al compito storico di consegnare i lavoratori al capitale nel modo più docile possibile, in modo che le fatidiche compatibilità non vengano superate e nemmeno messe in discussione. Da decenni il loro lavoro istituzionale lo hanno saputo svolgere con zelo e dedizione, al punto che non si è mai avuta una classe operaia così dimessa sul piano della lotta, cosi spogliata sul terreno della propria identità di classe, così debole sul terreno politico, disorganizzata e senza punti di riferimento classisti.

Ma in futuro, queste forze della conservazione di sinistra, di fronte alla gestione di masse disoccupate e diseredate destinate a crescere in numero e in rabbia sociale, saranno chiamate a un lavoro ancora più duro e scopertamente anti operaio, perlomeno ancora più scopertamente di quanto non avvenga oggi.

Per loro alla lotta di classe si è sostituita la collaborazione di classe. I proletari non sono i produttori di plus valore, i borghesi non sono i percettori di quote più o meno consistenti di questo plus valore, ma sono tutti elementi sociali, cittadini appartenenti alla medesima comunità. Tra di loro non esisterebbero contrapposizioni di interesse, oltretutto inconciliabili, ma soltanto interessi comuni che come tali devono essere salvaguardati anche a costo di fare dei sacrifici o di rinunciare alle rivendicazioni economiche. Tutte le volte che Sindacati e partiti della neo socialdemocrazia chiamano all’appello la solita classe operaia per l’ennesima politica dei sacrifici, scomodano la stessa immagine retorica della nautica di alto bordo.” Siamo tutti sulla stessa barca” se va a fondo ci andiamo tutti, quindi rimbocchiamoci le maniche e remiamo. Dimenticando, o fingendo di dimenticare che in quella stessa barca c’è chi rema e chi batte il tempo, secondo il classico schema borghese.

Per loro, pallidi difensori degli interessi del mondo del lavoro, e accesi interpreti delle compatibilità del sistema, attenti esecutori delle politiche di salvaguardia delle necessità di valorizzazione del capitale, convinti assertori che al capitalismo non c’è alternativa, il rapporto tra capitale e forza lavoro deve necessariamente assumere questo schema di sviluppo: nei momenti buoni, quando il sistema capitalistico si esprime a buoni livelli economici con alti tassi di profitto, le cose dovrebbero andare bene per tutti, ma non occorre esagerare. È sempre buona norma che le rivendicazioni salariali vengano proposte con grande senso di responsabilità per non disturbare la “gallina” dalle uova d’oro. Se proprio occorre le rivendicazioni economiche devono tenere in debito conto le compatibilità del sistema, non lo devono mettere in difficoltà con la concorrenza internazionale, non devono mai superare il tetto di inflazione programmato, non devono cioè esistere, ma se proprio non se ne può fare a meno che si comportino con il maggiore senso di responsabilità possibile e sempre ben al di sotto dei limiti delle fatidiche compatibilità.

Quando il sistema economico è in crisi, il tetto delle compatibilità si abbassa e la sinistra istituzionale fa quadrato attorno al capezzale del “grande” malato. Non solo le rivendicazioni sono sospese, occorre comprimere al massimo il costo del lavoro, accettare i licenziamenti, i contratti capestro e tutto quanto sia possibile fare perché la macchina di estorsione del plus valore possa rimettersi in moto. Nelle fasi di ripresa, come questa, quando ancora molte componenti stentano a rimettersi in moto, nonostante un incremento del Pil che sfiora il 3%, la sinistra non molla la presa, sostiene le finanziarie, il prolungamento della politica dei sacrifici e l’introduzione del lavoro interinale. Al massimo può proporre che i sacrifici vengano equanimemente distribuiti, o che il lavoro interinale non venga esteso anche ai bed jobs, ovvero ai lavori di infimo livello, ma non una critica sulla necessità che a pagare i costi delle finanziarie e della politica dei sacrifici debba essere la classe operaia con o senza compagnia. Non una parola sul principio aberrante del lavoro in affitto, ma soltanto aggiustamenti, peraltro ridicoli e insignificanti che nulla vanno a togliere alla spaventose bordate che il capitale sta sparando contro i già diroccati bastioni della difesa operaia. La sinistra istituzionale è ormai così accorpata al capitalismo, al suo modo contraddittorio di esprimersi, così morbosamente attaccata alle sue convulsioni di società decadente, da rinunciare persino a quella pantomima riformistica che l’aveva caratterizzata sino a qualche anno fa. Pds e Sindacati, con il loro codazzo di sinistri figuri tratti o dall’ambito dell’ex stalinismo o dal più becero antistalinismo di destra, sono di fatto l’arma di cui si serve il capitale per tenere calma la classe operaia, per farle digerire ogni sorta di attacco, e per convincerla che al di fuori del capitalismo non esiste altra organizzazione sociale che non sia quella basata sul “libero” mercato e sulle leggi del capitale.

La sinistra non istituzionale nella morsa dell’idealismo radical riformista

Le cose cambiano, anche se non di molto, qualora si vadano a prendere in considerazione le presunte soluzioni alla disoccupazione prodotte dalla sinistra non istituzionale, ben disposta a disattendere i principi delle compatibilità del sistema, velleitaria, bariccadiera, sinceramente mobilitata sul terreno della difesa degli interessi di classe, ma viziata da una serie di approcci metodologici e politici verso le vicende della lotta di classe, che per semplicità di discorso definiamo idealista, riformista anche se in termini radicali. Molteplici sono le applicazioni di questo approccio idealistico e riformistico, ma limitiamoci a prendere in considerazione solo l’aspetto che riguarda la disoccupazione, le sue cause e gli eventuali rimedi proposti.

Ridotto all’osso, l’approccio del radical riformismo sulle modalità di soluzione del fenomeno della disoccupazione ruotano attorno a due perni centrali: la riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario e l’introduzione, per i giovani e per i disoccupati in generale, dei lavori socialmente necessari.

Nel primo caso lo slogan è senza dubbio fascinoso, se impugnato provocatoriamente nei confronti della borghesia. Una specie di sfida a riprova della impossibilità del sistema capitalistico, nonostante l’enorme capacità produttiva, la sempre crescente massa di ricchezza prodotta, la progressiva diminuzione del tempo sociale di lavoro necessario a produrre beni e servizi, a contemplare una diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Lo stesso slogan perde di fascino e si trasforma in un pericoloso boomerang politico per quelle stesse forze che lo impugnano, quando si ritiene praticabile il suo contenuto, fermi restando i meccanismi economici capitalistici. È come pretendere che il capitalismo si comporti come una società non capitalistica continuando a essere capitalismo, ingenerando oltretutto nelle classe operaia, che di questa rivendicazione economica dovrebbe essere il soggetto politico, la falsa convinzione che la via riformistica, tanto più se radicale, di struttura, possa risolvere i suoi problemi contingenti e a venire, basta che lo voglia, che si organizzi, che lotti duramente senza mettere mai all’ordine del giorno l’abbattimento di quegli stessi meccanismi economici e istituzionali che di fatto gli rendono impossibile queste rivendicazioni radicali.

La tradizione comunista e rivoluzionaria, ha dimostrato, e non da oggi, che la necessità della rivoluzione sociale sta proprio nel fatto che, stante il regime economico capitalistico, il suo apparato poliziesco di difesa, le sue istituzioni militari e giuridiche, le rivendicazioni economiche di struttura, (ovvero le rivendicazioni che se avessero la possibilità di essere operative, come quella del lavorare tutti e lavorare meno a parità di salario), metterebbero in forse l’intero sistema economico, non hanno spazio, non soltanto perché assolutamente incompatibili con il sistema stesso, ma perché verrebbero represse dalla forza pubblica prima ancora di diventare un reale obiettivo di lotta. Ma a parte la infantilismo di una simile rivendicazione e a prescindere dalla praticabilità di una lotta politica che si muovesse su questo obiettivo, chiedere alla borghesia imprenditoriale, che a colpi di ristrutturazioni e a costo della propria sopravvivenza in quanto classe, è costretta per sopravvivere a sostituire forza lavoro con macchinari tecnologicamente avanzati per risollevare le sorti di un saggio del profitto sempre più esiguo, di continuare a pagare la forza lavoro in eccedenza abbassando l’orario di lavoro, è come chiedere alla borghesia di suicidarsi. Speranza per altro legittima, ma certamente di difficile accoglimento. Sarebbe come chiedere ai capitalisti, stretti nella morsa della concorrenza interna ed internazionale di ridistribuire i loro profitti tra i lavoratori o di produrre capitalisticamente senza però avere come obiettivo l’estorsione di plus valore dalla classe operaia. Sarebbe come chiedere ai capitalisti di comportarsi in modo anticapitalista senza togliergli da sotto i piedi la struttura economica che li rende tali.

I meccanismi economici che impongono al capitale di sostituire continuamente forza lavoro con macchine sempre più sofisticate e tecnologicamente avanzate risiedono nei principi fondamentali che regolano il processo di accumulazione.

Da parte del capitale la sostituzione di forza lavoro con macchinari ha come obiettivo quello di contenere i costi di produzione diminuendo il tempo di lavoro necessario. Ovvero l’aumento della produttività sociale del lavoro ha come condizione l’espulsione di forza lavoro dai nuovi meccanismi produttivi. Non avrebbe alcun senso per il capitale l’innovazione tecnologica se all’introduzione di nuove macchine, che presuppongono l’eliminazione necessaria di una parte della forza lavoro, questa rimanesse al proprio posto lasciando inalterato l’ammontare dei salari. Per il capitale sarebbe un doppio costo, quello dell’investimento in tecnologia e quello dei salari che andrebbero comunque corrisposti a quella parte di lavoratori che avrebbero dovuto essere sostituiti dalle macchine. Con l’evidente risultato che l’obiettivo in base al quale il capitale si era mosso: ridurre i costi di produzione abbassando il tempo di lavoro necessario e diminuendo il monte salari allontanando una parte di forza lavoro, non verrebbe mai raggiunto. Saremmo cioè in presenza di una ristrutturazione al contrario se venisse accolta la rivendicazione del lavorare meno, lavorare tutti a parità di salario. Mai la borghesia potrebbe accettare una simile rivendicazione. Qui sta il vaneggiamento riformista. Credere che tutto ciò sia perseguibile in quanto compatibile con i meccanismi di accumulazione del capitale. Il fatto è che è vero l'esatto contrario. Non solo la rivendicazione non è compatibile con le necessità del sistema, ma l'espulsione di forza lavoro è la condizione per il rinnovamento tecnologico, o se si preferisce, non è possibile nessuna ristrutturazione capitalistica se questa non comporti una corrispondente perdita di posti di lavoro. Il "lupo" riformista non ha mai perso il vizio, nemmeno nella sua versione radicale, anzi più appare radicale, estremista, utopisticamente velleitario, più si compiace di se stesso come se il mirare in alto gli conferisse maggiore credito e autorità presso quella parte di classe operaia che avesse la sventura politica di seguirlo. Evidentemente la storia non gli ha insegnato molto. Il riformismo, nemmeno nel suo periodo migliore, che è coinciso con la fase espansiva e "progressiva" del capitalismo, è mai riuscito a coniugare la concreta difesa degli interessi di classe con le necessità del capitalismo, figuriamoci oggi, in presenza di un capitalismo in decadenza dove i margini di manovra si sono praticamente azzerati e il livello delle compatibilità si è ulteriormente abbassato. Un capitalismo in decadenza, morso dall'esasperazione delle proprie contraddizioni, costretto ad attaccare la forza lavoro più di quanto non lo facesse prima, riduce inevitabilmente gli spazi di contrattualità con il suo opposto di classe, non li allarga, non li rende certamente più agibili. In simili condizioni, alzare utopisticamente il tiro, fare del radical riformismo, mischiare la fattibilità di conquiste economiche che sono possibili solo in una struttura sociale che abbia abbandonato il profitto quale suo obiettivo primario, con gli attuali scenari capitalistici, significa non aver capito nulla né dei meccanismi di accumulazione del capitale né dei principi fondamentali della lotta di classe.

Al capitalismo sempre, ad un capitalismo in decadenza a maggior ragione, non vanno chieste rivendicazioni economiche utopistiche, riforme di struttura, ma imposte lotte che inizino ad andare fuori e contro le sue compatibilità, il suo essere società del capitale, del lavoro salariato e del profitto, altrimenti la decadenza si trasformerà in barbarie con buona pace di tutti i riformismi, compreso quello radicale.

Lo slogan " lavorare tutti, lavorare meno a parità di salario" o lo si concepisce come una sfida verso la borghesia mettendo in rilievo presso la classe operaia che, nonostante l'abbassamento del lavoro socialmente necessario a produrre perlomeno la stessa quantità di merci e servizi, che permetterebbe a tutti di lavorare con giornate lavorative più che dimezzate, a ritmi di lavoro meno stressanti, la borghesia, "prigioniera" dei meccanismi economici capitalistici, nemmeno se lo volesse sarebbe in grado di assecondare una simile richiesta. Oppure le false sirene dell'utopia riformistica prepareranno il terreno per l'ennesima sconfitta della classe operaia che, dati i tempi e le improrogabilità necessità di conservazione del capitalismo in decadenza, non potrà essere che la più drammatica sul terreno politico e la più grave su quello economico.

I lavori socialmente utili

Sempre sul fronte delle possibili "soluzioni" all'attuale problema della disoccupazione, il radical riformismo ha prodotto un'altra chicca, quella dei lavori socialmente utili. Metodologicamente l'approccio è sempre lo stesso, l'errore anche; concepire il capitalismo come una sorta di "pozzo di san Patrizio" dal quale attingere permanentemente solo che lo si voglia e che ci si organizzi per farlo, senza mai mettere in discussione la possibilità che abbia un "fondo" a cui non è permesso arrivare. Si finisce col confondere le rivendicazioni economiche possibili e necessarie da quelle impossibili e velleitarie, si eludono costantemente il nesso tra la rivendicazione economica, anche la più minima ed insignificante, dal livello politico della lotta di classe, sin a presentare tutte le lotte economiche come possibili all'interno dei meccanismi di accumulazione del capitale, senza porsi il problema della loro inconciliabilità, e quindi della necessità del loro superamento rivoluzionario. Ma per il radical riformismo i termini della questione disoccupazione sono molto semplici, concreta e praticabile gli appare la soluzione, questo in sintesi lo schema: il problema da risolvere gli oltre tre milioni e mezzo di disoccupati; l'aspetto tecnico è rappresentato dai lavori socialmente utili, quello economico dalla tassazione dei redditi da capitale e da quelli derivanti dalla rendita finanziaria, obiettivo finale la piena occupazione o quasi. In via del tutto secondaria c'è da osservare che le "due" soluzioni, quella del lavorare tutti, lavorare meno a parità di salario, e quella dei lavori socialmente utili, camminano su binari diversi, paralleli, per il momento mai coincidenti. Se a qualcuno venisse in mente di collegarli tra di loro, si prefigurerebbe nell'immaginario collettivo del riformismo una società capitalistica la quale non solo avrebbe abbondantemente risolto il problema della disoccupazione, ma si troverebbe nella condizione di creare nuovi posti di lavoro a comando, ogni qual volta si presentasse l'occasione, o addirittura in chiave preventiva.

Anche in questo caso occorre distinguere il grano dall'oglio, ovvero le buone intenzioni dalla loro fattibilità. Se con i servizi socialmente utili si intendono l'assistenza agli anziani, la cura dell'ambiente, l'assistenza ai musei ecc..ben che vada, e sempre che lo stato, le province o i comuni abbiano i fondi da dedicare a questi lavori, si recupererebbero qualche decina di migliaia di posti di lavoro su tutto il territorio nazionale. Se invece si intendono tutti quei bisogni che la società capitalistica crea e che non è in grado di soddisfare e che comporterebbero una occupazione di qualche milione di lavoratori relativa ai servizi sociali, il discorso cade immediatamente e si rientra nell'ambito dell'utopia riformistica che non coglie il nesso tra lo sviluppo economico del capitalismo, la fase storica di decadenza e l'esplodere della inconciliabilità delle sue contraddizioni. Nello specifico la contraddizione non superabile è rappresentata dal rapporto tra i bisogni sociali che il capitale crea ma non soddisfa e la forza lavoro che il capitale non impiega, ovvero il rapporto tra lavoro socialmente inutilizzato e i bisogni sociali insoddisfatti.

In altri termini occorre mettere in rapporto le cause che rendono superflua una certa quantità di forza lavoro, che determina il fenomeno della disoccupazione strutturale e la mancanza di risorse finanziarie, non solo per i cosiddetti lavori socialmente utili, ma anche per i lavori socialmente necessari, sia in ambito strettamente produttivo che nel settore dei servizi sociali, quali la scuola, la sanità, l'assistenza e la previdenza.

Sul primo versante la decadenza del capitalismo si manifesta con l'accelerazione della caduta del saggio medio del profitto. Senza entrare nel merito tecnico della questione, ma rimanendo ai dati empirici del fenomeno, si riscontra come, nei paesi ad alta industrializzazione, fatte le debite differenze di velocità di caduta e di efficacia delle temporanee misure di controtendenza da paese a paese, da settore produttivo a settore produttivo, dal secondo dopoguerra a oggi, il saggio del profitto sia diminuito del 30%-35%. Il che ha avuto come inevitabile conseguenza la esasperazione della concorrenza tra capitali sia sui mercati interni che su quello internazionale. Mai come in questi ultimi 25 anni i segmenti del capitalismo mondiale hanno dato vita a ferocissimi scontri sul terreno produttivo, commerciale, doganale e finanziario. L'aumento della aggressività nella competizione e l'uso ritorsivo del protezionismo continuano a proporsi come dati "normali" all'interno del mercato mondiale. Più il saggio del profitto tende a diminuire più la concorrenza tra capitali diventa spasmodica e più i meccanismi di valorizzazione del capitale impongono la compressione dei costi di produzione, primo fra tutti il costo del lavoro.

È nella storia del capitalismo, delle sue crisi cicliche e nella attuale fase di decadenza, che la risposta alla diminuzione del saggio del profitto e alla più esasperata concorrenza che ne deriva, passi attraverso i tentativi di contenimento del costo del lavoro, sia sul terreno della diminuzione del potere d’acquisto dei salari attraverso una contrattualità sempre più penalizzante per il mondo del lavoro, e la sostituzione di mano d'opera per mezzo di macchine sempre più tecnologiche, sempre più in grado di utilizzare una quantità di forza lavoro minore, e in termini relativi al capitale impiegato, che in alcuni casi, in termini assoluti. In questa fase nei termini capitalistici dell'organizzazione della produzione e della distribuzione dei redditi, una maggiore produttività sociale del lavoro implica necessariamente una disoccupazione strutturale attorno al 10%-12% indipendentemente dal ciclo economico. Eventualmente il susseguirsi di recessioni e di riprese economiche possono mutare il dato percentuale di qualche punto in più o in meno, ma non possono mutare di molto l'entità del fenomeno se non in peggio. Il primo effetto economico sociale che la disoccupazione strutturale innesca è la contrapposizione, favorita e guidata dalla stessa borghesia, tra occupati da una parte e disoccupati dall'altra, tra garantiti sul piano occupazionale e su quello retributivo e i non garantiti su nessun terreno, nemmeno quello della previdenza sociale. Il secondo effetto è rappresentato dalla possibilità da parte del capitale di imporre ai "garantiti" livelli di contrattualità più flessibili e salari più bassi, certamente più bassi di quelli che avrebbe potuto imporre senza quell'enorme esercito di riserva che lui stesso ha creato attraverso le varie fasi della ristrutturazione produttiva.

In definitiva, nella fase di decadenza del capitalismo, la caduta del saggio del profitto esaspera i termini della competizione sui mercati, impone il contenimento del costo del lavoro, lo determina attraverso l'utilizzo di macchinari che abbiano l'obiettivo di abbassare i tempi di produzione e di eliminare una parte dei salari, crea disoccupazione non più riassorbibile e consente al capitale una politica di bassi salari. Più aumenta la produttività sociale del lavoro, più cresce la disoccupazione e più i salari reali diminuiscono.

Sul secondo versante, quello delle disponibilità finanziarie da stornare dalle attività produttive per eventualmente destinarle ad altri impieghi sociali, la decadenza del capitalismo si presenta con la stessa drammaticità. La caduta del saggio del profitto, altalenante e tendenziale nel breve periodo, ineliminabile e progressiva nel lungo, finisce per produrre delle pesanti ripercussioni anche sul rapporto tra attività produttive e improduttive, sulla gestione delle politiche monetarie e sulla finanza pubblica.

In termini capitalistici ciò significa che a maggiori investimenti di capitale corrispondono saggi del profitto sempre minori, ovvero che il processo di valorizzazione del capitale si esprime tendenzialmente con un tasso di incremento minore. Che la quota minima di capitale necessario per la riproduzione allargata è sempre maggiore, sia ovviamente in termini assoluti, che relativamente alla fase produttiva precedente. Il che costringe il sistema produttivo nel suo complesso a ricorrere al credito in termini pressoché assoluti. Se agli inizi del secolo il reinvestimento degli utili e l'emissione di azioni e obbligazioni potevano coprire il 65%-70% del finanziamento delle imprese, e soltanto per la restante parte del 30%-35% si faceva ricorso al credito, oggi i termini si sono completamente rovesciati. Le imprese, soprattutto se di grandi dimensioni, con saggi del profitto progressivamente decrescenti e con la necessità di disporre di masse di capitali sempre maggiori per far fronte alla incessante concorrenza, alle conseguenti necessità di ristrutturazione, sono costrette all'indebitamento costante per non perdere di competitività e per non uscire dal mercato. Connessa a questa dinamica abbiamo assistito al crescere del debito pubblico, al saccheggio dei fondi per la previdenza e alla caduta dello stato sociale. Nel capitalismo nulla avviene fuori o contro le leggi della valorizzazione. Si può, e giustamente, denunciare la corruttela della società borghese, l'arrogante ladrocinio della partitocrazia nei confronti dell'intera società, la mancanza di "professionalità" di alcuni segmenti della imprenditoria nazionale coperti e difesi dalla complicità dello stato, ma non si può certamente incolpare questi episodi di mal gestione capitalistica e di malcostume politico di essere la causa della decadenza del sistema.

Il debito pubblico, ovvero il debito contratto dallo stato con i sottoscrittori italiani e stranieri con la ammissione di titoli pubblici, Bot-Cct e consimili, ha funzionato finché ha potuto, come sostegno all'economia nazionale sempre bisognosa di capitali, di crediti agevolati che le permettessero di galleggiare nel mare della competizione internazionale. Ruberie a parte, che sono e resteranno una costante nella vita del capitalismo, il grosso dei 2 milioni di miliardi di debiti, è andato direttamente o indirettamente a foraggiare le imprese di stato, quali l'Iri, Eni, Stet, per citare le più importanti, alcune imprese private di importanza nazionale come la Fiat, Pirelli e Olivetti. Lo stato cioè, in questi ultimi quindici anni ha dovuto indebitarsi per sottrarre il capitalismo italiano dal fallimento produttivo. Ma così facendo si è messo nelle condizioni di fallire egli stesso, sul piano finanziario, travolto da una valanga di debiti. La stessa cosa, anche se su di un altro versante, è avvenuta con il presunto fallimento dell'Inps. Ancora una volta lo stato, strumento politico del mondo imprenditoriale, custode supremo degli interessi capitalistici e vestale delle istituzioni economiche che regolano lo sfruttamento della forza lavoro, negli anni travagliati delle crisi economiche, preoccupato che le politiche dei sacrifici pagate dalla classe lavoratrice e che la disoccupazione crescente potessero creare problemi sociali e di ordine pubblico, ha messo in atto una serie di ammortizzatori sociali, dei quali la cassa integrazione guadagni è stato il principale, senza che le imprese ne pagassero il costo. Come? Semplice: facendolo pagare alla stessa classe operaia, attingendo le quote di capitale necessarie dal fondo pensioni, cioè da quanto i lavoratori avevano accantonato, detraendolo dal proprio salario, per il loro futuro di non lavoratori. Evidentemente al capitalismo in decadenza non è più sufficiente sfruttare al massimo la classe operaia nel momento della produzione in fabbrica, lo deve fare anche fuori dai meccanismi produttivi, in chiave preventiva, allontanando l'età pensionabile, riducendo le pensioni, dopo aver saccheggiato per anni i fondi che contrattualmente erano stati versati.

A questo punto, uno stato che si è coperto di debiti per contenere l'esplosività delle contraddizioni economiche del sistema, che ha affondato fraudolentemente la mano nei "risparmi" pensionistici dei lavoratori per sollevare le imprese dall'onere degli ammortizzatori sociali, non poteva avere risorse finanziarie di nessun tipo per far fronte alle sue incombenze sociali. La fine dello stato assistenziale prima, e dello stato sociale poi, trova la causa prima nel fallimento delle politiche anti cicliche, nell'intervento dello stato nell'economia, nel capitalismo stesso. Che oggi il mondo borghese gridi ai guai che lo stato avrebbe prodotto nell'economia con la sua inefficiente presenza, che invochi le privatizzazioni, il ritorno al liberismo quali armi tecniche e ideologiche per uscire dall'ennesima crisi, quando per quarant'anni ne ha invocato la presenza e di questa presenza ne ha raccolto i frutti, fa parte di quella schizofrenia che si impadronisce della borghesia nel momento in cui le crisi economiche sconvolgono i suoi piani di accumulazione e di realizzazione dei profitti.

Il problema per il capitalismo non consiste nella eccessiva presenza dello stato nell'economia, o nel ritorno, peraltro impossibile ai dettami economici del liberismo, il problema sta nel capitalismo stesso e nella sua fase di decadenza che rende sempre meno controllabili le sue contraddizioni e sempre più evidenti le conseguenze sociali che ne derivano.

La pressoché totale eliminazione dello stato sociale, il disimpegno finanziario delle istituzioni nazionali, regionali e comunali su materie come la scuola e l'assistenza ospedaliera, sugli anziani e sul territorio, inteso come migliore qualità di vita per gli abitanti, non sono dovuti ad una cattiva coscienza della amministrazione pubblica, o a una cattiva amministrazione degli obiettivi sociali, ma alla impossibilità da parte del capitalismo decadente di soddisfare queste necessità sociali, pena l'ulteriore aggravamento della già precarie condizioni economiche.

Ne consegue, per tornare al problema principale posto dal radical riformismo, rappresentato dal rapporto tra i bisogni sociali che il capitale non soddisfa e la forza lavoro che non impiega, tra il lavoro inutilizzato e i bisogni insoddisfatti, che non è all'interno della società capitalistica che si possono trovare i mezzi alla soluzione del problema. Anzi è vero il contrario, che all'interno della forma produttiva capitalistica si riscontrano le cause della nascita e del rafforzamento del fenomeno, della sua contraddittorietà e della sua insolubilità, fermi restando i meccanismi economici che lo hanno prodotto.

Dire che la disoccupazione potrebbe essere eliminata, o quantomeno ridotta ai minimi termini, impiegando quella forza lavoro che è stata espulsa dalla produzione per i lavori socialmente utili, coniugando tra di loro due termini inconciliabili, significa non aver capito nulla sulle cause che hanno determinato il fenomeno della disoccupazione e della inadempienza dello stato verso le fondamentali necessità del vivere sociale. O significa che si è politicamente in mala fede, che si finge di perseguire un obiettivo di cui si conosce l'impossibilità del suo raggiungimento, ma che lo si propone lo stesso come slogan o parola d'ordine alle masse lavoratrici, pur di avere il supporto elettoralistico da spendere nelle sedi più opportune, nella corsa al potere politico.

In entrambi i casi i termini della questione non cambiano. Porsi utopisticamente nella prospettiva politica di risolvere in termini riformistici gli sconquassi economici, finanziari e sociali che il capitalismo decadente è costretto a produrre, senza porsi nemmeno il problema di andare alle cause che li hanno posti in essere, è come pretendere che il processo di ossidazione non avvenga in presenza dell'aria, o che un corpo non si bagni se immerso nell'acqua. Il riformismo in generale, e quello radicale in modo particolare, hanno la sorprendente caratteristica di pretendere di eliminare gli effetti negativi di un fenomeno senza minimamente intaccare che cause che lo producono, come se tra i primi e le seconde non ci fosse un rapporto di necessità causale, ma di semplice derivazione, e che lavorando opportunamente su questa sia possibile ottenere l'obiettivo sperato.

Chi paga

Un'altra questione si pone nel momento in cui, seguendo la logica del ragionamento riformista, si arriva al dunque della eliminazione della disoccupazione attraverso l'istituzione dei lavori socialmente utili, chi paga? Non certamente lo stato. E non per cattiva volontà o per efferata cattiveria, non lo potrebbe fare nemmeno se lo volesse. Questo stato, sull'orlo della bancarotta fraudolenta, che ha fallito la missione storica di salvare il capitalismo dalle proprie contraddizioni, non ha più i soldi nemmeno per garantire i lavori e le funzioni sociali necessari, figuriamoci se è in grado di reperire fondi per i cosiddetti lavori utili. Si sono tagliate le spese per tutte le attività improduttive: Con le ultime finanziarie per le attività scolastiche e ospedaliere si sono ridotte del 60% le disponibilità di gestione, il governo Dini ha dichiarato chiusa l'esperienza della cassa integrazione. Da oggi in avanti, se il mondo del lavoro vuole continuare su questa strada, gli ammortizzatori sociali se li deve pagare da solo, al massimo lo stato può intervenire con prestiti che devono essere restituiti con tanto di interessi e nei termini di tempo prefissati. Tutti gli sforzi sono concentrati nel tentativo di sanare lo spaventoso debito pubblico e il deficit statale. Per i prossimi dieci anni almeno, indipendentemente dalle riprese, e a maggior ragione per le eventuali crisi economiche, sulla società dei lavoratori, dei disoccupati e dei pensionati non caleranno opportunità di lavori necessari, utili, o un nuovo stato sociale, ma soltanto finanziarie e attacchi ai già risicati livelli di vita. lo stato non paga, non può pagare per tutti quei rami secchi dell'economia, per le attività improduttive, per quei lavori che per lui non sono assolutamente utili e che gli costerebbero una cifra che non sarebbe assolutamente in grado di stanziare.

Non i lavoratori che già devono sopportare il peso della ristrutturazione economica. Il plus valore estorto alla classe operaia è appena sufficiente a garantire il normale sviluppo delle attività produttive e non può contemporaneamente, stante l'attuale livello di sfruttamento, provvedere "autonomamente" al finanziamento, anche se solo in una parte, dello stato sociale, degli ammortizzatori sociali, o auto tassarsi per tamponare l'emorragia della disoccupazione ne creare fondi per i cosiddetti lavori utili. Anche se, in un recentissimo passato, la borghesia ha usato i "cassa integrati" per quest'ultimo scopo, pena l'immediata perdita del diritto di godere della cassa integrazione se si fossero rifiutati di ottemperare alla normativa. Gli stessi lavoratori hanno pagato di tasca propria il loro impiego nei lavori socialmente utili senza gravare sulle casse dello stato. Ma l'esperienza ha riguardato un numero irrisorio di nuovi posti di lavoro ed è finita con la fine della cassa integrazione stessa, cioè con la fine di quella quota di plus valore che i lavoratori avevano accantonato per le loro pensioni e che è stata saccheggiata dallo stato per evitare che i costi del più importante degli ammortizzatori sociali gravasse sulle spalle delle imprese.

Resterebbe la borghesia, e su di lei il radical riformismo punterebbe per risolvere il problema della disoccupazione attraverso la creazione di nuova occupazione con i lavori socialmente utili, componendo la contraddizione tra il lavoro inutilizzato e i bisogni insoddisfatti.

Come? Semplice, i soldi necessari verrebbero raccolti colpendo l'evasione fiscale, tassando le rendite finanziarie, tassando i redditi da capitale, ma anche, e questa è una piccola "chicca" di realismo politico, scorporando una parte del salario operaio che andrebbe ad incrementare il fondo "lavori utili".

Sui primi due punti c'è poco da dire, se non che, essendo la borghesia al potere politico, difficilmente un suo governo, anche se di "sinistra" avrebbe l'ardire di intaccare certi privilegi finanziari, soprattutto allo scopo di risolvere il problema della disoccupazione. Una frontale ed efficace lotta alla evasione e alle rendite parassitarie potrebbe essere condotta solo da una pressione proletaria nella fase iniziale del suo assalto rivoluzionario e non da un governo borghese impegnato a far quadrare i conti di un capitalismo quasi perennemente in crisi di profitti. Ma se per ipotesi fantapolitica, un governo borghese di "sinistra", nonostante tutto e tutti attuasse una sorta di patrimoniale sui Bot e Cct, come predica o finge di predicare Bertinotti, innanzitutto vivrebbe lo spazio di un mattino, secondariamente, se avesse la ventura di continuare, andrebbe a minare le basi del debito pubblico sui cui stentatamente si sono basati gli ultimi quindici anni di accumulazione capitalistica, creando le basi della bancarotta della stato. Sull'ultimo c'è da dire qualcosa di più. Secondo le tesi ultimamente affermatesi nell'ambito del riformismo più o meno radicale (leggere di Lunghini "L'età dello spreco"), anche il proletariato dovrebbe partecipare alla costituzione del "fondo" contribuendo con una parte del proprio salario. E per il semplice motivo che, data la situazione attuale, i disoccupati vivono già del salario differito degli occupati usufruendo in famiglia del trasferimento, anche se soltanto parziale, del reddito di chi è occupato. A questo punto sarebbe sufficiente istituzionalizzare la situazione scorporando una parte del salario dell'occupato in favore del fondo per i lavori socialmente utili, dando così all'ex disoccupato un posto di lavoro e un minimo di salario. A parte il fatto che così facendo si accolla ancora una volta, anche se soltanto in parte, l'onere della soluzione del problema disoccupazione alla classe operaia stessa, ma si finirebbe per rendere ufficiale, oltre che operativa, la prassi in base alla quale, in tempi di capitalismo decadente, bisogna adattarsi a vivere in famiglia con un solo salario, comunque scorporato, anche se gli "occupati" sono due, o con due salari se gli "occupati" sono quattro. Ma ciò che dimentica il professor Lunghini è che oggi il potere d'acquisto dei salari si è enormemente ridotto e che in futuro le cose dovrebbero soltanto peggiorare, per cui come è materialmente possibile che la classe operaia contribuisca finanziariamente al "fondo" in un regime di alta disoccupazione e di bassi salari senza penalizzarsi più di quanto non la costringa a fare la stessa borghesia.

Ma il pezzo forte di questa tesi è rappresentato dalla tassazione sui redditi da capitale, mirabile esempio di concretismo utopistico. L'obiettivo dichiarato è quello di raccogliere i mezzi finanziari per creare il "fondo". lo strumento è la tassazione dei profitti. Il problema tecnico-politico da risolvere: convincere la borghesia imprenditoriale ad accettare una simile proposta. I primi due punti rappresentano l'utopia, il terzo rappresenterebbe l'aspetto concreto. Per invogliare i gestori del capitale a rinunciare ad una parte dei loro profitti in favore della classe operaia disoccupata, e già qui ci sarebbe da interrompere il discorso in quanto banale, politicamente infantile e privo di qualsiasi probabilità di successo, è necessario che i capitalisti, nell’ atto della produzione materiale di merci, ovvero nell'esercizio della loro funzione di percettori di plus valore, vengano lasciati liberi di operare. Il che vuol dire che al capitalista non devono essere creati ostacoli nel processo di sfruttamento della forza lavoro, unico vero scopo di qualsiasi attività produttiva. Il plus valore relativo, e perché no anche quello assoluto, devono essere estorti al massimo perché l'incentivo della massimizzazione del profitto non venga compromesso in nessuna maniera. Le condizioni sono l'iper sfruttamento e bassi salari, altrimenti l'economia si deprimerebbe, non sarebbe in grado di reggere il peso della concorrenza internazionale, e allora addio agli alti profitti e con loro addio alla possibilità di stornarne una quota per il solito "fondo". Quindi, condizione perché si possano pagare i lavori socialmente utili con i soldi della borghesia imprenditoriale è che i rapporti di produzione capitalistici funzionino al meglio, che la classe operaia occupata venga sfruttata di più e meglio, che i salari siano di fame o quasi e allora, e solo allora, si potrà chiedere ai gestori del capitale di devolvere una quota dei loro profitti per risolvere il problema dei disoccupati. In altre parole la grande soluzione riformista sta nel far pagare ancora una volta alla classe operaia il costo dell'operazione in termini di maggiore sfruttamento e di bassi salari, di maggiore estorsione di plus valore, di cui una quota parte, a dio e alla borghesia piacendo, dovrebbe ritornare da dove è venuto sotto forma di finanziamento ai lavori socialmente necessari.

A parte la ridicolaggine della "soluzione", che comunque non sarebbe a favore della classe operaia se essa stessa dovesse accollarsi il peso della operazione, quello che lascia perplessi nell'ideologia riformistica, moderata o radicale che sia, è che si continuano a fare i conti senza l'oste borghese, o fingendo che l'oste borghese si comporti secondo schemi economici che non gli sono propri, se non addirittura contrari. Come se, colpire l'imprenditore capitalista dopo l'atto produttivo attraverso una tassazione dei profitti fosse per lui meno indolore o psicologicamente più tollerabile, dimenticando tra l'altro, che tassando i profitti non si va ad intralciare economicamente la trascorsa fase di produzione, ma si intaccano i meccanismi finanziari degli investimenti per la nuova fase produttiva. Che il "taglio" sia prima, durante o dopo l'atto produttivo, quando si vanno a toccare i profitti, il mondo imprenditoriale non ci sta, soprattutto in una fase storica, ed è lo stesso riformismo ad ammetterlo, in cui i margini di profitto tendono a diminuire anche nelle fasi di espansione economica.

È una pia illusione credere che la borghesia, sia pur messa nelle migliori condizioni possibili per quanto riguarda l'estrazione di plus valore, accetti o peggio ancora venga costretta, a lasciare nelle mani dei disoccupati, quegli stessi che lei ha creato estromettendoli dai rapporti di produzione per ridurre i costi, quote dei suoi profitti. Mai e poi mai accetterebbe un simile invito o, peggio ancora, una simile imposizione. E poi quale sarebbe il soggetto politico in grado di proporre o di imporre alla borghesia questa soluzione di un problema che economicamente non le appartiene?

La questione non è di poco conto. Se si esce dalle ipotesi idealistiche e utopistiche del riformismo, soprattutto quello radicale, e si affrontano seriamente tutti i nodi politici che la disoccupazione impone, a parte improbabili governi di "sinistra" che si facciano carico di comporre questa contraddizione capitalistica ferme restando le cause che l'hanno determinata, escludendo che la stessa borghesia, adeguatamente sollecitata, si prenda la briga di accollarsi l'onere finanziario, l'unico soggetto politico in grado di imporre tutto ciò è il proletariato. Ma anche sul terreno politico continuano le dolenti note. Innanzitutto va evidenziato come in questa fase, in cui la borghesia sta scatenando il più massiccio e aggressivo attacco alla classe operaia, quest'ultima si trovi nelle peggiori condizioni politiche e organizzative possibili. In pratica è passato di tutto. Dall'azzeramento della scala mobile al decreto sulle pensioni, dai licenziamenti ai contratti capestro, dagli straordinari "obbligatori" al lavoro interinale, senza che da parte della classe operaia ci sia stata una risposta qualsiasi. Tra l'altro se l'attacco borghese è passato senza trovare significative opposizioni, lo si deve proprio al senso di responsabilità dei sindacati e dei partiti della "sinistra", cioè al composito mondo riformista, che ha convinto i lavoratori sulla giustezza della ennesima politica dei sacrifici, sulla improponibilità di una alternativa a questo sistema economico decadente, con l'aggravate di proporre come unica forma di lotta praticabile quella di " pagare tutti e pagare meno". Proprio questo riformismo, dopo aver distrutto, smembrato e ridotto ai minimi termini la coscienza di classe, ha il coraggio di chiamare la classe operaia ad una lotta assolutamente improponibile, velleitaria negli obiettivi e politicamente perdente.

Sarebbe già qualcosa che il proletariato incominciasse, dopo anni di sconfitte economiche e politiche, di tradimenti subiti da quelle stesse forze che a parole si sono sempre dichiarate disposte a difenderne gli interessi, a rialzare la testa, a riprendere in mano l'abc della lotta di classe, a sentirsi non parte integrante, anche se ai minimi livelli della società borghese, ma parte sfruttata e diseredata.

Sarebbe già qualcosa assistere ai primi timidi e spontanei movimenti di "resistenza" ai feroci attacchi della borghesia su questioni molto semplici ma molto concrete e quotidiane come i licenziamenti, gli straordinari e il lavoro interinale. Il rendere difficile il percorso della politica dei sacrifici all'avversario, in questa fase storica di bassissimo livello della lotta di classe, sarebbe già un piccolo successo, un primo passo verso la riacquisizione di quella coscienza di classe che è andata perdendosi nel corso di decenni di prassi e di ideologie anti operaie.

Sarebbe importante che le sparute avanguardie della classe, i comunisti rivoluzionari, fossero in grado di proporsi quale punto di riferimento politico e organizzativo alle prime avvisaglie della ripresa della lotta di classe. Anche perché, se il proletariato dovesse alzare la testa, proporsi anche soltanto da un punto di vista meramente economico e rivendicativo sul terreno dello scontro di classe senza una guida politica, senza uno straccio di programma e di strategia, senza nemmeno l'embrione di quello che dovrà essere domani il partito rivoluzionario della classe operaia, andrebbe incontro all'ennesima sconfitta, forse la più grave perché spianerebbe la strada alla più feroce delle repressioni borghesi e all'ulteriore imbarbarimento della società capitalistica.

La ripresa della lotta di classe non ha percorsi già stabiliti da ripercorrere nei tempi e nei modi dovuti o scorciatoie tattiche da imboccare per accelerare i tempi della sua emancipazione, ma le condizioni imposte dall'avversario di classe sia sul terreno economico che politico e da queste occorre ripartire. Ripartire nelle attuali condizioni significa, per chi si colloca nella prospettiva rivoluzionaria, contribuire al recupero dell'identità di classe, organizzare l'opposizione agli attacchi della borghesia e fare in modo che larghe stratificazioni della classe operaia non cadano nei tranelli conservatori delle proposte riformiste o radical riformiste. Ciò non sarebbe soltanto un errore tattico, un abbaglio, una lotta persa in partenza ma l'atto preparatorio alla più tragica delle sconfitte politiche della classe.

La decadenza del capitalismo

La borghesia internazionale ha consacrato gli anni 1990 alla fine dell’utopia comunista. Dal fatidico 1989 in avanti, non è passato anno, mese, giorno che non si celebrasse la scomparsa delle forme economiche e delle istituzioni legate al cosiddetto socialismo reale. Le celebrazioni, proposte in mille forme ma con il medesimo contenuto, avevano il doppio scopo di mostrare, alle proprie classi subalterne, di quale abbaglio si erano rese interpreti nell’inseguire l’utopia marxista dell’alternativa sociale, e la forza propositiva del capitalismo, il quale avrebbe retto, alla luce della storia, non solo al confronto diretto, immediato, ma anche a quello futuro, nei secoli a venire.

In realtà i meccanismi di crisi, a partire dagli inizi degli anni settanta, con una progressione distruttiva devastante, che hanno travolto le economie dell’est e messo in seria difficoltà quelle occidentali, non hanno colpito due forme di organizzazione economiche differenti ma una eguale forma produttiva dalle differenti modalità di gestione. Mondo occidentale e Paesi dell’est, nonostante le origini storiche diverse per genesi e obiettivi, si sono ritrovate ad amministrare la medesima base economica capitalistica. Solo che nel primo caso, lo sviluppo si è protratto sui tradizionali ceppi del capitalismo privatistico, retaggio e premessa del liberalismo novecentesco, mutuato anni dopo dal Keynesismo. Nel secondo, la sconfitta della rivoluzione d’ottobre, ha partorito il più accentrato capitalismo di stato che la storia moderna ricordi. Piaccia o no, in entrambi i casi se di crisi o di fallimento bisogna parlare, lo si deve fare in termini capitalistici.

Distinguendo il grano dal loglio, ovvero la tradizione capitalistica occidentale da quelle dell’est.

Il fatto è che la decadenza della forma produttiva capitalistica si sta manifestando globalmente mettendo in difficoltà tutte le funzioni economiche normali e penalizzando in modo particolare gli schieramenti più deboli.

Pur restando nel settore “forte” del capitalismo, in quello occidentale, i segni della decadenza economica si avvertono sempre più sensibilmente. Un primo esempio è fornito dalla diminuzione del tasso di incremento del PNL. Nell’area dei paesi ad alta industrializzazione, agli inizi del secolo, prendendo in considerazione un periodo di tempo sufficientemente lungo, 15 anni, si aveva che mediamente che l’incremento del PNL, rispetto al periodo precedente era dell’8%. Nella seconda metà degli anni 1950 era già sceso al 4%, oggi, fatte salve le aree di nuova industrializzazione, nel medesimo lasso di tempo, l’incremento è solo del 2%.

Ciò significa che, nonostante l’incremento degli investimenti, lo sviluppo enorme della tecnologia e la teoricamente immensa possibilità di produrre beni e servizi di alta qualità a costi sociali sempre più bassi, l’aumento della ricchezza sociale si esprime a tassi sempre minori. La stessa cosa espressa in altri termini sta a significare che, nonostante lo sviluppo tecnologico, l’incremento produttivo di beni e servizi in termini capitalistici, è destinato a contrarsi sempre di più.

Sul fronte dei meccanismi di valorizzazione del capitale le cose non vanno meglio. Mentre vanno progressivamente aumentando le quote minime di capitale da reinvestire di ciclo di produzione in ciclo di produzione, il saggio medio del profitto diminuisce. Anche in questo caso siamo in presenza di una crescente difficoltà del capitale ad esprimersi positivamente in termini “capitalistici”. Ovvero va esaurendosi la sua funzione di stimolatore delle forze produttive a saggi di valorizzazione del capitale compatibili. Ormai da decenni si assiste al fenomeno di investimenti sempre crescenti, a masse di profitto sempre maggiori, e questo è sempre stato tipico del capitalismo, ma a saggi medi del profitto “spaventosamente” bassi. Le stesse statistiche borghesi parlano per l’esperienza americana di una diminuzione del saggio medio del profitto del 30,35% rispetto al periodo dell’immediato secondo dopoguerra.

Più investimenti, più tecnologia, meno forza lavoro da cui estrarre plus valore, e proporzionalmente meno profitti per il capitale investito. Il capitalismo che vive di capitale e per il capitale corre il rischio di vedere sbarrare la strada alle sue necessità di riproduzione e di valorizzazione dal capitale stesso.

Anche le crisi economiche vanno denunciando lo stato di decadenza della società capitalistica. Non certamente nel loro essere. Da sempre le crisi economiche stanno al capitalismo come l’autunno all’estate, come la morte spegne la vita alla fine del ciclo biologico. Il ciclo economico crisi-ripresa-crisi è il modo di essere del capitalismo stesso, di nuovo ci sono la frequenza, l’intensità e l’estensione. Nel secolo scorso, ai tempi di Marx, il capitalismo, ancora in fase espansiva, si produceva in crisi economiche ogni dieci anni circa, da vent’anni a questa parte le crisi si presentano con una scadenza di cinque o sei anni. La “scienza” economica borghese che, in occasione del crollo dei paesi dell’est, tronfiamente aveva annunciato apertasi l’era post industriale del capitalismo avanzato, con la risoluzione di tutti i problemi relativi alla produzione e alla distribuzione di merci e servizi, prefigurando un futuro di costante benessere senza crisi e senza guerre, ha dovuto rifare i conti con una depressione, quella degli inizi degli anni novanta, che non ha precedenti dal 1945. La devastazione di questa crisi, l’ultima di una serie di cinque a partire del 1970, sia nei numeri che nelle conseguenze sociali, ha come non mai attraversato il mercato internazionale rivoltandolo nelle sue pieghe più recondite senza risparmiare nessun settore, nemmeno quelli tradizionalmente protetti dalle politiche statali.

Milioni di disoccupati e di diseredati sono tragicamente lì, anche nella fase della ripresa economica, a testimoniare l’incapacità sempre crescente del capitalismo a soddisfare le necessità sociali della stragrande maggioranza della popolazione. Dagli Stati Uniti alla vecchia Europa, passando per il “sud” del mondo capitalistico, non si è mai registrata tanta miseria, fame e morte. Secondo recentissime statistiche, negli ultimi anni, la distribuzione della ricchezza ha accentuato il divario tra nord e sud, tra ricchi e poveri.

Un miliardo e seicento milioni di persone sopravvivono sotto la soglia di sussistenza. Nei paesi avanzati il 20% della popolazione detiene l’85% della ricchezza, e all’interno di quel 20% il 5% fa la parte del leone accaparrandosi il 70%. Sempre nei paesi avanzati, il numero dei diseredati metropolitani è salito a livelli di guardia. Più di 40 milioni nei soli Stati Uniti, quasi il doppio in Europa, ex paesi dell’est compresi.

L’assurdo della società capitalistica, se di assurdo si può parlare, visto che è nel suo ciclo biologico vivere di contraddizioni, è che nel momento di maggiore capacità produttiva, quando la massa di beni realmente prodotta e/o quella teoricamente producibile stante l’attuale disponibilità tecnologica, si riduce l’accesso al consumo ad una parte sempre crescente della popolazione. I servizi sociali più importanti, quali l’istruzione, la sanità, la previdenza invece che moltiplicarsi si riducono concedendo solo a pochi il privilegio di usufruire al meglio delle strutture sociali strategiche.

Più tecnologia, più produzione e meno consumi sociali. Più tecnologia, più ricchezza sociale e più aumentano i poveri e i diseredati. In aggiunta si assiste all’altro fenomeno perverso, tipico di una società in decadenza. L’avanzamento tecnologico, invece di creare tempo libero, di ridurre le ore lavorative in proporzione alla diminuzione del tempo socialmente necessario alla produzione di merci e servizi, aumenta il tasso di sfruttamento per chi è inserito nei meccanismi produttivi, aumenta l’età pensionabile, allunga di fatto la giornata lavorativa imponendo gli straordinari e i sabati lavorativi, impedendo ai giovani di entrare produttivamente nei meccanismi sociali.

Anche in questo caso l’uso che fa il capitalismo del progresso scientifico e della tecnologia, è il contrario di quello che dovrebbe essere, è l’ennesima dimostrazione della sua decadenza in quanto forma economica antisociale e antistorica.

Come se non bastasse, la presunta civiltà post industriale, quella che avrebbe risolto tutti i maggiori problemi in termini di produzione e di distribuzione, propone stati indebitati sino al collo e governi all’eterno attacco delle condizioni salariali e di vita della classe operaia.

Proprio gli stati capitalisticamente più avanzati hanno prodotto negli ultimi quindici anni debiti pubblici che vanno da un minimo del 60% ad un massimo del 140% del prodotto interno lordo nel tentativo di sorreggere le rispettive deboli economie in termini di crediti agevolati e di ammortizzatori sociali da non accollare alle imprese. In più nella recente crisi, quella degli inizi degli anni 1990, si è assistito ad una storico attacco al proletariato. Con una rapidità mai vista si è completamente sganciato il salario da qualsiasi meccanismo di recupero. Il potere d’acquisto dei salari è stato riportato a quello degli anni settanta. In nome della flessibilità si sono prodotti milioni di disoccupati e si è reso precario ogni posto di lavoro. I nuovi contratti e i nuovi rapporti tra capitale e lavoro, dai contratti d’ingresso al lavoro interinale, stanno mettendo la classe lavoratrice in condizioni di inusitata sudditanza nei confronti di un capitale sempre più assetato di plus lavoro e di profitti.

Il dramma che si consuma nella decadenza della società capitalistica è che alla barbarie prodotta dalle contraddizioni del capitale, sempre meno gestibili e sempre più vaste e profonde, solo il proletariato può opporsi a condizione che si riproponga come classe antagonista, che ritrovi la forza di ridarsi una struttura partitica e che abbia la lucidità politica di uscire dal pantano della sinistra istituzionale, quinta colonna della conservazione borghese. Oppure, se tardassero a presentarsi i segni di una ripresa della lotta di classe, la decadenza del capitalismo produrrebbe solo barbarie che finirebbe per colpirlo in ogni sua manifestazione di vita, dalla fabbrica al sociale e con lui le stratificazioni più deboli della società in una sorta di girone infernale per sfruttati e diseredati.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.